Gesù, il pastore vero

«Io sono la porta delle pecore» (Gv 10,7) 

Il Mantello della Giustizia – Maggio 2023

di Stefano Tarocchi · Nel tempo di Pasqua, tre domeniche dopo la festa, la liturgia presenta un brano tratto dal decimo capitolo del Vangelo secondo Giovanni. Si tratta del discorso di Gesù che ha il suo culmine nel versetto 11, quando Gesù dice: «Io sono il buon pastore». E aggiunge: «il buon pastore – il pastore vero – dà la propria vita per le pecore». (Gv 10,11). 

Il tema, anche se svolto in maniera estremamente originale dal quarto Vangelo, è perfettamente coerente con l’attività di Gesù, per esempio quando leggiamo che, dopo una traversata sul mare, «sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» (Mc 6,34).  

Questo per non parlare delle due parabole, dei Vangeli sinottici: Matteo 18,12-13 (la pecora che si è smarrita) e Luca 15,4-6 (la pecora che il pastore ha perduto). 

Ma è proprio a causa di Giovanni che la quarta domenica di Pasqua è conosciuta come la domenica del buon Pastore

Leggiamo il testo del Vangelo: «in verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei».  

Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlasse loro».  

Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore.  Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti, ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza. Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,1-11). 

Qui vorremmo mettere in luce un aspetto particolare che configura la persona di Gesù, pastore vero: egli è la porta delle pecore, ed è pastore proprio perché è anche la porta.  A giudicare dal termine che è stato scelto in greco, si tratta della porta della casa.  

Se è vero, come annota il Brown, che in alcune frange religiose il titolo di “porta” è stato applicato a leader religiosi, per indicare la guida alla conoscenza, questo non vale per il Vangelo. 

Possiamo spiegare la parola dell’uso del pastore di dormire all’ingresso dell’ovile, e quindi dell’agire sia come porta sia come pastore. 

Questo indebolisce molto l’importanza della figura del guardiano (Gv 10,3), messa in luce dall’interpretazione del primo cristianesimo: ciò che è importante è solo il pastore, quello vero. Gesù è la porta: dunque, «se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10,9).   

Gesù è pastore e perciò «le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei» (Gv 10,3-5).  

La spiegazione di questo elemento ci viene poco più avanti: «tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,8-10). Ed è la vita donata dal pastore vero, perché Gesù è colui che «dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,11). 

Vieni così a crearsi un rapporto straordinario fra le pecore e il pastore: questi conosce una per una le sue pecore e le chiama per nome, ed esse ascoltano la sua voce. Pertanto, fuggiranno dagli estranei che si evidenziano soltanto per un potere totalmente negativo nei confronti delle pecore: «rubare, uccidere e distruggere» (Gv 10,10). 

A questi estranei si aggiunge anche il mercenario, colui che è stipendiato per guidare delle pecore che non gli appartengono, e che le abbandona proprio quando il loro nemico naturale, il lupo, le assalta (così Gv 10,12). Il mercenario, dunque, è descritto come la totale opposizione al pastore: colui che fallisce proprio nel momento decisivo della sua azione, né tantomeno dà la sua vita. 

Questo ancor più vero perché Il Cristo che è il pastore quello vero, non ha solo le pecore del suo gregge, ma anche altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore» (Gv 10,16). Al popolo di Israele, si aggiungono anche i popoli pagani, 

In questa descrizione così attenta della figura del Cristo vero pastore, si arricchisce di una nuova precisazione, che dal rapporto fra lui e le sue pecore si spinge ad approfondire quello che c’è fra lui e il padre: «io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore» (Gv 10,14-15).  

Tutto questo è vero, perché a differenza di altre regioni geografiche, le pecore di quella terra pascolano insieme ad altre pecore, greggi con greggi: perciò il pastore deve utilizzare la sua “familiarità” con le singole pecore – letteralmente chiamare “per nome le sue pecore” – per riprendersi le sue pecore che pascolano insieme ad altri greggi. Ossia, come dice Giovanni, ogni pecora «entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10,9): la pienezza della vita, che ricevono grazie al pastore vero. 

In altre parole, se Cristo è la porta, egli è al tempo stesso la chiave per raggiungere il Padre.  

