Per un viaggio nelle terre del Vangelo e della Bibbia

Viaggiare oggi in Terra Santa 

 

di Stefano Tarocchi · Di ritorno da un recente pellegrinaggio viaggio in Terra Santa, che è terminato pochi giorni prima del decimo anniversario della morte del cardinale Carlo Maria Martini (31 agosto 2012) mi permetto di svolgere qui alcune considerazioni sulla particolare unicità nel calpestare quella terra, terra del Vangelo e terra in cui l’alleanza divina con il popolo di Abramo è accaduta e si è sviluppata. 

A viaggiare oggi in Terra Santa, si vedono con maggior chiarezza i problemi relativi ai due anni del tempo del Covid, che hanno smantellato letteralmente percorsi che negli ultimi tempi avevano portato fiumi di persone. Adesso questi fiumi non ci sono più, e indubbiamente esiste una maggiore fruibilità dei luoghi santi, consentendo visite che fino all’inizi del 2020 erano diventate quasi impossibili.  

C’è tutta una logistica da ricostruire e anche una condizione di maggiore apertura a quanti desiderano affrontare questo viaggio. Ma questo tempo intermedio, per così dire, deve essere speso per creare condizioni in cui quanti si trovano a viaggiare nella Terra Santa e nelle terre bibliche vengano assistiti nel loro cammino in una maniera maggiormente significativa da persone ben preparate. 

È noto, infatti, che per gli accordi fra le chiese cristiane della Terra Santa è consentito che i gruppi abbiano un loro accompagnatore, una loro guida, definito spiritual leader, senza rischiare di togliere forze lavoro ai locali e lasciando un ampio spazio ai frati francescani. Si tratta di una questione molto delicata che in anni precedenti era stata fortemente messa in discussione anche a causa di leggerezze di varia natura. 

A onor del vero, per Terra Santa si dovrebbe intendere un bacino molto più largo che va oltre l’attuale stato di Israele e i territori palestinesi, e che deve comprendere quantomeno il Sinai, la Giordania, il Libano, la Siria e la Turchia: in sostanza, le terre bibliche. E le ragioni sono molteplici: dagli eventi narrati nell’Antico Testamento fino a quanto comprendono i Vangeli, e tutti gli scritti che narrano l’espansione della prima comunità cristiana, attraverso i viaggi e gli scritti dell’apostolo Paolo, dall’oriente fino a Roma. 

Chi ha intrapreso un pellegrinaggio in una sola di queste terre della Bibbia sa bene quanto sia profondo il fascino di questa terra. Proprio per questo motivo non è facile condurre un viaggio in queste terre, dovendo conoscere bene le Scritture (Antico e Nuovo Testamento), la tradizione della Chiesa antica, e naturalmente gli stessi siti che vengono fatti visitare, dentro le culture con cui sono venuti a confronto (e non raramente sono arrivate a scontrarsi), dal mondo dell’ebraismo a quello dell’Islam, e dei popoli del vicino Oriente antico. In sostanza, quello che può definirsi «l’archeologia del Levante Meridionale, con particolare attenzione all’archeologia Biblica e all’archeologia Cristiana» (Fidanzio).

Qui dovremmo spendere una parola per differenziare i siti che hanno una conferma dagli scavi dell’archeologia, e quelli che invece lasciano trasparire una memoria tramandata nei secoli: se in un sito si è

 stabilito un monastero nei secoli IV e V, se nei racconti dei primi pellegrini ci sono elementi che trovano conferme attuali in quanto adesso è possibile visitare – e adesso dirò una cosa che può essere interpretata come scomoda –, questa esperienza non può essere affidata a qualcuno che si è limitato a farsi l’esperienza sul campo, magari attraverso numerosi viaggi, senza però approfondire gli studi biblici e aggiornarsi su quelli archeologici.  

Chiunque ha un minimo di esperienza sa bene quanto l’archeologia della Terra Santa sia in continua evoluzione: i risultati sono sempre davanti ai nostri occhi. È assolutamente necessario quindi essere aggiornati con le pubblicazioni di vario livello e con le notizie che vengono date dai siti più attenti. Questo anche perché occorre uno sguardo attento all’ambiente attuale, nella sua evoluzione sociologica, ma anche la capacità di far dialogare la Sacra Scrittura con l’esperienza con il luogo con cui si entra in contatto. 

