Dai Vangeli alla tradizione cristiana: la trasfigurazione di Gesù

La trasfigurazione di Gesù nella tradizione legata a Pietro

Il Mantello della Giustizia – Settembre 2023

I lettori abituali dei Vangeli conoscono l’episodio della trasfigurazione di Gesù a Pietro Giacomo e Giovanni narrato in tutti e tre i vangeli sinottici (Mc 8,27-30; Mt 16,13,20; Lc 9,18-21), con caratteristiche comuni ma anche tipiche di ciascuno degli autori.  

Molto meno conosciuto è un riferimento di questo straordinario episodio ad un passaggio della seconda lettera di Pietro.  

Questo scritto fu composto da un cristiano anonimo del II secolo, che conosce le lettere di Paolo: si legge infatti: «la magnanimità del Signore nostro consideratela come salvezza: così vi ha scritto anche il nostro carissimo fratello Paolo, secondo la sapienza che gli è stata data, come in tutte le lettere, nelle quali egli parla di queste cose. In esse vi sono alcuni punti difficili da comprendere, che gli ignoranti e gli incerti travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina» (2 Pt 3,15-16)  

L’autore si ispirò alla figura e all’insegnamento di Pietro per trasmettere il suo messaggio ai suoi lettori, allo scopo di mettere in guardia i cristiani contro i falsi maestri che minacciavano la loro fede, negando fra l’altro il ritorno del Signore, visto l’apparente ritardo. 

Ecco il testo, inserito all’interno del suo immediato contesto: «fratelli, cercate di rendere sempre più salda la vostra chiamata e la scelta che Dio ha fatto di voi. Se farete questo non cadrete mai. Così, infatti, vi sarà ampiamente aperto l’ingresso nel regno eterno del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo. Penso, perciò, di rammentarvi sempre queste cose, benché le sappiate e siate stabili nella verità che possedete.  Io credo giusto, finché vivo in questa tenda, di tenervi desti con le mie esortazioni, sapendo che presto dovrò lasciare questa mia tenda, come mi ha fatto intendere anche il Signore nostro Gesù Cristo. E procurerò che anche dopo la mia partenza voi abbiate a ricordarvi di queste cose. Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza.  Egli, infatti, ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”. Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2 Pt 1,10-18). 

Non è cosa semplice stabilire la fonte di questi due versetti (2 Pt 1,17-18), che riprendono la teofania del monte su cui Gesù si è rivelato ai suoi discepoli, già raccontata nei vangeli sinottici.  

Nel testo dei Vangeli l’episodio della trasfigurazione precede di poco (Mc 9,2 e Mt 17,1: «sei giorni dopo»; Lc 9,38: «circa otto giorni dopo») la professione di fede di Pietro, avvenuta nei villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, nel nord della Galilea. Gli evangelisti fanno emergere il riferimento alla teofania del battesimo, che apre la missione pubblica di Gesù e che presenta elementi analoghi (Mc 1,9-11; Mt 3,13-17; Lc 3,21-22).  

La teofania di Gesù sulla montagna apre invece il cammino verso Gerusalemme e la sua passione e risurrezione. Tanto è vero che in quel determinato contesto si susseguono gli annunci della passione (vedi Mc 8,31-38), che contengono ossia un modello di Messia molto diverso da quello che i discepoli vorrebbero attendersi. Questo è ancora più vero perché Gesù impone un silenzio sul suo messianismo, per evitare ogni equivoco devastante. 

Accanto a Gesù, i protagonisti sono proprio Pietro e due discepoli, Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo.  

Mentre però i Vangeli parlano di trasfigurazione, e si concentrano sul volto di Gesù e sulle sue vesti, il solo Luca parla della «gloria» (Lc 9,32), come la lettera di Pietro. Fra l’altro Pietro non è rappresentato come sconvolto da ciò che vede, ma molto attento all’evento: «non siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate ma perché siamo stati testimoni oculari – ecco il riferimento a Pietro – della sua grandezza» (2 Pt 1,16). L’autore anonimo dello scritto è attento a dire che l’avvenimento non è un racconto costruito da una mente unicamente umana, un mito – in greco c’è proprio questa parola! – come il prodotto di una intelligenza artificiale ante litteram.

