«Beati i poveri?»
Il Mantello della Giustizia – Febbraio 2023
di Stefano Tarocchi · È noto che nei Vangeli di Matteo e Luca, all’interno dell’insegnamento chiamato delle beatitudini, viene a trovarsi in primo piano quella circa i poveri. Così leggiamo in Matteo: «vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,1-3). E così leggiamo in Luca: «tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti. Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio» (Lc 6,19-20).
Qui non è possibile notare tutti gli elementi che gli Evangelisti mettono in evidenza, ma cominciando dalla folla che entra in contatto con Gesù, perché come dice il vangelo di Luca: «da lui usciva una forza che guariva tutti», le parole di Gesù sembrano piuttosto essere rivolte ai discepoli.
Non è il caso di stabilire perché Luca dice «beati voi poveri», e Matteo «beati i poveri in spirito». In sostanza non si mettono in contrasto due modi di intendere la povertà, quella che chiama direttamente in causa i discepoli («beati voi»), e quella che specifica «i poveri in spirito». Così Matteo precisa – e non diminuisce! – il senso della povertà, di fronte al rischio di renderla solo un’ipotesi: si è davvero poveri se non si è attaccati a niente, nemmeno alla stessa povertà.
Nemmeno qui importa decidere quale dei due detti di Gesù è quello più antico: probabilmente quello più sintetico di Luca, che alle quattro beatitudini da lui trasmesse (Matteo ne tramanda ben otto, più una ulteriore, che si rivolge direttamente ai discepoli) aggiunge quattro appelli, come quello che si accompagna alla beatitudine della povertà: «guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione» (Lc 6,24), letteralmente un vero e proprio grido di denuncia contro ciò che si oppone all’essere povero, che si accompagna al possesso del regno di Dio, o del Regno dei cieli, come dice Matteo.
I lessici definiscono questa parola (guai!) quasi onomatopeica «un’esclamazione di dolore o di denuncia… che esprime estremo dispiacere e chiede per il dolore una pena retributiva su qualcuno o su qualcosa: guai! ahimè!». Si trova due volte in Marco; undici in Luca, oltre alle quattro di questo contesto, e addirittura ventiquattro in Matteo
Matteo consegna quest’insegnamento di Gesù, le “beatitudini”. raccogliendolo nel primo dei cinque grandi discorsi che caratterizzano questo scritto. Insieme a Luca, come è noto, Matteo utilizza la “fonte dei detti”, ma quest’ultimo Vangelo la restituisce in maniera differente, ossia collegando insieme questa serie omogenea di insegnamenti.
Ciò che determina, tuttavia, il senso di questa esaltazione controcorrente della povertà – che non è certo al centro delle ambizioni dell’opinione corrente –, la prima di quelle situazioni controcorrente che il Vangelo consegna nelle parole di Gesù allora e oggi a quanti sono capaci di ascoltarle.
Il richiamo ai poveri lo troviamo anche in altri passaggi dei Vangeli: richiamiamo qui in particolare due brevi tratti di Matteo e Luca, che già affrontato di recente.
Le risposte di Gesù affidate agli inviati del Battista, fino a raggiungere lui stesso mentre si trova in prigione, stretto nel dilemma di aver fallito completamente la sua missione, è determinante nel mettere in rilievo proprio questo insegnamento del Vangelo.
«Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo» (Mt 11,4-5): così Matteo. E così Luca: «andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia» (Lc 7,22).
Non a caso la letteratura biblica, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, non è molto distante da queste parole, che legano la povertà e l’umiltà. Se il povero è colui che ha a disposizione come suo difensore soltanto il Signore, ecco che Sofonia, profeta scrittore vissuto nel VII secolo a.C. sotto il regno del re Giosia (640-609 circa a. C.) può così affermare: «cercate il Signore voi tutti, poveri della terra, che eseguite i suoi ordini, cercate la giustizia, cercate l’umiltà; forse potrete trovarvi al riparo nel giorno dell’ira del Signore» (Sofonia 2,3).
È un concetto che troviamo nel libro dell’Esodo, a proposito del riposo della terra ogni sette anni: «nel settimo anno non sfrutterai [la terra] e la lascerai incolta: ne mangeranno gli indigenti del tuo popolo e ciò che lasceranno sarà consumato dalle bestie selvatiche. Così farai per la tua vigna e per il tuo oliveto (Es 23,11). Un concetto, questo, proponibile ancora di questi tempi?
Ma la risposta arriva dalla seconda parte del libro di Isaia (VIII secolo a.C.), scritta da un autore anonimo che scrive all’epoca dell’esilio in Babilonia (587-538), posta sotto il nome del profeta omonimo e denominata anche “Libro della consolazione”: «i miseri e i poveri cercano acqua, ma non c’è; la loro lingua è riarsa per la sete. Io, il Signore, risponderò loro, io, Dio d’Israele, non li abbandonerò (Is 41,17).