Le terre del vicino Oriente e le terre bibliche sono, infatti, una miniera inesauribile per l’archeologia: il che fa invecchiare rapidamente ogni sintesi divulgativa e fa rapidamente evaporare ogni corso di approfondimento, magari creato solo con un briciolo di buona volontà. 

Per questo diventa indispensabile che non sia un signor qualunque la guida che introduce uomini e donne di tutte le età del nostro tempo nella terra del Vangelo e delle Sacre Scritture: deve sapere bene che quanti accompagna nel viaggio, credenti o non credenti, imparano qualcosa che è destinata a lasciare una traccia indelebile per il resto della loro vita.  

E noi viviamo, purtroppo, in un tempo in cui l’eccesso di informazioni non lascia il tempo né genera la capacità di distinguere tra la buona moneta e quella falsa; ciò che ha un significato profondo e ciò che si limita a colpire solo il nostro lato più epidermico.  

Del resto, anche san Paolo scriveva ai cristiani dell’antica Salonicco: «esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1 Ts 5,24). E questo è il compito affidato a chi si mette in viaggio. 

La preghiera come lotta: Abramo e Giacobbe davanti a Dio

La mediazione di Abramo davanti a Dio: la preghiera come lotta

Il Mantello della Giustizia – Agosto 2022

di Stefano Tarocchi · Nelle scorse domeniche la liturgia ha richiamato, di fronte a quanti in questi tempi così particolari trovano ancora il tempo di partecipare, l’insegnamento del Vangelo di Luca sulla preghiera, che ha come centro il Padre nostro e tutto ciò che vi è collegato: «Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”» (Lc 11,1). Lo stesso Vangelo di Luca è un continuo affacciarsi della preghiera di Cristo, fino a una sorta di culmine, ossia l’incipit del capitolo 18: Gesù «diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai» (Lc 18,1). E seguono due splendide parabole.

Ma oltre al testo del Vangelo di Marco, la liturgia riporta il racconto, tratto dal libro della Genesi in cui Abramo cerca di scongiurare la distruzione della città di Sodoma, punita senza rimedio per il grave peccato dei suoi abitanti.

Il racconto della Genesi è una raffinata descrizione del rapporto fra Dio e Abramo, condotta quasi in punta di penna fra i due straordinari protagonisti, come più avanti il libro dell’Esodo parlerà di Mosè: «il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (Es 33,11).

Richiamiamo il dialogo fra Dio ed Abramo: «in quei giorni, disse il Signore: «il grido di Sodoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!». Quegli uomini – i tre sotto cui si cela il Signore alle Querce di Mamre – partirono di là e andarono verso Sodoma, mentre Abramo stava ancora alla presenza del Signore. Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?».

Rispose il Signore: «Se a Sodoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo». Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere: forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?». Rispose: «Non la distruggerò, se ve ne troverò quarantacinque». Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno quaranta». Rispose: «Non lo farò, per riguardo a quei quaranta». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta». Rispose: «Non lo farò, se ve ne troverò trenta». Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci» (Gen 18,20-32).

Abramo, peraltro, non osa andare sotto questo numero, il numero di dieci unità, che significativamente diventa il minimo necessario perché si possa tenere una riunione di preghiera in sinagoga: da notare dieci unità di sesso maschile.

Ma prima della conclusione della vicenda non possiamo dimenticarci anche della lotta fra Abramo e il Signore, simile peraltro alla lotta tra Giacobbe e il Signore, narrata sempre nel libro della Genesi, dopo che quest’ultimo ritorna dal suo esilio: «durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici bambini e passò il guado dello Iabbòk.  Li prese, fece loro passare il torrente e portò di là anche tutti i suoi averi. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quello disse: “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora”. Giacobbe rispose: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!”.  Gli domandò: “Come ti chiami?”. Rispose: “Giacobbe”. Riprese: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!”. Giacobbe allora gli chiese: “Svelami il tuo nome”. Gli rispose: “Perché mi chiedi il nome?”. E qui lo benedisse.  Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuèl: “Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva” (Gen 32,25-31). È noto, infatti, che Vedere Dio significa morire (così Es 3,624,1133,20).

