«Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli»: Gesù e Pietro

Gesù e i discepoli sul mare di Tiberiade 

Il Mantello della Giustizia – Maggio 2022

di Stefano Tarocchi · Il Vangelo di Giovanni si chiude con il racconto di tre manifestazioni di Gesù, due avvenute a Gerusalemme, il giorno di Pasqua e otto giorni dopo (capitolo 20), e una terza manifestazione avvenuta, sul mare di Tiberiade in Galilea (capitolo 21): è lo stesso evangelista a tenerne il conto: «era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti» (Gv 21,14). 

In origine, il Vangelo di Giovanni terminava col capitolo 20, con queste parole: «Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,30-31). 

Da queste parole emerge un pensiero importante, che ritroveremo anche nella seconda finale, al termine del capitolo 21, che è aggiunto da uno scrittore anonimo dopo la morte dello stesso Giovanni. 

Nella terza manifestazione di Gesù dopo la risurrezione, troviamo una concentrazione precisa del narratore, prima su Simon Pietro, e poi Giovanni, anche se non è nominato: si fa capire al lettore del Vangelo che Giovanni è già morto a quel tempo, contrariamente all’idea che si erano fatti alcuni: «si era diffusa tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù, però, non gli aveva detto che non sarebbe morto» (Gv 21,23). 

Ma andiamo a leggere: «Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli.  Disse loro Simon Pietro: “Io vado a pescare”. Gli dissero: “Veniamo anche noi con te”. Allora uscirono e salirono sulla barca, ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù.  Gesù disse loro: ““Figlioli, non avete nulla da mangiare?”. Gli risposero: “No”.  Allora egli disse loro: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”. La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il Signore!”. Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri. Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: “Portate un po’ del pesce che avete preso ora”. Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: “Venite a mangiare”. E nessuno dei discepoli osava domandargli: “Chi sei?”, perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti» (Gv 21,1-14). 

Sono tanti gli spunti che si ritrovano in questo testo, dal ritorno all’antico mestiere di pescatori, spinti dallo stesso Pietro, alla misteriosa manifestazione sulla riva del mare del Signore. La pesca notturna non ha dato frutto, ma la richiesta di Gesù («figlioli, non avete nulla da mangiare?») crea le condizioni per una pesca straordinaria, fuori da ogni abitudine: «gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». Il risultato è una quantità esorbitante di pesci: centocinquantatré grossi pesci. Lo scrittore sacro annota anche che la rete che li deve contenere non si spezza, come non è stata stracciata la tunica che i soldati hanno sottratto a Gesù sulla croce.  Così si legge di Pietro, che deve rimettersi la veste per andare incontro a Gesù, e lasciare il ruolo di pescatore, e degli altri discepoli: nessuno osa domandare a Gesù chi è, perché tutti sanno bene che è il Signore.

È proprio al termine di questo pasto – Gesù aveva preparato «un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane» – che accade qualcosa di inatteso: «quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pasci i miei agnelli”. Gli disse di nuovo, per la seconda volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pascola le mie pecore”.  Gli disse per la terza volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?”. Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: “Mi vuoi bene?”, e gli disse: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”. Gli rispose Gesù: “Pasci le mie pecore.  In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi”. Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: “Seguimi” (Gv 21,15-19). 

Simon Pietro, che voleva riprendere il mestiere di pescatore, e con lui alcuni altri discepoli del Signore (in tutto ne vengono rammentati altri sei), sono completamente superati dalle parole di Gesù.  

Per tre volte a Pietro, che aveva rinnegato tre volte il Signore, viene fatta una domanda: «mi ami tu più di costoro?». Il termine usato nella lingua greca permette anche un’altra traduzione: «mi ami tu più di tutte queste cose?». Non avrebbe, infatti, senso che Pietro si metta in competizione con gli altri discepoli. Per tre volte alla sua risposta positiva, Pietro si sente affidare il compito di pascere le pecore di Gesù.  

Ciò che è significativo in queste domande è la loro ripetizione, che riprende le vicende della passione, anche se sconcerta Pietro. Ma Gesù conferma che egli deve continuare il suo servizio e lo deve seguire: da giovane quando era capace di vestirsi da solo e poteva andare dove voleva, e da vecchio quando dovrà tendere le mani per essere vestito e portato dove non vuole. L’evangelista non ci lascia nel dubbio: «questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio».  

Quando vengono scritte queste parole Pietro ha già pagato con la morte sulla croce, secondo la tradizione a testa in giù, la sua appartenenza a Cristo e al Vangelo.  