Inoltre, la voce divina, descritta in quanto proviene dalla «maestosa gloria» (2 Pt 1,17), ossia dalla gloria della maestà divina, riprende un elemento della tradizione battesimale: Gesù non è soltanto il Figlio ma anche il Figlio amato.  

Inoltre, si parla della «potenza e la venuta – ossia della venuta potente – del Signore nostro Gesù Cristo» (2 Pt 1,16): è questo di fatto il significato della trasfigurazione com’è narrata nella lettera di Pietro. Per questa ragione alcuni autori hanno voluto vedere nell’episodio della trasfigurazione come una manifestazione di Gesù risalente alla fase che segue la risurrezione. 

Sulla medesima lunghezza d’onda, sempre all’interno della tradizione riferita a Pietro, troviamo anche un apocrifo, l’Apocalisse di Pietro – apocrifo greco della prima metà del II secolo, da cui deriva anche un testo del IV secolo scritto in lingua copta e di natura gnostica, che ambienta l’evento sul monte degli Ulivi, in cui Gesù riprendendo immagini della tradizione evangelica spiega il suo ritorno come Figlio dell’Uomo. La manifestazione si sposta quindi su un’altra montagna santa, dove due uomini gloriosi («Mosè, Elia, Abramo, Isacco, Giacobbe») si mostrano accanto a Gesù, che al termine viene innalzato al cielo dalla voce divina. 

C’è però anche un testo di non facile interpretazione che troviamo nel Vangelo di Marco: «in verità io vi dico: vi sono alcuni, qui presenti, che non morranno prima di aver visto giungere il regno di Dio nella sua potenza» (Mc 9,1). Il Vangelo è seguito da altre tradizioni della Chiesa primitiva. 

In conclusione, per rifarsi alla complessità di queste tradizioni possiamo intravedere un modo di trasmettere quanto è avvenuto a Gesù nella sua trasfigurazione, che apre all’altro tema maggiormente sentito al tempo – siamo agli inizi del secondo secolo – della definizione più esatta della figura di Gesù. In particolare, l’apocrifo attribuito a Pietro insiste sulla ricompensa ai giusti e la punizione ai malvagi.   

Proprio nell’Apocalisse di Pietro viene assegnato a Gesù un ruolo da parte di Dio, che va oltre la sobrietà della narrazione evangelica, per raggiungere quelle forme espressive tipiche delle apocalissi e dei tempi in cui vengono composte. Tutti questi testi, infatti, sono stati inseriti nel canone dei libri ispirati non senza molte difficoltà. 

Oltre il Padre Nostro: la preghiera di lode al Padre di Gesù

«Ti benedico, o Padre…» 

 

Il Mantello della Giustizia – Agosto 2023

di Stefano Tarocchi · Nel Vangelo secondo Matteo, dopo il lungo discorso nel quale Gesù istruisce i discepoli per inviarli nella loro missione, che li fa divenire apostoli (Mt 10,1-42), e poco prima dell’insegnamento sul sabato (Mt 12,1-13) che si conclude con la decisione degli avversari di una condanna a morte (Mt 12,14), viene pronunciata una severa invettiva contro le città di Corazìn e di Cafàrnao che non hanno accolto le sue parole e non si sono convertite (Mt 10,20-24).  

È in questo preciso punto del vangelo di Matteo che Gesù pronuncia una intensa preghiera di lode al Padre: «in quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25). E si conclude così: «sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza» (Mt 11,26). 

