Per una cura sempre più umana

di Stefano Tarocchi • Il progetto che nasce in questi giorni all’interno della Scuola di Medicina dell’Università di Firenze, fortemente voluto dal prof. Gianfranco Gensini, già preside, vuole portare all’attenzione dei futuri operatori sanitari le esigenze che la condizione religiosa del paziente pone a quanti lo curano nelle varie situazioni e in questo nostro tempo, stante l’odierna situazione multi-culturale e multi-religiosa. L’approccio scelto lascia ad altre circostanze le complesse tematiche della bioetica, per concentrarsi su un approccio e una modalità di cura, sempre più concentrate sull’unicità della persona.

Tale progetto si caratterizza come un vero e proprio corso opzionale della Scuola di Medicina, articolato in diversi incontri a più voci. Oltre a chi scrive, che rappresenta la Facoltà di Teologia dell’Italia Centrale (ma tendenzialmente anche il vasto e polimorfo orizzonte cristiano), ci saranno rappresentanti dell’ebraismo, del mondo islamico e di quelli buddista e induista.

Per quanto riguarda gli aspetti principali da offrire ai partecipanti, li riassumo schematicamente in nove punti:

  1. Spiritualità e preghiera: Molti pazienti vivono la malattia non necessariamente in maniera coerente con il vissuto passato: la stessa esperienza di preghiera, che pure si dimostra importante sotto vari profili, può essere ricuperata o totalmente respinta. L’ambiente che lo cura, attraverso tutti gli operatori in campo, dovrà essere attento a porre in essere una attenzione particolare perché sia libero di esprimere l’atteggiamento che più gli è consono.
  2. I rapporti con la famiglia: L’operatore sanitario dovrà cercare un rapporto con la famiglia, durante tutta la permanenza del paziente nella struttura sanitaria, informando sulla diagnosi, sulle terapie e gli esiti previsti delle cure. Il tutto senza escludere il paziente, che andrà comunque coinvolto, nei modi che si rendano possibili ed auspicabili, anche al fine di ottenere la sua collaborazione in tutto il trattamento.
  3. Il dolore: L’atteggiamento fino a qualche tempo fa trasmetteva l’ineluttabilità del dolore si direbbe ampiamente superato. L’esperienza della fede, soprattutto nelle malattie più gravi, può influenzare la percezione del dolore fino ad alzarne la soglia. Il medico dovrà guidarlo, con gli strumenti terapeutici a sua disposizione ma anche con la sua umanità, a ristabilire un movimento di reale avanzata verso la guarigione auspicata e possibile.
  4. La fine della vita: La condizione inevitabile che conduce alla fine della vita dovrà tenere conto, oltre che della persona in causa di quanti le sono (più o meno) legati. Dalla ribellione alla lotta alla rassegnazione, se la persona è in grado di viverla personalmente da soggetto partecipe, oppure dalla famiglia. Qui sorgono inevitabilmente problemi di ordine etico, che toccano questioni sensibili e complesse, quali l’accanimento terapeutico e l’eutanasia. L’operatore sanitario dovrà essere particolarmente concentrato per essere vicino al soggetto che vive quest’esperienza, ma anche ai familiari, dal momento in cui la notizia dell’evento ineluttabile viene trasmessa a tutte le fasi successive.
  5. La morte e la gestione della salma: La morte nella struttura sanitaria tende a riprodurre quell’atteggiamento di estraneità all’ordine della vita, tipico delle culture che danno importanza solo a chi abita un corpo perfetto, sano, piacevole allo sguardo. Per questo è vissuta senza quella tradizione sapienziale che la ritiene, per lo meno in certi contesti e date alcune condizioni, un fenomeno perfettamente naturale, sebbene doloroso. Il corpo del defunto assume una connotazione di sacralità in numerose culture: l’abitudine a vegliare la salma ed esprimere la partecipazione al dolore dei familiari ne è testimonianza, a prescindere dalla sorte che la attende dopo. La stessa cremazione, pur essendo per sé estranea al tessuto cristiano, è accettata nella comunità ecclesiale. Resta problematica per altre ragioni la dispersione delle ceneri o la collocazione nella casa stessa dove il defunto ha abitato con i familiari.
  6. Le differenze di genere: Differenze di genere possono avere importanza nel tipo di malattia presa in cura e nei modi differenti di tolleranza del dolore. Questo vale anche pure in quell’elemento, forse non così evidente nella nostra cultura occidentale e tendenzialmente permeata dal cristianesimo, ma ugualmente importante, del diverso approccio che un medico e un operatore di sesso differente da quello del paziente dovrebbe porre nell’analisi diagnostica e nella terapia di malattie (o di stati funzionali) collegati alla sfera sessuale, come pure della gestione, per esempio, dell’igiene quotidiana.
  7. I trapianti di organo: L’operatore cercherà di informare i familiari della persona della possibilità dell’espianto per la donazione degli organi. Tale informazione assumerà una diversa modalità quando la persona stessa avesse dato il suo assenso. Non andrà mai trascurata l’informazione circa il fatto che in nessun caso viene modificato il trattamento terapeutico, per favorire un pur lodevole atteggiamento verso altri pazienti che attendano la donazione medesima.
  8. L’alimentazione: La fede cristiana non sembra avere un impatto particolare su questo aspetto particolare, salvo fatto nelle persone che hanno un’età avanzata, memori di un’educazione attenta ad esempio all’astinenza dalla carne in alcuni periodi dell’anno. Prevale l’atteggiamento che associa l’alimentazione al benessere della persona e della sua salute.
  9. Considerazioni finali: Un tema ulteriore che credo rilevante sia quello dello stato della persona anziana, malata cronica, magari di una malattia che la priva delle sue capacità mentali. Se la persona, a casa o dalla residenza sanitaria assistita, viene condotta per un’urgenza nella struttura sanitaria, dovrebbe essere accolta nella sua piena umanità, e la medicina, senza inumani accanimenti, dovrà fornirle quanto le è possibile.