È esattamente questo che Gesù più avanti nel Vangelo dice a Tommaso, che gli chiede: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?» (Gv 14,5): «io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). 

È a questo che conduce la sua azione come porta delle pecore e come pastore. 

“Lazzaro, vieni fuori!”

Risurrezione di Lazzaro  

 

di Stefano Tarocchi · Il villaggio di Betania, che il Vangelo di Giovanni chiama il «villaggio di Maria e di Marta», diventa centrale nella sezione conclusiva del Vangelo secondo Giovanni, con la cena «sei giorni prima della festa di Pasqua».

Dice il Vangelo che «Gesù andò a Betania, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti.  E qui fecero per lui una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali» (Gv 12,1-2; cf. 12,1-8). Fu allora che Maria cosparge i piedi di Gesù di olio profumato di vero nardo, suscitando la reazione di colui che sarà il traditore «perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?» (v. 5). Come annota l’evangelista, a Giuda «non … importava dei poveri, ma perché era ladro e siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro» (v. 6).  

Questa cena precede il grande ingresso di Gesù a Gerusalemme, che apre gli eventi che condurranno alla sua passione, morte e risurrezione.  

Ma a Betania è ambientato anche un altro avvenimento: stavolta il protagonista è Lazzaro (Gv 11,1-45). Il vangelo dice che «Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro» (v. 5). E Marta e Maria mandano a dire a Gesù: «Signore, colui che tu ami è malato» (v. 3). 

L’evangelista però insiste sul ritardo di Gesù ad accogliere subito l’invito: «questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato» (v. 4). 

Così la partenza di Gesù per la Giudea avviene dopo due giorni: questo genera terrore nei discepoli, di fronte al rischio di dover affrontare una violenza contro di Gesù, come in precedenza era avvenuto a Gerusalemme. Gesù dice, fra l’altro, che «Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato, ma io vado a svegliarlo» (v. 11).  

È ciò che desta la perplessità nei discepoli: per loro, se Lazzaro è addormentato, vuol dire che non sta realmente male. Gesù afferma chiaramente: «Lazzaro è morto». E i discepoli sono convinti di andare incontro alla morte insieme a Gesù in quella terra dove ha rischiato di essere lapidato (Gv 8,59). Gesù però ha detto altro: «io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!» (v. 15). La sua vita, infatti, si svolge sotto la potenza divina: finché non sarà compiuta la sua missione, i nemici non potranno vincerlo   

A questo punto il racconto insiste sulla duplice osservazione delle sorelle, prima Marta, e poi Maria: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto» (vv. 21.32).  

Gesù, proprio a Marta, annuncia che Lazzaro risorgerà, ma senza aspettare l’ultimo giorno. Questa è la certezza che gli dichiara la donna, che tuttavia non nasconde la fede nell’azione di Gesù: «anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà» (v. 22).

Qui avviene la nuova rivelazione di Gesù: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno» (v. 25-26), e qui, in questo preciso momento, Marta riafferma la sua fede: «sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo» (v. 27). 

Ora la morte di Lazzaro è così drammatica che mentre Maria, l’altra sorella si fa incontro a Gesù, avvertita di nascosto da Marta, non appena questi la vede piangere, e anche i Giudei andati con lei, prova una così profonda commozione che anche Gesù si scioglie in un pianto totale (v. 33).  

È vero che questo pianto viene percepito come l’amicizia per Lazzaro, ma anche con la perfida verità di coloro che provano a rovesciare il senso delle sue azioni: dopotutto, secondo i detrattori, Gesù che ha aperto gli occhi al cieco (cf. Gv 9) poteva risparmiare questa morte (cf. v. 37). 

A questo punto tutto si svolge con una rapidità, tale da mettere in luce la potenza del Figlio di Dio. C’è una pietra che chiude la grotta, laddove si trova il sepolcro di Lazzaro – come davanti al sepolcro di Gesù –, e sono trascorsi già quattro giorni: tempo sufficiente perché la morte operi la sua azione devastatrice. Ma la potenza del figlio di Dio è tale anche di fronte a quell’evento tragico che il suo pianto manifesta, nonostante la certezza di ciò che sta per accadere, e che è rivelato nella preghiera di ringraziamento al Padre di Gesù, e dalle parole che restituiscono Lazzaro alla vita e ai suoi affetti: «Lazzaro, vieni fuori» (vv. 41-43).  

