Il Mantello della Giustizia – Settembre 2018
di Stefano Tarocchi • In questi tempi difficili in cui i ponti crollano, portandosi dietro il loro carico di dolore e di sofferenza, e ponendo interrogativi a non finire – e risposte inadeguate e contraddittorie – , vorrei riflettere sul senso di una parola e delle sue implicazioni. D’altra parte, nella nostra storia, in Italia ed Europa, ci sono ponti costruiti venti secoli fa, che ancora adempiono egregiamente al loro compito, sulle strade di città e paesi, per il passaggio di uomini e di mezzi, e come acquedotti perfettamente funzionanti.
Il termine «ponte» deriva dal vasto mondo del bacino linguistico indoeuropeo. Fra esse spiccano il sanscrito e una lingua liturgica iranica.
Solo verso la fine del ‘700 venne scoperto il collegamento tra il sanscrito e una serie di lingue provenienti di un’origine comune, il protoindoeuropeo, che comprende la maggior parte delle lingue d’Europa, vive ed estinte, che attraverso il Caucaso e il Medio Oriente da un lato, e la Siberia occidentale e parte dell’Asia Centrale dall’altro, sono arrivate a coinvolgere l’Asia meridionale.
Ebbene, il termine del sanscrito da cui nasce la nostra parola «ponte» ha di fatto due significati: il primo significato è “via, sentiero, cammino”; il secondo è invece, inaspettatamente, “mare”.
A nessuno verrebbe in mente di accostare alla parola latina, da cui deriva il nostro “ponte”, il termine greco pontos, che invece significa “mare”. In realtà il ponte è il collegamento, la congiunzione, tra due strade distanti fra loro, che il ponte unisce, per crearne una nuova. E, come ci insegnano gli eventi recenti, il crollo di un ponte è sicuramente l’interruzione di una strada, un percorso, e quindi della vita di relazione, ad essi legata.
Ma è realmente possibile vedere un legame fra un ponte e il mare? Di fatto, il Mar Nero era chiamato dai greci Ponto Eusino, ossia “mare ospitale” (il termine più antico, tuttavia, era però il più attuale “mare inospitale”). Per di più, abbiamo in Italia il sito archeologico di Metaponto(che significa “Al di là del mare”, e l’eloquente Agro Pontino.
Perché nell’Europa greca e latina la stessa parola può indicare lo “scavalco” di una valle, per esempio quella scavata da un fiume – è la ragione principale per cui costruiamo ponti dalle nostre parti – ed un mare che permette di “scavalcare”, cioè accorciare i percorsi fra due terre, separate da una depressione o da un fiume?
Qui anche i nostri Vangeli ci sono d’aiuto. Ad esempio, così leggiamo nel Vangelo di Matteo: «Vedendo la folla attorno a sé, Gesù ordinò di passare all’altra riva» (Mt 8,18). Così si dice che Gesù è «giunto all’altra riva, nel paese dei Gadarèni» (Mt 8,28). Al ritorno, lo stesso Gesù «salito su una barca, passò all’altra riva e giunse nella sua città, Cafarnao» (Mt 9,1). Più avanti si narra che «subito dopo costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla» (Mt 14,22). Ma anche in Marco leggiamo di Gesù che «in quel medesimo giorno, venuta la sera, disse ai discepoli: «Passiamo all’altra riva» (Mc 4,35), finché «li lasciò, risalì sulla barca e partì per l’altra riva» (Mc 8,13). E così via.
I Vangeli sono perciò unanimi nel dirci che un tratto di mare è la via più breve fra due terre, due città situate sulle rive del mare di Galilea.
. La creazione di strade, di percorsi, ha anche un valore religioso, e non solo nelle Scritture. Se il “sacro” indica la separazione, il “profano”, che sembra opporvisi, è in realtà ciò che è potenziale in dialogo con il sacro: il termine, è infatti composto di pro, «davanti» e fanum, «tempio, luogo sacro». Quindi designa ciò che «che sta fuori del sacro recinto» ed ha bisogno di essere collegato con esso: l’umano necessita di entrare in contatto con il divino, attraverso una strada, come dimostra alle nostre latitudini un ponte, oppure, in altre geografie, un tratto di mare. Si presenta cioè un bisogno ineludibile di avvicinare l’umano al divino, con tutte le conseguenze del caso.
Ecco perciò che dal ponte nasce anche il pontefice, il «sacerdote che costruisce la via». Se nell’antichità, evidentemente a Roma, il nome sembra designare coloro che curavano la costruzione del ponte sul Tevere, come sembra dire l’origine del nome, in numero oscillante da 5 a 9, è maggiormente vero che in realtà i pontefici stabilivano in base a quali regole un qualsiasi rito – sacrale, processuale o negoziale che fosse – doveva essere compiuto, perché potesse considerarsi valido, e tali regole erano di volta in volta comunicate a chi lo richiedesse. Quindi, al contrario di altri sacerdoti, i pontefici non assolvevano a precise funzioni di culto, ma ne ponevano le condizioni.
Essi erano presieduti da un pontefice massimo elettivo, finché nel 12 a.C. Augusto fece propria la carica. Essa sarebbe rimasta prerogativa di tutti i successivi imperatori, fino all’era cristiana inoltrata, fin quando nella Chiesa cattolica, il titolo fu presto usato per indicare i vescovi, e in particolare il vescovo di Roma.
Con Tertulliano (155-230), per la prima volta, il vescovo di Roma è chiamato pontefice massimo.
Questa è un’altra storia, ma vediamo bene quanto è difficile per il vescovo di Roma indicare una via, senza che non sorgano frange estreme intenzionate a demolire il suo ruolo, nell’attaccare la persona. Nuovi e devastanti distruttori di ponti, destinati comunque a fallire. Lo impediscono la fede evangelica… e l’eredità delle lingue indoeuropee.