di Stefano Tarocchi • L’omelia di papa Francesco nella sua celebrazione allo stadio fiorentino Artemio Franchi – luogo per sé stesso, ha detto, che ricorda alla Chiesa, che «come Gesù, vive in mezzo alla gente e per la gente», – ha seguito lo stringente filo narrativo di Matteo, il discepolo divenuto scrittore, commentando il brano del suo Vangelo che la liturgia assegna alla memoria di s. Leone Magno.
Ha così esordito Francesco: «Gesù pone ai suoi discepoli due domande. La prima domanda, “la gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?” (Mt 16,13), è una domanda che dimostra quanto il cuore e lo sguardo di Gesù sono aperti a tutti». Per se stesso e il suo posto nella chiesa ha riservato una prima testimonianza: «Alla domanda di Gesù risponde Simone: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (v. 16). Questa risposta racchiude tutta la missione di Pietro e riassume ciò che diventerà per la Chiesa il ministero petrino, cioè custodire e proclamare la verità della fede; difendere e promuovere la comunione tra tutte le Chiese; conservare la disciplina della Chiesa». Ma Francesco aveva già anticipato: «Mantenere un sano contatto con la realtà, con ciò che la gente vive, con le sue lacrime e le sue gioie, è l’unico modo per poterla aiutare, di poterla formare e comunicare: è l’unico modo per parlare ai cuori delle persone toccando la loro esperienza quotidiana, … l’unico modo per aprire il loro cuore all’ascolto di Dio. In realtà, quando Dio ha voluto parlare con noi si è incarnato».
Anche perché i «discepoli di Gesù non devono mai dimenticare da dove sono stati scelti, cioè tra la gente, e non devono mai cadere nella tentazione di assumere atteggiamenti distaccati, come se ciò che la gente pensa e vive non li riguardasse e non fosse per loro importante». Si tratta della stessa ansia apostolica di s. Leone, «che tutti potessero conoscere Gesù, e conoscerlo per quello che è veramente, non una sua immagine distorta dalle filosofie o dalle ideologie del tempo».
Su questo terreno scivoloso la comunità dei discepoli di Gesù dovrà guardarsi dalla tentazione dello «gnosticismo», lumeggiata nel discorso mattutino in s. Maria del Fiore. Questa tentazione – ha spiegato Francesco – porta [la Chiesa] a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello. Il fascino dello gnosticismo è quello di «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» (Evangelii gaudium 94).
Del resto ha ripetuto ancora una volta Francesco: «preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (Evangelii gaudium 49).
C’è tuttavia una nuova domanda che Gesù pone ai discepoli, la seconda: «Ma voi, chi dite che io sia? (Mt 16,15)». Essa «risuona ancora oggi alla coscienza di noi suoi discepoli, ed è decisiva per la nostra identità e la nostra missione … La Chiesa, come Gesù, vive in mezzo alla gente e per la gente. Per questo la Chiesa, in tutta la sua storia, ha sempre portato in sé la stessa domanda: chi è Gesù per gli uomini e le donne di oggi?».
Francesco aveva già richiamato al mattino anche la tentazione del «pelagianesimo», che «ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività». Il papa aveva aggiunto che «davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative». Questo perché «la dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, animare». Con una felicissima espressione il papa aveva aggiunto che la medesima dottrina «ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: si chiama Gesù Cristo», per poi affidare un compito: «innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito. Allora tutto sarà possibile con genio e creatività. La Chiesa italiana si lasci portare dal suo soffio potente e per questo, a volte, inquietante».
Per ritornare all’omelia, in cui ha Francesco ha riscaldato il cuore della chiesa (e della città) di Firenze, che lo hanno accompagnato nel suo intenso percorso, ha proseguito il papa che «la nostra gioia è di condividere questa fede e di rispondere insieme al Signore Gesù: “Tu per noi sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. La nostra gioia è anche di andare controcorrente e di superare l’opinione corrente, che, oggi come allora, non riesce a vedere in Gesù più che un profeta o un maestro. La nostra gioia è riconoscere in Lui la presenza di Dio, l’inviato del Padre, il Figlio venuto a farsi strumento di salvezza per l’umanità». Ha poi aggiunto che «alla radice del mistero della salvezza sta infatti la volontà di un Dio misericordioso, che non si vuole arrendere di fronte alla incomprensione, alla colpa e alla miseria dell’uomo, ma si dona a lui fino a farsi Egli stesso uomo per incontrare ogni persona nella sua condizione concreta».
Ha quindi concluso: «lo stesso volto che noi siamo chiamati a riconoscere nelle forme in cui il Signore ci ha assicurato la sua presenza in mezzo a noi: nella sua Parola, che illumina le oscurità della nostra mente e del nostro cuore; nei suoi Sacramenti, che ci rigenerano a vita nuova da ogni nostra morte; nella comunione fraterna, che lo Spirito Santo genera tra i suoi discepoli; nell’amore senza confini, che si fa servizio generoso e premuroso verso tutti; nel povero, che ci ricorda come Gesù abbia voluto che la sua suprema rivelazione di sé e del Padre avesse l’immagine dell’umiliato crocifisso». Tutto questo è vero perché «Dio e l’uomo non sono i due estremi di una opposizione: essi si cercano da sempre, perché Dio riconosce nell’uomo la propria immagine e l’uomo si riconosce solo guardando Dio».
E Francesco ha quindi lasciato questo piccolo e tuttavia grande segnale di speranza, per «creare un’umanità nuova, rinnovata»: il suo segnale preciso si trova dove nessuno è lasciato ai margini o scartato; dove chi serve è il più grande; dove i piccoli e i poveri sono accolti e aiutati». «Non per nulla l’umanesimo, di cui Firenze è stata testimone nei suoi momenti più creativi, ha avuto sempre il volto della carità».