Ora, sappiamo come la vicenda di Sodoma si conclude: «il sole spuntava sulla terra e Lot – il nipote di Abramo – era arrivato a Soar, quand’ecco il Signore fece piovere dal cielo sopra Sodoma e sopra Gomorra zolfo e fuoco provenienti dal Signore. Distrusse queste città e tutta la valle con tutti gli abitanti delle città e la vegetazione del suolo. Ora la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale. Abramo andò di buon mattino al luogo dove si era fermato alla presenza del Signore; contemplò dall’alto Sodoma e Gomorra e tutta la distesa della valle e vide che un fumo saliva dalla terra, come il fumo di una fornace» (Gen 19,23-28).

La mediazione di Abramo sembra totalmente inutile, ma la stessa lotta di Abramo con il Signore per impedire la distruzione di Sodoma non è affatto banale: infatti, dice il testo sacro, «quando distrusse le città della valle, Dio si ricordò di Abramo e fece sfuggire Lot alla catastrofe, mentre distruggeva le città nelle quali Lot aveva abitato» (Gen 19,29).

Leggere un testo del Vangelo: non aggiungere né togliere nulla 

Come leggere un testo del Vangelo: due pesi e due misure 

Il Mantello della Giustizia – Luglio 2022

di Stefano Tarocchi · Nel Vangelo di Marco del racconto della moltiplicazione dei pani: «essendosi ormai fatto tardi, gli si avvicinarono i suoi discepoli dicendo: “Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congedali, in modo che, andando per le campagne e i villaggi dei dintorni, possano comprarsi da mangiare”. Ma egli rispose loro: “Voi stessi date loro da mangiare”. Gli dissero: “Dobbiamo andare a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?”.  Ma egli disse loro: “Quanti pani avete? Andate a vedere”. Si informarono e dissero: “Cinque, e due pesci”. E ordinò loro di farli sedere tutti, a gruppi, sull’erba verde.  E sedettero, a gruppi di cento e di cinquanta.  Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero a loro; e divise i due pesci fra tutti.  Tutti mangiarono a sazietà, e dei pezzi di pane portarono via dodici ceste piene e quanto restava dei pesci.  Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini» (Mc 6,35-44). 

Ora, su questo testo, come su molti altri, incombe un pericolo, che non di rado si avverte, in interpretazioni di totale fantasia: il pericolo di attribuire al testo un valore maggiore o minore di quanto l’autore ha voluto trasmettere nella fedeltà all’ispirazione divina. 

Se la parola di Dio va letta nello stesso spirito con cui è stata composta dopo essere stata ispirata, come insegna il Concilio Vaticano II (Dei Verbum 12), questo comporta necessariamente il rispetto della parola. Non tanto e non solo perché parola di Dio ma anche per questo motivo. 

A chi scrive è capitato, di sentire infatti meditazioni (e/o omelie) in cui, senza rispettare il testo, e anzi gravandolo di un significato inesistente, qualcuno ha detto non: «voi stessi date da mangiare», bensì «date voi stessi da mangiare», quasi che questo cambiamento ingiustificato del testo gli diventi come superiore. L’autore di questi capolavori di fantasia giustifica – o fa giustificare – questa lettura come spirituale, propria di colui che senza motivo pensa di migliorare, senza alcuna necessità, l’interpretazione del Vangelo. 

In questa logica qualunque comunicazione verbale e non verbale diventa prigioniera di chi si appropria della parola di Dio, e di Dio che parla attraverso la parola, per mettere sé stesso al centro. 

Facciamo un altro esempio. Così leggiamo nei racconti dell’infanzia del vangelo di Luca, a proposito dell’annuncio ai pastori: «e subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama” (Lc 2,14). 

Il testo della versione latina di san Girolamo dice: «in terra pax in hominibus bonae voluntatis». Il termine greco usato indica per sé la buona volontà divina, la sua benevolenza. Ecco perché diverse versioni rendono in questa maniera: «sulla terra pace agli uomini, che egli ama». 

L’indirizzo della lettera enciclica sulla pace di Giovanni XXIII, scritta nel 1963 (Pacem in terris), pochi mesi prima della morte, infatti, così diceva: «ai venerabili fratelli patriarchi, primati arcivescovi, vescovi, … che sono in pace e comunione con la sede apostolica, al clero e ai fedeli di tutto il mondo». Fin qui niente di diverso ma il papa santo si rivolge anche «a tutti gli uomini di buona volontà».  

