La parola di Dio nell’oggi della Chiesa
di Stefano Tarocchi · La recente festa di san Girolamo, che rimanda alla lettera scritta da papa Francesco nel sedicesimo centenario della morte del grande testimone cristiano, che portò a compimento la versione in lingua Latina delle Sacre scritture (la Vulgata), non può non farci tornare al testo del VI capitolo della Dei Verbum del Concilio Vaticano II. Quella sezione del documento aveva come titolo la Sacra Scrittura nella vita della Chiesa.
Nonostante la chiarezza cristallina del testo conciliare – basta pensare al n. 21 del documento: «è necessario che la predicazione ecclesiale, come la stessa religione cristiana, sia nutrita e regolata dalla sacra Scrittura» –, è evidente una sorta di analfabetismo sulle Sacre Scritture in larghi strati della vita della fede dei cristiani di oggi. Nella recensione ad una recente biografia su San Paolo, lo scrivente parla significativamente di «noia» nell’ascolto della seconda lettura di quanti partecipano – sempre meno nel post-Covid! – alla liturgia domenicale.
Questo lega il fenomeno anche alla reale impossibilità di interpretare il testo paolino, soprattutto se frammentato in brevissime frasi che non ne facilitano il commento. Qualcuno imputa in gran parte questo fenomeno ad una sorta di reazione a un tipo di studio troppo tecnico, o eccessivamente specialistico.
Forse la noia andrebbe estesa più che ai testi della parola di Dio, che possiamo ascoltare nelle nostre lingue a partire dal Concilio Vaticano II in una misura che supera di gran lunga le abitudini degli anni precedenti il Concilio, a commenti spesso improvvisati e senza un minimo di attualizzazione.
Peraltro, non si tiene conto che questo percorso intorno alla Parola di Dio conosce un vertice fondamentale nella prima versione ufficiale in lingua italiana a partire dai testi originali, a cura della Conferenza episcopale italiana (1971-74). Questa traduzione è stata sostituita da quella del 2008. Ma a dire il vero, sostengono alcuni, quella precedente aveva creato un fenomeno molto importante: la memorizzazione di diversi testi, che in tal modo diventavano parte del patrimonio di fede del popolo di Dio, anche oltre l’abbandono progressivo della frequenza alla messa domenicale.
Ora se è vero che il Concilio porta a compimento un percorso già iniziato alla fine del secolo XIX e continuato poi in quello XX, da Leone XIII a Pio XII, si dimentica che esiste di fatto nella comunità cristiana una vera e propria diaconia della Parola, come dice il libro degli Atti: «i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola» (At 6,2-4).
La fede cristiana non è comunque la fede del libro: il Concilio parla di una straordinaria interazione fra eventi e parole, intrinsecamente fra sé connessi: l’«economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto».
La fede cristiana non è nemmeno un fenomeno da iniziati: «Dio nella sacra scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana» (DV 12). Se la parola di Dio si è totalmente umanizzata, comprendere questo è ugualmente necessario per comprendere ciò che i testimoni hanno scritto di Colui che ha voluto rivelarsi attraverso gli scrittori sacri, che del resto il concilio chiama per la prima volta «veri autori».
C’è pertanto un legame comune fra il Cristo e la comunità cristiana, e non può darsi in alcuno modo che alcuni, pur accettando Cristo, rifiutano la comunità dei suoi discepoli, la Chiesa.
Basta pensare al solo fatto che nel Nuovo Testamento si sono conservati quattro Vangeli, il Vangelo quadriforme secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni. Questo Vangelo non può essere ricondotto a una sola narrazione né mai, nonostante alcuni tentativi, se ne è avuta la tentazione.
Per questo, soprattutto quando si aprono i Vangeli colui che appare per primo non è il Cristo ma il testimone che parla di Lui.
Per questo motivo l’«ignoranza delle scritture è ignoranza di Cristo», e ignorare Cristo significa ignorare la comunità dei suoi discepoli, la Chiesa.
Se, infine, come dice ancora Dei Verbum la scrittura deve essere letta e interpretata alla luce dello stesso spirito mediante il quale è stata scritta (DV 12), principio che dobbiamo ancora una volta a San Girolamo nel commento alla lettera ai Galati è anche vero che «sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana è mai venuta una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono alcuni uomini da parte di Dio» (2Pt 1,20-21).
A tutto questo si aggiunge un documento della Pontificia commissione biblica, l’Interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993), dove si richiama che voler fare a meno dell’esegesi è illusione e mancanza di rispetto dei testi sacri. Dunque, una seria esegesi deve adempiere alla funzione vitale di contribuire a una trasmissione più autentica del contenuto della Sacra Scrittura.
Ci aiuta a riflettere in questo senso anche il pensiero di papa Francesco in Evangelii Gaudium: «la Parola ha in sé una potenzialità che non possiamo prevedere. Il Vangelo parla di un seme che, una volta seminato, cresce da sé anche quando l’agricoltore dorme (cf. Mc 4,26-29). La Chiesa deve accettare questa libertà inafferrabile della Parola, che è efficace a suo modo, e in forme molto diverse, tali da sfuggire spesso le nostre previsioni e rompere i nostri schemi» (EG 22).