Così, il messaggio del Vangelo arriva a noi, continuando quello che è cominciato in quel lontano mattino sul mare di Tiberiade: «questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera» (Gv 21,24). 

I cristiani e i rotoli del Mar Morto

Il Dies Academicus 2022 della Facoltà Teologica dell’Italia Centrale

Il Mantello della Giustizia – Aprile 2022

di Stefano Tarocchi · L’evento accademico dell’anno 2022, che riprende in presenza dopo la pausa dovuto alla pandemia è stato dedicato ad un argomento particolarmente affascinante. Lo testimonia lo stesso titolo: “L’interesse dei cristiani per i rotoli del Mar Morto”, con la lezione del prof. Marcello Fidanzio. 

Stiamo parlando di un ambiente estremamente affascinante anche da un punto di vista paesaggistico: il sito di Qumran, località collocata nei pressi del Mar Morto (Khirbet Qumrān). 

A tutti è noto come negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale una scoperta considerata casuale porto alla luce una serie sterminata di anfore che contenevano fra gli altri di rotoli di papiro su cui erano scritti testi che appartenevano alla comunità essenica, oltre ad alcuni apocrifi (documenti noti del periodo del Secondo Tempio, come EnochGiubileiTobiaS, ecc. che non sono parte della Bibbia ebraica, ma in qualche caso sono stati accettati dalla versione greca dei Settanta o utilizzati dalla tradizione rabbinica), ma soprattutto testi della bibbia ebraica: in tutto circa 900 rotoli, molti dei quali scritti su pergamena ed alcuni su papiro.  

Tutto il materiale era composto in ebraico – ci sono però testi in aramaico, e anche in greco –, il che ha permesso di avere un testo dell’Antico testamento antico oltre mille anni rispetto a quello che era comunemente in possesso: prima di questa scoperta dei rotoli del Mar Morto, i manoscritti più antichi della Bibbia in ebraico erano nel testo masoretico del IX secolo, come quello del Codice di Leningrado.  

Scriveva un grande studioso della materia: «per la prima volta potevamo avere un’intera gamma di composizioni religiose che sono arrivate a noi direttamente, assolutamente prive di ogni interferenza successiva. Visto che i testi sono stati conservati ai margini della vita convenzionale, ci hanno raggiunto prive delle restrizioni censorie. La censura ebraica ha soppresso la letteratura religiosa che non osservava l’ortodossia rabbinica» (García Martínez). Se consideriamo che il riferimento storico più recente ritrovato nei numerosi manoscritti risale al 50 a.C., possiamo stabilire un punto fermo. 

Negli anni in cui questa scoperta avvenne, o piuttosto venne comunicata alla comunità internazionale, quel territorio era sotto il dominio del Regno Hascemita di Giordania. Gli scavi vennero fatti sotto la supervisione di un gruppo di studiosi cristiani appartenenti all’École Biblique et Archéologique Française di Gerusalemme, sotto la guida dell’archeologo dei padri domenicani Roland de Vaux (1903-1971).  

De Vaux intraprese gli scavi con una particolare precomprensione: pensava agli esseni come una sorta di comunità monastica. Questo determinò non solo il lavoro di esplorazione del sito ma anche la sua interpretazione, in un chiave riconducibile a quel modello.  

Morto all’improvviso il de Vaux nel settembre 1971, nell’anno seguente uscì sulla rivista dei gesuiti del Pontificio Istituto Biblico di Roma un articolo in cui José O ‘Callaghan (1922-2001), tentò una interpretazione, tanto affascinante quanto improbabile, di un frammento di papiro grande come un francobollo, trovato nella famosa settima grotta di Qumran. Lo studioso volle vedere due versetti del vangelo secondo Marco: 6,52-53. Il 1972 veniva poco anni dopo che la regione, al termine della guerra dei sei giorni (1967) aveva portato il sito di Qumran sotto l’autorità dello Stato di Israele.  

Scriveva O ‘Callaghan: «l’apporto dell’identificazione di 7Q5 sta nell’esserci avvicinati al Gesù storico, che questa identificazione permette: […] se adesso siamo in possesso di un papiro dell’anno 50 d.C., e del Vangelo di Marco significa che abbiamo stabilito il contatto, mediante la testimonianza di un papiro, con il Cristo storico». 

Da O ‘Callaghan in poi, l’idea che dentro le grotte di quelle regioni ci fossero testi dei Vangeli che potevano essere datati non oltre vent’anni dagli avvenimenti del Nuovo Testamento (Gesù muore nell’anno 30…) diventava un cavallo di battaglia di progetti di una ideologia, capace di trascurare uno dei principi fondamentali della teologia cristiana. Oggi, nessuno accetta questa interpretazione. 