E papa Giovanni aggiunge nella sua lettera che «a tutti gli uomini di buona volontà spetta un compito immenso: il compito di ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà: i rapporti della convivenza tra i singoli esseri umani; fra i cittadini e le rispettive comunità politiche; fra le stesse comunità politiche; fra individui, famiglie, corpi intermedi e comunità politiche da una parte e dall’altra la comunità mondiale» (87). 

Ora, il testo evangelico dice che la buona volontà, la benevolenza, è di Dio. E tuttavia il papa santo, così amato al tempo, coglie un aspetto forse celato nel testo evangelico, ma che il testo quasi fa scaturire. A differenza dell’esempio raccontato prima, c’è qui un influsso del termine latino che può diventare lo spunto per costruire un quadro totalmente differente.  

In questo caso non c’è nessuna forzatura ma uno straordinario, quanto forse dimenticato, colpo d’ali di un mondo e di un tempo carico di attese, passate purtroppo solo negli archivi. 

Nel primo caso uno schiaffo al testo, nel secondo lo scaturire di una nuova feconda sorgente di significato. 

Gerusalemme nell’Apocalisse

La nuova Gerusalemme (Ap 21,1-22,15) 

Il Mantello della Giustizia – Giugno 2022

di Stefano Tarocchi · Il libro dell’Apocalisse di Giovanni, nel suo epilogo, si apre con il grande affresco che descrive la creazione nuova, al cui centro c’è la città santa, la nuova Gerusalemme, destinata ad assumere il ruolo di sposa del Cristo: «e vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima, infatti, erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (Ap 21,1-2).  

L’immagine si fa particolarmente forte, quando la voce che arriva dal trono di Dio così dice: «ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,3-4). 

È proprio la città di Gerusalemme che vorrei parlasse attraverso le parole eloquenti e tuttavia nascoste del libro dell’Apocalisse, e che si svelasse a noi attraverso la complessa simbologia che caratterizza il libro. 

E a questo punto che si svela il vero volto di Gerusalemme, la città-sposa del Cristo agnello, la donna-città, come la chiama lo stesso libro, che poi la descrive con cura, nei dettagli della sua perfezione: «poi venne uno dei sette angeli, che hanno le sette coppe piene degli ultimi sette flagelli, e mi parlò: «Vieni, ti mostrerò la promessa sposa, la sposa dell’Agnello». L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. Colui che mi parlava aveva come misura una canna d’oro per misurare la città, le sue porte e le sue mura. La città è a forma di quadrato: la sua lunghezza è uguale alla larghezza. L’angelo misurò la città con la canna: sono dodicimila stadi; la lunghezza, la larghezza e l’altezza sono uguali» (Ap 21,9-16). 

Dopo la lunga descrizione della città Santa nei dettagli dal ricco e profondo simbolismo, emerge la sua caratteristica principale: nella città Santa, nella nuova Gerusalemme, non c’è il tempio che connotava la Gerusalemme della storia.  

Lo stesso signore e l’agnello, il Cristo, sono il suo tempio: «in essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce, e i re della terra a lei porteranno il loro splendore. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, perché non vi sarà più notte» (Ap 21,22-25). 

Nella città non c’è più posto per gli orrori né per tutte le azioni che vanno contro la parola di Dio; nella Gerusalemme nuova possono entrare solo coloro il cui nome è scritto nel libro della vita dell’agnello: «non entrerà in essa nulla d’impuro, né chi commette orrori o falsità, ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello» (Ap 21,27).  

Lo scritto di Giovanni ha parlato di questo elemento anche nella lettera alla chiesa di Sardi, la prima del settenario di lettere indirizzato alle sette chiese: «il vincitore sarà vestito di bianche vesti; non cancellerò il suo nome dal libro della vita, ma lo riconoscerò davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli (Ap 3,5).  

All’opposto, però ci sono coloro che, al posto di Dio, adorano la bestia, «il cui nome non è scritto nel libro della vita dell’Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo» (Ap 13,8). La bestia è emanazione del grande drago rosso che fa guerra alla donna «vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle», apparsa come segno grande nel cielo (Ap 12,1). Un duplice filo percorre la storia, che lega i seguaci di Dio e li distingue dai seguaci della sua opposizione, «gli abitanti della terra il cui nome non è scritto nel libro della vita fino dalla fondazione del mondo» (Ap 17,8). 