Il racconto di uno dei “segni” del Signore che il Vangelo di Giovanni trasmette ai suoi lettori, ciò che Gesù compie e il modo con cui egli agisce, è narrato perché si operi la fede. Ossia, perché tutti credano che lui è l’inviato del padre. 

Così l’evangelista Giovanni registra la fede di molti dei Giudei che erano venuti da Maria e che hanno visto ciò che il Cristo ha compiuto, ma anche il movimento operato da dai farisei sulla testimonianza di quanti hanno partecipato. Essi insistono perché quest’uomo, l’inviato di Dio, vada fermato.  

Uno degli esponenti più autorevoli del sinedrio, Caifa, sommo sacerdote in quell’anno, «profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Gv 11,51).  

Si potrebbe definire un perfetto ragionamento machiavellico ante litteram, aggravato dall’insistenza del Vangelo su questo dettaglio: Caifa, infatti, non parlava da sé stesso, ma nella sua funzione di sommo sacerdote. Accade così che «da quel giorno decisero di ucciderlo» (Gv 11,53). 

Gli avvenimenti prendono la piega che sappiamo, ma nel racconto del quarto Vangelo troviamo la presa d’atto di Gesù circa la morte che lo attende, in quella Pasqua che sarà l’ultima della sua vita terrena. Quando dei Greci, ebrei della diaspora, saliti a Gerusalemme per la Pasqua, si avvicinano prima a Filippo, e poi ad Andrea, essi portano una richiesta: «Signore, vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21). 

Gesù così risponde: «è venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà» (Gv 12,23-26).  

E qui si innestano dei probabili accenni a ciò che accadrà nel Getsemani prima dell’arresto di Gesù, nella rilettura tipica del Vangelo di Giovanni, che conosce quanto scrivono i primi tre Vangeli, ma li elabora nella sua maniera: «adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato».  

La risposta di Gesù conduce però ancora più lontano: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori» (Gv 12,27-31). 

E si rivela così il senso della morte che attende Gesù e anche il modo in cui avverrà: «io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me. Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12,23-33).

La trasfigurazione di Gesù

«Fu trasfigurato davanti a loro» 

 

di Stefano Tarocchi · Appena subito dopo l’episodio della professione di fede di Pietro – il Vangelo di Marco, seguito dal vangelo di Matteo, annota: «sei giorni dopo» –, colloca la vicenda misteriosa e affascinante della trasfigurazione di Gesù.  

Al centro c’è un monte, che non ha nome, lo stesso Gesù, e tre discepoli del gruppo dei Dodici. Subito dopo l’episodio c’è il secondo dei tre annunci della passione, e il commento conseguente di Gesù (Mc 9,30-37).  

Così leggiamo: «sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni – in Luca abbiamo «Pietro, Giovanni e Giacomo» – e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati.

 Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti» (Mc 9,2-10). 

Il racconto usa un’espressione estremamente evocativa quanto misteriosa per mettere in luce ciò che è accaduto a Gesù: «fu trasfigurato davanti a loro».  

Nella sua pagina l’evangelista Marco si muove a descrivere le vesti di Gesù, con il tocco diremmo quasi pittorico del suo tipico narrare: «le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche» (Mc 9,3). Così negli altri vangeli: «la sua veste divenne candida e sfolgorante» (Lc 9,29); «le sue vesti divennero candide come la luce» (Mt 17,2). Nei racconti paralleli di Matteo e di Luca lo sguardo del narratore si concentra anche sul volto di Gesù, divenuto quasi straniero: «mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto», letteralmente «divenne altro» (Lc 9,29); «il suo volto brillò come il sole» (Mt 17,2).  

Non è casuale che anche nel libro dell’Esodo abbiamo: «quando Mosè scese dal monte Sinai non sapeva che la pelle del suo volto era diventata raggiante, perché aveva conversato con il Signore» (Es 34,29). È qui che la traduzione latina di Girolamo ha ispirato in questo tratto la celebre statua di Michelangelo, con due corna che emergono dalla fronte. 