La fede cristiana, infatti, custodisce i testi sacri all’interno di quel tessuto particolare che è la sacra tradizione. Questa conserva anzitutto attraverso la memoria e la trasmissione orale ciò che poi sono diventati i testi che noi conosciamo, finito nella Bibbia. 

Peraltro, non c’è nessun motivo di anticipare così tanto la datazione dei Vangeli, e in particolare del vangelo di Marco, quando il più antico frammento dei vangeli che è stato decifrato, il celebre Papiro 52, di 89 per 60mm, che contiene senza dubbio alcuno una manciata versetti del capitolo 18 del Vangelo di Giovanni: precisamente i versetti 31-33 su un lato (recto) e 37-38 sull’altro (verso).

Conservato nella John Rylands Library di Manchester, è stato datato intorno al 125 d.C., un tempo estremamente vicino alla sua composizione effettiva del quarto Vangelo: una testimonianza affascinante degli avvenimenti che i Vangeli trasmettono fino a noi.

Teofilo, un cristiano che cerca le origini della sua fede

«Scrivere un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo»

Il Mantello della Giustizia | Marzo 2022

di Stefano Tarocchi · È noto a tutti che solamente il terzo Vangelo e il libro degli Atti degli Apostoli sono gli unici due scritti del Nuovo Testamento che si aprono con un prologo di tipo letterario.  

Per la verità, anche il Vangelo secondo Giovanni si apre con un prologo ma, potremmo dire, di differente spessore. Possiamo definire i primi diciotto versetti del quarto Vangelo come un grandioso dipinto teologico, che offre al lettore uno sguardo prospettico sul contenuto.  

Ma il terzo Vangelo, scritto da Luca al pari del libro degli Atti, ha qualcosa di diverso, e di simile agli storici da quelli più antichi fino ai suoi contemporanei (da Tucidide a Plutarco e Giuseppe Flavio).  

L’autore si esprime in maniera così incisiva ed accurata in questo breve passaggio, da permetterci di ricavare preziosi elementi per mettere a fuoco la sua intenzione compositiva. Per sapere di chi stiamo parlando, dobbiamo rivolgerci ad alcune lettere di Paolo, a cominciare dal “biglietto” a Filemone, di mano dello stesso apostolo: «Ti saluta Epafra, mio compagno di prigionia per Cristo Gesù, con Marco, Aristarco, Dema e Luca, miei collaboratori» (Filemone 23-24). Quindi si parla di lui nei saluti di due lettere della tradizione di Paolo: «vi salutano Luca, il caro medico, e Dema» (Col 4,14). «cerca di venire presto da me, perché Dema mi ha abbandonato avendo preferito il secolo presente ed è partito per Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia. Solo Luca è con me» (2 Tim 4,9-11). 

Da altri testi antichi, compresi quelli della tradizione patristica (dal Canone Muratoriano a Ireneo, Origene e Girolamo), sappiamo che Luca non era palestinese di origine, anche se avrebbe visitato la terra di Gesù per raccogliere le fonti su cui riferisce. Era, infatti, una persona assai colta: anche se non è certo che fosse un medico, niente impedisce di escluderlo. Inoltre, era di origine pagana e conosceva bene la comunità cristiana di Antiochia, città della quale sarebbe originario. 

Il terzo evangelista è sì uno storico, ma è più che altro un teologo, che inquadra i fatti in un insieme assai preciso e dentro un prezioso orizzonte di fede. Del resto, egli usa la geografia del suo scritto in maniera eminentemente teologica, fondandola su Gerusalemme, su cui converge l’intero Vangelo e da cui muovono gli Atti. 

Ma torniamo all’esordio del Vangelo, dove si introduce la figura di Teofilo.
Così leggiamo: «poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto» (Lc 1,1-4) 

Quello che scrive Luca nel suo primo scritto è un vero «racconto» storico, distinto dal semplice resoconto della predicazione, o dell’insegnamento. È il libro che contiene la conferma di ciò che più avanti nel tempo sarebbe stato chiamato il Vangelo, passando dal contenuto al libro che lo contiene, ossia dal «buon annuncio», al quadriforme Vangelo secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni. 

L’evangelista esprime la consapevolezza di inserirsi nella corrente della tradizione, per risalire all’origine dell’insegnamento degli apostoli e dei responsabili delle comunità. L’opera è inoltre il frutto di ricerche accurate, basate sulla testimonianza oculare di quanti sono diventati annunciatori della parola. Una testimonianza che si è formata a partire dall’esordio del ministero di Gesù. 