Un altro dettaglio fondamentale vieni descritto nel lungo affresco dei capitoli finali del libro della rivelazione di Giovanni. Dal trono di Dio e dell’agnello esce un altro elemento straordinario: «un fiume di acqua viva, limpido come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello. In mezzo alla piazza della città, e da una parte e dall’altra del fiume, si trova un albero di vita che dà frutti dodici volte all’anno, portando frutto ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni. E non vi sarà più maledizione. Nella città vi sarà il trono di Dio e dell’Agnello: i suoi servi lo adoreranno; vedranno il suo volto e porteranno il suo nome sulla fronte» (Ap 22,1-4). 

Il panorama descritto si arricchisce di un altro elemento importante, riguardo a Gerusalemme. Nella creazione nuova, di cui essa Gerusalemme parte, non c’è più la tenebra né esiste la necessità di illuminare alcunché, perché il Signore stesso si incarica di illuminare i suoi eletti «non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà». Così gli eletti di Dio «regneranno nei secoli dei secoli» (Ap 22,5). 

A questo punto è l’Agnello stesso che prende la parola nel rivelarsi come colui che viene a breve, e che lascia come impegno la custodia delle parole profetiche del suo libro, del libro della sua rivelazione: «Ecco, io vengo presto. 

Beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro» (Ap 22,7). Idealmente la fine del libro si congiunge al suo principio, dove si chiama «beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte» (Ap 1,3). 

A questo punto è il Cristo che riprende ancora la parola per esprimere il suo potere sulla storia, lui principio e fine di ogni cosa: «Ecco, io vengo presto e ho con me il mio salario [lett.: “la mia ricompensa”] per rendere a ciascuno secondo le sue opere.  Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine» (Ap 22,12-13). E poi continua: «beati coloro che lavano le loro vesti per avere diritto all’albero della vita e, attraverso le porte, entrare nella città» (Ap 22,14). E di questo lavare la veste si è già sentito: «questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (Ap 7,13-14)

Ma torniamo ancora alle parole di Gesù: è lui che ha inviato il suo messaggero per testimoniare il suo disegno sulle vicende umane: «io, Gesù, ho mandato il mio angelo per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese. Io sono la radice e la stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino» (Ap 22,16) 

Nell’oscurità delle vicende quotidiane che i discepoli del Vangelo attraversano in ogni tempo, compreso il nostro, risuona ancora stabile e forte il grido dello Spirito divina e della città-sposa, rafforzato dalle parole che confermano l’annuncio di questa profezia: «lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!». E chi ascolta, ripeta: «Vieni!». Chi ha sete, venga; chi vuole, prenda gratuitamente l’acqua della vita» (Ap 22,17). 

In quest’ultimo passaggio si compie la promessa divina che diventa anche l’attesa, e nell’attesa la preghiera: «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20). È il celebre grido in lingua aramaica maranà thà, che troviamo anche in Paolo, in due varianti. Esso può essere tradotto «il Signore viene» oppure, appunto, come invocazione accorata: «Vieni, Signore» (cf. 2 Cor 16,22). 

Per la nostra cultura sembra difficile da afferrare il senso di una città come Gerusalemme, nel modo in cui la descrive il libro dell’Apocalisse, visto che siamo abituati a parlarne attraverso le vicende che ne caratterizzano la sua ricchissima e complessa storia, che si rivela a noi con tutte le sue contraddizioni passate e presenti.  

Se però facciamo lo sforzo di entrare dentro la simbologia del libro – l’Apocalisse, infatti, si esprime attraverso dei simboli non semplici, che vanno decifrati accuratamente, con infinita pazienza e senza cedere al rischio di chiudere il libro – riusciamo a comprendere un messaggio di una attualità sconcertante. Possiamo riassumerlo così: anche nelle vicende più oscure del cammino delle creature umane e di ciascuno di noi, quando e dove la presenza di Dio sembra essersi eclissata, essa è perennemente all’opera in attesa del ritorno del suo Cristo.