A proposito de “I Vangeli” di Pietro Citati

image (1)di Stefano Tarocchi • «La verità fondamentale per la quale sono stati scritti i Vangeli – Gesù è il figlio di Dio – non venne proclamata da Gesù morente o dai suoi discepoli o dalle donne di Galilea o da un ebreo convertito. Venne proclamata da uno straniero, che apparteneva al popolo dei persecutori, e certo guardava con ironia o indifferenza alle risse religiose di Israele: lo strano popolo che credeva (parola che egli non capiva) in un solo Dio, e non in una moltitudine colorata di dei» (I Vangeli, 140). Le parole che Pietro Citati scrive, riferendosi alla professione di fede del centurione romano alla morte di Gesù, alla fine del capitolo diciotto, terzultimo dei venti che compongono quest’agile volume (pubblicato da Mondadori nella collana “i Saggi”, Milano 2014), possono servire da emblema di questo percorso con cui affronta con maestria la figura di Gesù a partire dai quattro libretti che conosciamo come Vangeli, poi entrati nel canone del Nuovo Testamento. La bibliografia essenziale, che fa riferimento a testi tradotti e pubblicati in Italia dall’editrice Paideia, con i commentari di Gnilka, Pesch, Schürmann, Bovon, Schnackenburg, divenuti ormai classici, testimonia che l’intenzione di Citati  è più che seria.

Ma perché un critico letterario di prim’ordine si confronta con un tema così particolare? Oggi abbiamo il dono di vivere in un tempo in cui le parole di Francesco, il papa di Roma, ridanno freschezza all’opera dell’evangelizzazione, sciogliendola dall’ingessatura in cui anche uomini di chiesa, inavvertitamente, talora condannano, sembra quasi scontato. Quando un comico, citato peraltro dallo stesso Francesco, si cimenta con le Dieci Parole in diretta televisiva e riesce a dire cose che bucano lo schermo, allora c’è spazio anche per un critico letterario che spiega ad esempio il Padre Nostro con la capacità degli esegeti di professione, quando Gesù lo insegna, e – lo richiama Citati molto sottilmente –, nel momento in cui offre al Padre la sua volontà avanti la passione.