Ora, se la veste esprime il nostro essere in relazione con gli altri – l’abito fa il monaco –, il volto esprime la realtà della persona, in tutta la potenzialità del suo essere. 

Sul monte, con Gesù e i discepoli, compaiono anche Elia con Mosè, invertiti nell’ordine in cui ci aspetteremo di trovarli come rappresentanti delle sacre Scritture: la Legge e i Profeti. Oltretutto Elia non è nemmeno un profeta che ha lasciato un suo scritto, ma è immagine forte per descrivere la missione di Gesù: così il Battista ne riprende i tratti più significativi. 

Tuttavia, ciò che conta in questa occasione è la testimonianza di Mosè ed Elia, che infatti nel parallelo di Luca diventa il colloquio sull’esodo di Gesù («Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme»: Lc 9,30-31), ossia sulla passione che lo attende a Gerusalemme.
Nel testo di Marco la presenza di Mosè ed Elia giustifica le parole con cui Pietro, in maniera quasi ingenua, propone di costruire tre tende sul monte, per Gesù e i due rappresentanti delle antiche Scritture: «è bello essere qui» (Mc 9,5).  

L’evangelista mette in rilievo lo spavento di Pietro, che provoca l’assoluta incapacità di comprendere quell’evento, e non, come talora si sente, l’intenzione di restare sul monte, evitando la discesa dallo stesso monte che conduce poi a Gerusalemme.  

Di più, su quel monte si presenta anche una vera e propria manifestazione divina, con la voce che parla dalla nube e indica il Figlio, ponendolo al centro dell’ascolto dei discepoli: «questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9,7). E anche: «questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!» (Lc 9,35); «questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo» (Mt 17,5). Queste sono anche le identiche parole che troviamo nel racconto del battesimo di Matteo: «questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento» (Mt 3,17). 

L’episodio della trasfigurazione ha il suo culmine nel momento della discesa, con l’ordine di Gesù ai discepoli di non rivelare quanto hanno veduto sul monte. Il termine è fissato dopo la risurrezione dai morti del Figlio dell’uomo.  

Ma è proprio questa la domanda che si pongono: che cosa significa risorgere dai morti? 

In questa maniera l’evangelista narra ai suoi lettori il cammino verso Gerusalemme: una volta stabilito che Pietro afferma che Gesù è il Cristo (Mc 8,29), è il momento di compiere il viaggio verso Gerusalemme. La città santa saprà rivelare in pieno il significato di questo episodio carico di mistero.  

Intanto i discepoli si trovano in mezzo alla loro povertà di creature umane, «uomini di poca fede» (Mc 4,40).
Infatti, poco prima, ed esattamente quando ha riferito le sue parole, il Vangelo di Marco ha riferito che Pietro «non sapeva cosa convenisse dire: erano spaventati» (Mc 9,6; cf. Lc 17,33: «egli non sapeva quello che diceva»). Così che in Luca e in Matteo si parla di paura e di terrore: «all’entrare nella nube, ebbero paura» (Lc 17,34); «all’udire ciò [la voce divina che parla dalla nube], i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore» (Mt 9,6). Ma proprio in quel momento, è sempre Matteo a raccontarlo, «Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete» (Mt 17,8). 

Possiamo chiederci il perché di questo silenzio: si tratta forse di una delle modalità del silenzio messianico, o meglio della possibilità di equivocare sull’interpretazione della missione di Gesù? 

Perché «beati i poveri»? Una parola importante nei Vangeli

«Beati i poveri?»

 

Il Mantello della Giustizia – Febbraio 2023

di Stefano Tarocchi · È noto che nei Vangeli di Matteo e Luca, all’interno dell’insegnamento chiamato delle beatitudini, viene a trovarsi in primo piano quella circa i poveri. Così leggiamo in Matteo: «vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: 

 «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,1-3). E così leggiamo in Luca: «tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti. Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio» (Lc 6,19-20). 

Qui non è possibile notare tutti gli elementi che gli Evangelisti mettono in evidenza, ma cominciando dalla folla che entra in contatto con Gesù, perché come dice il vangelo di Luca: «da lui usciva una forza che guariva tutti», le parole di Gesù sembrano piuttosto essere rivolte ai discepoli. 