Teofilo, modello del lettore di ogni tempo, non è un destinatario passivo: è invitato in prima persona a «rendersi conto della solidità degli insegnamenti ricevuti».  

Egli deve scoprire le ragioni della sua fede; ciò che sta per leggere non è infatti la prima istruzione che egli riceve  bensì una tappa ulteriore del cammino che ha già compiuto per incontrare Cristo. Nel testo greco del terzo Vangelo si trova proprio un verbo (katechéô), che contiene la parola «eco». Di qui ecco la catechesi: una «parola fatta risuonare».

Di Teofilo si parla anche nell’esordio del libro degli Atti, simile al prologo del terzo Vangelo, ma in grado di trasportarci agli avvenimenti di cui vuole parlare: «nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo» (At 1,1-5) 

Ma di chi stiamo realmente parlando? Chi era in sostanza Teofilo?  

Questo nome aveva un preciso significato: colui che ama Dio, oppure (anche meglio!): colui che è amato da Dio. Gli scrittori cristiani antichi lo ritenevano non un personaggio storico ma come il rappresentante simbolico di tutti gli amici e amati da Dio. Così si sosteneva che Teofilo non era il vero nome, ma uno pseudonimo che voleva tenere nascosta la sua fede appartenente alla casa imperiale romana. 

Se però torniamo ai testi, vediamo che il Vangelo ne parla come «illustre Teofilo». Da qui l’idea che alcuni hanno sostenuto che Teofilo, con il suo nome vero, apparteneva alle classi più elevate della società. Oggi si ritiene che questo titolo fosse un semplice elogio, molto importante però per non idealizzare il destinatario di due libri del Nuovo Testamento tanto da farne scolorire la sua presenza nella storia. 

Come scrive C.K. Barrett nel suo commento al libro degli Atti «poteva essere un uomo dedito all’indagine, un catecumeno, un cristiano alla ricerca di ulteriori informazioni sulle origini della sua fede e sulla storia del sorgere della Chiesa o un magistrato romano». 

Di questo personaggio, realmente esistito, tuttavia noi non sappiamo nulla, tranne il fatto che viveva con grande probabilità ad Antiochia di Siria, oggi in Turchia, città nella quale il terzo Vangelo era stato scritto. 

La “biografia” di Gesù secondo i Vangeli

Una nuova biografia di Gesù: «Secondo i Vangeli»

Il Mantello della Giustizia | Febbraio 2022

di Stefano Tarocchi · Gianfranco Ravasi, biblista ed ebraista, presidente del Pontificio consiglio della cultura e della Pontificia commissione di archeologia sacra, ha da poco pubblicato la Biografia di Gesù. Secondo i Vangeli (Raffaello Cortina Editore, Milano 2021), affascinante volume di 251 pagine che si distende in undici densi – e contemporaneamente agili – capitoli, corredati ciascuno da una essenziale bibliografia.  

Dopo aver accennato nella breve introduzione la vicenda della scrittura “Vite di Gesù”, a partire da quella del certosino Ludolfo di Sassonia (pubblicata a Strasburgo nel 1474 e riedita quasi novanta volte), a quella di G. W. F. Hegel (scritta nel 1795, ma pubblicata soltanto nel 1907) alla Vita di Gesù di Ernest Renan (1863, che vide ben dodici edizioni nello stesso anno) alla celebre Storia di Cristo di Giovanni Papini pubblicata nel 1921, e ancora a quella di Francois Mauriac (1936) fino alla provocatoria “Volete andarvene anche voi” di Luigi Santucci (1969), per limitarci a quelle più significative.  

Di segno diametralmente opposto «lo sconcertante e smitizzante» Il Vangelo di Gesù Cristo (1991) del portoghese José Saramago, premio Nobel per la letteratura. 

Di fatto, Ravasi, per ricostruire una biografia di Gesù, segue invece le orme del domenicano Marie Joseph Lagrange (1855-1938), che era intenzionato ad utilizzare i Vangeli, che pure non sono documenti storici nel senso tecnico della parola. Come puntualizza Ravasi, i Vangeli «non sono libri di storia ma si interessano alla storia di Gesù, leggendo le parole e atti legati alla sua persona storica attraverso il filtro interpretativo della tradizione di fede».  

Esistono anche fonti extra-evangeliche su Gesù, divise in tre gruppi: le iscrizioni; la letteratura giudaica e siro-palestinese; la letteratura greca e latina, ma nel complesso il loro valore è in ogni caso assai scarso e poco rilevante.  