Alcuni autori hanno notato, la novità dell’“identità profetica” di Gesù: non si rivolge ai migliori, i «sapienti», e i «dotti», coloro che sono attrezzati per ogni cosa, ma si è rivolto ai «piccoli», coloro che sono comunque svantaggiati: un tema ricorrente nel Benedictus e nel Magnificat (cf. Lc 1,48. 68).  

I «piccoli» dipendono sempre da altri: ad esempio, i bambini, come metafora del nuovo essere dei credenti in Gesù. Anche Gesù – scrive François Bovon – è uno di questi bambini: «non porta forse il titolo di “figlio”? Senza essere “figlio” (con la minuscola), non sarebbe “Figlio” (con la maiuscola»). 

L’orazione di Gesù ha quindi un tenore molto particolare. Intanto, si trasforma soprattutto e gradualmente in una rivelazione del suo rapporto di Figlio con il Padre: «tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Mt 11,27). 

Quindi la sua parola di Gesù diventa un invito rivolto a coloro che accolgono la sua parola: «venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo, infatti, è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,28-30). 

Se il “giogo” normalmente indica la sapienza di Dio, la sua parola, allora capiamo che egli è divenuto la piena manifestazione di Dio. L’affermazione «prendete il mio giogo», parallela all’iniziale «venite a me», rivolta da Gesù a coloro che sono affaticati e gravati dai pesi che devono portare, indica Gesù come colui che resta mite nonostante tutto.  

Nel racconto parallelo del Vangelo di Luca questa lode è inserita non appena sono rientrati i settantadue discepoli del nuovo invio missionario (Lc 10,1-72), che segue all’invio dei dodici (Lc 9,1-10): «in quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli».  

Anche questa versione della preghiera si conclude con un’affermazione solenne: «Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza» (Lc 10,21). 

Naturalmente, non è il caso di parlare dello straordinario rapporto di Gesù con il Padre che si richiama alla preghiera del Padre Nostro (Mt 6,9-13; Lc 11,1-4). 

Peraltro, la tradizione di Luca adatta direttamente ai discepoli quell’insegnamento che si aggiunge all’esclamazione di lode, e completa l’insegnamento sul rapporto speciale di Gesù con il Padre: «rivolto ai discepoli, in disparte, disse: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono» (Lc 10,23-24).  

Anche Matteo ha dedicato questo logion ai discepoli, ma lo troviamo poco più avanti, nel discorso che contiene le parabole: «beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e (molti) giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!» (Mt 13,16-17). Da notare la mutazione da «profeti e re» (Lc) a «profeti e giusti» (Mt).

È significativo inoltre che l’avverbio usata da Luca (“in disparte”, “in privato”), abbia comunque un riferimento alla preghiera (Mt 14,23: «congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare»), per toccare la trasfigurazione sul monte (Mc 9,2; Mt 17,1), o comunque il rapporto con i discepoli (Mc 6,31.32; Mc 9,28; Mc 13,3; Mt 17,19; Mt 20,17; Mt 24,3; Lc 9,10), oppure alle azioni di Gesù, quando opera delle guarigioni (Mc 7,33: «lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua»). 

Anche nel parallelo di Marco del discorso che contiene le parabole (Mc 4,1-34), della triplice tradizione – da Marco, a Matteo e Luca – l’espressione denota la differenza fra l’insegnamento pubblico di Gesù e quello rivolto ai discepoli: «senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa (Mc 4,34). 

La domanda da farci è la seguente: se anche Matteo non lo dice espressamente, i destinatari, o i primi ascoltatori di queste parole, sono proprio i discepoli. Sia Matteo che il parallelo di Luca nella preghiera di lode, introdotta con un verbo molto solenne, esplicitano la duplice azione divina che nasconde la sua azione a coloro che pensano di poter sussistere a prescindere da Dio e dagli altri: appunto i sapienti e gli intelligenti – magnificamente interpretati al tempo da scribi e farisei– (e oggi?), mentre Dio si rivela ai piccoli, quelli che dipendono in tutto e per tutto dagli altri.  