Non è il caso di stabilire perché Luca dice «beati voi poveri», e Matteo «beati i poveri in spirito». In sostanza non si mettono in contrasto due modi di intendere la povertà, quella che chiama direttamente in causa i discepoli («beati voi»), e quella che specifica «i poveri in spirito». Così Matteo precisa – e non diminuisce! – il senso della povertà, di fronte al rischio di renderla solo un’ipotesi: si è davvero poveri se non si è attaccati a niente, nemmeno alla stessa povertà. 

Nemmeno qui importa decidere quale dei due detti di Gesù è quello più antico: probabilmente quello più sintetico di Luca, che alle quattro beatitudini da lui trasmesse (Matteo ne tramanda ben otto, più una ulteriore, che si rivolge direttamente ai discepoli) aggiunge quattro appelli, come quello che si accompagna alla beatitudine della povertà: «guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione» (Lc 6,24), letteralmente un vero e proprio grido di denuncia contro ciò che si oppone all’essere povero, che si accompagna al possesso del regno di Dio, o del Regno dei cieli, come dice Matteo.  

I lessici definiscono questa parola (guai!) quasi onomatopeica «un’esclamazione di dolore o di denuncia… che esprime estremo dispiacere e chiede per il dolore una pena retributiva su qualcuno o su qualcosa: guai! ahimè!». Si trova due volte in Marco; undici in Luca, oltre alle quattro di questo contesto, e addirittura ventiquattro in Matteo 

Matteo consegna quest’insegnamento di Gesù, le “beatitudini”. raccogliendolo nel primo dei cinque grandi discorsi che caratterizzano questo scritto. Insieme a Luca, come è noto, Matteo utilizza la “fonte dei detti”, ma quest’ultimo Vangelo la restituisce in maniera differente, ossia collegando insieme questa serie omogenea di insegnamenti. 

Ciò che determina, tuttavia, il senso di questa esaltazione controcorrente della povertà – che non è certo al centro delle ambizioni dell’opinione corrente –, la prima di quelle situazioni controcorrente che il Vangelo consegna nelle parole di Gesù allora e oggi a quanti sono capaci di ascoltarle. 

Il richiamo ai poveri lo troviamo anche in altri passaggi dei Vangeli: richiamiamo qui in particolare due brevi tratti di Matteo e Luca,  che già affrontato di recente.  

Le risposte di Gesù affidate agli inviati del Battista, fino a raggiungere lui stesso mentre si trova in prigione, stretto nel dilemma di aver fallito completamente la sua missione, è determinante nel mettere in rilievo proprio questo insegnamento del Vangelo.  

«Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo» (Mt 11,4-5): così Matteo.  E così Luca: «andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia» (Lc 7,22). 

Non a caso la letteratura biblica, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, non è molto distante da queste parole, che legano la povertà e l’umiltà. Se il povero è colui che ha a disposizione come suo difensore soltanto il Signore, ecco che Sofonia, profeta scrittore vissuto nel VII secolo a.C. sotto il regno del re Giosia (640-609 circa a. C.) può così affermare: «cercate il Signore voi tutti, poveri della terra, che eseguite i suoi ordini, cercate la giustizia, cercate l’umiltà; forse potrete trovarvi al riparo nel giorno dell’ira del Signore» (Sofonia 2,3).  

È un concetto che troviamo nel libro dell’Esodo, a proposito del riposo della terra ogni sette anni: «nel settimo anno non sfrutterai [la terra] e la lascerai incolta: ne mangeranno gli indigenti del tuo popolo e ciò che lasceranno sarà consumato dalle bestie selvatiche. Così farai per la tua vigna e per il tuo oliveto (Es 23,11). Un concetto, questo, proponibile ancora di questi tempi? 

Ma la risposta arriva dalla seconda parte del libro di Isaia (VIII secolo a.C.), scritta da un autore anonimo che scrive all’epoca dell’esilio in Babilonia (587-538), posta sotto il nome del profeta omonimo e denominata anche “Libro della consolazione”: «i miseri e i poveri cercano acqua, ma non c’è; la loro lingua è riarsa per la sete. Io, il Signore, risponderò loro, io, Dio d’Israele, non li abbandonerò (Is 41,17).