Ora, se i dati sul mondo antico possono essere trasmessi da un’infinità di fonti, non è così per Gesù Cristo, le cui notizie biografiche difficilmente hanno un riscontro serio al di là dei libretti di Matteo, Marco e Luca, e Giovanni, che risultano pertanto la documentazione più ampia e più antica su Gesù. 

Nessun Vangelo, intanto, sia quelli finiti nel canone cristiano, che quelli apocrifi, tradiscono il rapporto con l’oggetto a cui si riferiscono, Gesù Cristo, e sono costantemente legati alla fede in lui, sebbene intesa da orizzonti diversi.  

È per questo motivo che Ravasi apre il suo libro con il capitolo All’origine dei Vangeli, che è una sorta di vera e propria introduzione generale non tanto e non solo ai quattro libri dei i Vangeli del Nuovo Testamento, ma alla loro comprensione.  

Ravasi accenna in breve anche alla celebre questione della storia delle forme (e quindi della formazione) dei Vangeli, da Rudolph Bultmann (1884-1976) ai suoi eredi). 

Con questo stile, Ravasi offre ai suoi lettori la ricostruzione del rapporto fra il Gesù storico e il Cristo della fede, ossia fra il Gesù che i suoi contemporanei hanno conosciuto, e colui che è poi stato accolto nella fede delle generazioni successive come il Figlio di Dio. Questo rapporto non vuole – e non deve – essere di opposizione, ma restituire a noi gli elementi di un necessario approfondimento: Gesù non è un personaggio mitologico! Rimando qui anche ad un prezioso libretto di Romano Penna (Le molteplici identità di Gesù secondo il Nuovo Testamento, Claudiana, Torino 2021).  

Ravasi rammenta anche in breve in maniera netta i criteri di storicità, per stabilire la verità dei dati evangelici: dal criterio della discontinuità con il giudaismo e la tradizione posteriore, al criterio della continuità con l’ambiente «linguistico, geografico, politico, sociale e culturale», nel cui orizzonte Ravasi colloca senza esitazione le radici ebraiche di Gesù.  

La conclusione del capitolo iniziale, fondamentale per seguire compiutamente il percorso che segue, delinea le chiavi principali per l’approfondimento del genere letterario Vangelo, che di fatto è una novità assoluta nel panorama antico, se si escludono alcuni contatti parziali con le biografie di epoca greco-romana. È così che proprio Marco, nel suo Vangelo, apre ad un nuovo genere letterario: «inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (Mc 1,1). 

Ravasi passa a ricostruire uno dopo l’altro i quattro autori (Matteo, Marco e Luca, e Giovanni). Quindi, attraverso le narrazioni degli stessi Vangeli, ricostruisce la biografia vera e propria di Gesù, ricostruita sulla base di quanto ha esaminato. 

Il percorso muove dall’infanzia di Gesù, quindi ricostruisce la sua predicazione e i gesti da lui compiuti, e infine si muove verso la passione, attraverso il suo processo e la condanna di Gesù. Chiude un rapido approfondimento della Pasqua.  

In questa fase Ravasi sintetizza in pochi passaggi complesse questioni esegetiche, adoperando anche l’archeologia, per introdurci, per esempio, alla geografia della città Santa durante gli eventi della passione. Il capitolo finale è dedicato ai Vangeli apocrifi. 

Il pregio principale di questo volume è l’aver concentrato in uno spazio relativamente breve, questioni che esigono naturalmente ulteriori approfondimenti. È significativo lo spazio che Ravasi dedica, per esempio, alla controversa traduzione del Padre Nostro, alla quale vogliamo rimandare, all’interno del capitolo sette (Le sue parole, 178). 

Se qualcuno, diversi anni fa, ha scritto un catechismo per dotti ignoranti (Note di catechismo per ignoranti colti di Pierre Riches), Ravasi fondamentalmente riempie in modo magistrale uno spazio analogo. 

Last but not least, non dimentichiamo anche le dotte divagazioni letterarie e/o di arte figurativa che vengono inserite nel testo con leggerezza colta, e sempre appropriata che ne arricchiscono il contenuto.  

In conclusione, possiamo dire che chi “non ha tempo” di compulsare robusti volumi di esegesi e di introduzione ai Vangeli, ha sottomano la possibilità di avere una notevole sintesi, capace di guidare ad una conoscenza più consapevole, evitando le banalità che certa informazione online, purtroppo, diffonde oltre lo strettamente necessario, quando continua a essere visibile sulla rete senza una ragione estranea al narcisismo.