Questo è il disegno divino, la sua Buona Volontà, come risuona nell’inno degli angeli ai pastori, proprio del Vangelo di Luca (Lc 2,14). 

A ben pensare, e in conclusione, un singolare percorso dietro la formazione, a partire dalla tradizione orale, di quello che sono diventati nel tempo i nostri evangeli Sinottici. 

Il rischio di trasmettere le parole di Gesù come i detti di un saggio

«Chi accoglie voi accoglie me…»: il rischio di trasformare la parola del Vangelo in slogan

Il Mantello della Giustizia – Luglio 2023

 

di Stefano Tarocchi · Se ho imparato una cosa in oltre trent’anni di insegnamento della Sacra Scrittura, Nuovo Testamento prima allo Studio teologico e poi alla Facoltà teologica dell’Italia centrale, è quella di porgere un testo pienamente inserito nel suo contesto e idealmente completo a quanti devono leggerlo ed intenderlo, e magari spiegarlo.

Purtroppo, viviamo in anni di analfabetismo di ritorno, anche nello studio della teologia, qualcosa che si è accentuato in tempi di intelligenza artificiale che seguono il periodo nero del Covid, e anche la relativa facilità di scaricare dalla rete commenti biblici sinceramente sconcertanti.

Questa fenomenologia, estremamente complessa anche solo da afferrare, ha però una aggravante non banale, se all’omileta domenicale, com’è avvenuto fra le domeniche XI e XIII del tempo ordinario dell’anno A – quello attuale –, viene offerta un’antologia rarefatta del discorso missionario Gesù ai discepoli (Matteo 10).

L’evangelista Matteo parte dall’esperienza vitale di Gesù, che «percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e ogni infermità». È a questo punto che così prosegue: «vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!» (Mt 9,35-38).

In questa maniera il Vangelo secondo Matteo offre una sua ricostruzione della scelta all’interno del gruppo intero, di dodici discepoli, i cui nomi porge al suo lettore: «i nomi dei dodici apostoli – qui anticipa il futuro invio missionario – sono: primo, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello; Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello; Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo il pubblicano; Giacomo, figlio di Alfeo, e Taddeo; Simone il Cananeo e Giuda l’Iscariota, colui che poi lo tradì» (Mt 10,2-4).

Il racconto di Matteo si differenzia da quello della sua fonte più vicina, ossia che è l’evangelista Marco, che dapprima racconta la scelta dei “Dodici” (Mc 3,13-14), e poi, dopo circa tre capitoli (Mc 6,7), racconta il loro invio nella missione, nella quale gli stessi Dodici diventano gli inviati, ossia gli apostoli.

È vero che non è sempre chiara la differenza anche fra i commentatori abituali tra questa terminologia, che di fatto il solo Marco adopera in maniera realmente precisa. Si tende, cioè, a sovrapporre il termine Dodici a quello di apostoli e viceversa.

Chi fa, per esempio, l’omelia domenicale si trova di fronte (XI domenica “A”) a un primo accenno del senso di questo invio: «non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,5-8). Peraltro, nella domenica seguente (XII “A”) si fa un salto enorme, dal versetto 8 fino al versetto 23 dello stesso capitolo 10 di Matteo, dov’è illustrato con chiarezza il senso di questa missione.

Di fatto, a partire da alcuni semplici dettagli (il tipo di moneta che non deve essere nel bagaglio degli inviati, l’assenza del bastone) lasciano trasparire un ambiente missionario molto diverso da quello, dove ad esempio il bastone è essenziale.

In Mt 10,26 invece si intima ai discepoli per due volte il comando di «non avere paura», e lo si completa indicando chi dovrebbe essere l’oggetto di questa attenzione: «abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo» (Mt 10,28).

Forse il curatore del lezionario, in questa come nella domenica seguente (XIII “A”), si sente giustificato dall’aver premesso, senza degnarsi neanche di usare neanche una parentesi, una specie di premessa che si sostituisce alla parola di Dio: “Gesù disse ai suoi apostoli”, che sembra una sorta di invito al commentatore a far riferimento al testo completo. Ma questo invito sarà accolto?

E una volta ancora, nella domenica XIII “A”, sono stati omessi altri quattro versetti per arrivare finalmente alla conclusione: i vv. 37-42.

È evidente che tutto è affidato alla buona volontà del commentatore, ma anche alla saggezza di quanti ascoltano queste parole e la loro spiegazione. Questo non impedisce tuttavia di creare una obiettiva difficoltà nel commentare un testo così ricco, inquadrandolo pienamente nel suo contesto – Matteo scrive a comunità che si sono stabilita anche nelle piccole città, a differenza del racconto di Marco, che ha in mente i soli ambienti rurali, e in primo luogo pensa a una missione esclusivamente all’interno del popolo d’Israele – con il rischio di rendere del tutto marginale il pensiero di Gesù, che, mosso da compassione verso le pecore senza pastore, decide di creare intorno a sé un gruppo di discepoli che porta a tutti, nella libertà di ciascuno, il suo annuncio di salvezza, il vangelo.

È pur vero che la parola di Dio, anche se così frammentata, è pur sempre efficace; ma un tale approccio rischia di isolare determinati spunti e di lasciar trasparire l’immagine di un Gesù che parla attraverso soltanto pillole di saggezza, come determinati guru, anziché rinviare in maniera straordinaria al suo essere, attraverso i discepoli, anche lui l’inviato, ossia l’apostolo, ma del Padre, come dice la lettera agli Ebrei: «Gesù, l’apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo» (Eb 3,1).

Gesù e lo Spirito Santo

«Come dice la Scrittura: dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva» (Gv 7,37-39)

Il Mantello della Giustizia – Giugno 2023

di Stefano Tarocchi – La liturgia della celebrazione della vigilia del giorno di Pentecoste usa un tratto del Vangelo secondo Giovanni estremamente breve, ma altrettanto complesso, riferito al culmine della festa delle Capanne (cf. Gv 7,2): «nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva».

Qui il vangelo di Giovanni enuncia un principio straordinariamente importante: l’evangelista si rivolge ai suoi lettori per dare l’interpretazione del gesto di Gesù e della Scrittura che viene invocata a riprova: «Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato» (Gv 7,37-39).

Lo Spirito santo evocato dal dono dell’acqua viva – e che il vangelo paradossalmente dice che ancora non c’era – risolve un problema enorme: chi è la fonte dei fiumi di acqua viva?

Anche se per un lettore di oggi non sembra troppo difficile da capire, il testo così come l’abbiamo letto indica Gesù come la fonte dell’acqua viva.

Ma il testo greco del Vangelo può essere tradotto in un altro modo, che favorisce l’interpretazione che la fonte dell’acqua è lo stesso credente: «Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me (come dice la Scrittura), “Dal suo interno sgorgheranno fiumi di acqua viva”». Questa punteggiatura è sostenuta da Origene e dalla maggior parte dei Padri orientali.

Torniamo però all’interpretazione più comune, che risale già al II secolo, quindi poco dopo la stesura finale del Quarto Vangelo. Essa ha senz’altro una conferma nello stesso vangelo, a partire da quando Gesù dice alla donna Samaritana: «se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva?  Sei tu forse più grande di nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?».  Gesù le risponde: “Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,10-14).

Anche in Gv 19,34 si parla dell’acqua, che insieme al sangue, viene dal costato di Gesù trafitto dal soldato. Infine, nel libro dell’Apocalisse si legge di «un fiume d’acqua viva, limpido come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello» (Ap 22,1).

Ma quale passo della Scrittura viene citato al v. 38? È significativo notare che le parole citate in Giovanni non rispecchiano esattamente nessun passo del testo ebraico o dei Settanta, per cui i commentatori hanno dovuto usare un certo impegno nel rintracciare passi almeno simili. L’edizione più nota del testo originale dei Vangeli inserisce a margine un significativo: “da dove?”. E richiama Isaia 43,19-20; Ezechiele 47,1-12; Gioele 4,18; Proverbi 18,4; Cantico 4,5 (alla cui lettura rimandiamo)

Durante la festa delle Capanne, le parole pronunciate da Gesù diventano come la drammatizzazione all’interno di una cerimonia solenne. In ognuna delle sette mattine precedenti la fine della festa una processione scendeva alla fonte di Gihon, sul lato sud-est della collina del tempio, quella che forniva le acque alla piscina di Siloe.

Lì un sacerdote riempiva d’acqua una brocca d’oro, mentre il coro ripeteva Is 12,3: «con gioia attingerete acqua dai pozzi della salvezza». Poi la processione saliva al Tempio attraverso la Porta dell’Acqua. La folla che accompagnava la processione portava nella mano destra un mazzo di ramoscelli di mirto e di salice, legati con una palma (una reminiscenza dei rami usati per costruire le capanne), e nella mano sinistra un limone o un cedro che serviva come segno del raccolto. Inoltre, si cantavano i salmi dell’Hallel (113-118). Quando raggiungevano l’altare degli olocausti, davanti al Tempio, tutti camminavano intorno all’altare e agitavano i ramoscelli, cantando il Salmo 118. Poi il sacerdote saliva la rampa che portava al Tempio verso l’altare per versare l’acqua in un imbuto d’argento, da cui scorreva nel terreno. Il settimo giorno si faceva per sette volte questo percorso intorno all’altare.

Le loro preghiere per l’acqua erano state esaudite in un modo che non si aspettavano; la festa che conteneva in sé la promessa del Messia si era compiuta. Zaccaria aveva predetto che da Gerusalemme sarebbero sgorgate acque vive: «in quel giorno acque vive sgorgheranno da Gerusalemme e scenderanno parte verso il mare orientale, parte verso il mare occidentale: ve ne saranno sempre, estate e inverno» (Zc 14,8). Ezechiele aveva visto un fiume sgorgare dalla roccia situata sotto il Tempio: «mi condusse poi all’ingresso del tempio e vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente, poiché la facciata del tempio era verso oriente. Quell’acqua scendeva sotto il lato destro del tempio, dalla parte meridionale dell’altare» (Ez 47,1).

Secondo i commentatori, è in questo momento solenne delle cerimonie del settimo giorno che Gesù si alza nel cortile del tempio per proclamare solennemente di essere la fonte dell’acqua viva. Ma ora è Gesù che dice che questi fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo stesso corpo, quel corpo che è il nuovo Tempio (Gv 2,21).

Nel cammino del deserto che questa festa ricordava, Mosè aveva saziato la sete degli israeliti colpendo una roccia dalla quale faceva sgorgare fiumi di acqua viva. Ora chi ha sete non deve far altro che venire a Gesù e, credendo, avrà l’acqua della vita. Come la manna data ai loro antenati nel deserto non era il vero pane del cielo (Gv 6,32), così l’acqua della roccia era solo una prefigurazione della vera acqua della vita che sgorga dall’Agnello (cf. Ap 7,17: «l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita»).

Se l’acqua è simbolo della rivelazione che Gesù dà a coloro che credono in lui, è perciò anche il simbolo dello Spirito che Gesù risorto darà, come precisa il v. 39. Al momento della sua morte Gesù consegnerà lo Spirito (Gv 19,30), così come l’acqua uscirà dal suo fianco, aperto dalla lancia del soldato (Gv 19,34). 1 Giovanni 5,7 riunisce i temi dello Spirito e del sangue e dell’acqua dal costato di Gesù: «Tre sono i testimoni: lo Spirito, l’acqua e il sangue; e questi tre sono concordi».

È appunto per questo che una lettura così evocativa viene assegnata alla liturgia della Vigilia di Pentecoste.