Credo che Citati si sia liberato di quel paludato sussiego che impedisce al Libro ispirato, sacro a cristiani ed ebrei, di diventare parte integrante della cultura scolastica ed accademica, coerentemente alla noia sottile con cui i cristiani praticanti o meno guardano alla loro fede. Non desta perciò meraviglia il successo che ebbe anni fa il mediocre volume di Dan Brown, basato sull’apocrifo Vangelo di Giuda (fine II secolo), ma anche l’influsso che questo tipo di letteratura riesce a produrre ancora in un certo numero di credenti e nell’immaginario collettivo.

La passione per tali scritti, raccolti sotto il nome collettivo di Vangeli apocrifi, ma che in realtà tradiscono interessi enormemente differenti, fino alla letteratura che riduce la fede a conoscenza – i Vangeli gnostici –, a mio avviso, evita la fatica di riprendere in mano quella letteratura neotestamentaria, che appartiene interamente al I secolo, scritta e trasmessa da un numero enorme di testimoni antichi, in un greco che ad una lettura superficiale appare banale ai cultori di lettere e tradizioni classiche – che Citati ben conosce e utilizza – e non è intaccata nel suo valore perfino da traduzioni fortemente penalizzanti quanto più vogliono essere attuali.

Non è primariamente in gioco la fede, che altro non è che la risposta dell’uomo al Dio che si è rivelato in Cristo, ma la sua plausibilità, la sua comunicazione, che la rende codice per interpretare letteratura ed arte, paesaggio esterno ed interno all’uomo, architettura sacra e non solo, e vita vissuta.

Ad essere in gioco è colui che, per un credente, è al centro della fede della comunità cristiana; qualcuno al quale necessariamente bisogna guardare, per le sue parole e per le sue azioni, come colui che «Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10,38), pena la riduzione dell’esistenza umana ad un percorso senza senso alcuno.

Citati rimette in gioco questo percorso, rivolgendosi potremmo dire, a coloro che un saggio di Pierre Riches di qualche anno fa, uscito in italiano da Mondadori nel 1977, fa chiamava gli “ignoranti colti”. Essi forse non sono come scrive Paolo ai cristiani di Efeso, parlando della loro condizione avanti la fede: «in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo.» (Ef 2,12). Sono ignoranti, diremmo noi, non importa se consapevoli o inconsapevoli, e tuttavia felici in questa condizione.

La recente visita di Papa Francesco a Istanbul

francesco e bartolomeodi Stefano Tarocchi • La recente visita del papa Francesco ad Istanbul, dal patriarca ecumenico Bartolomeo, in occasione della festa di S. Andrea, il 30 novembre scorso, è solo l’ultimo di una serie di incontri fra i due. Cominciò Bartolomeo per l’inizio del ministero petrino di Francesco, la prima volta che un patriarca ecumenico, partecipava di persona a tale evento. Poi l’incontro nel viaggio di Francesco a Gerusalemme, lo scorso maggio, seguito a breve dalla partecipazione alla preghiera indetta da Francesco per la pace in Medio Oriente con Abu Mazen e Shimon Perez, ma anche dalla presenza a Roma per la festa dei Santi Pietro e Paolo.

Bartolomeo ha commentato l’incontro del 30 novembre come «un fatto storico e ricco di buoni auspici per il futuro. Esso costituisce un ulteriore tassello nel ponte tra Occidente e Oriente costruito poco a poco dalle visite di Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI». E ha aggiunto sottolineando la testimonianza della volontà Vostra del papa e della «Santissima Chiesa di Roma, di proseguire il fraterno costante cammino con la nostra Chiesa Ortodossa, per il ristabilimento della completa comunione tra le nostre Chiese».

Lo stesso desiderio è espresso da Papa Francesco nella stessa celebrazione quando, con animo colmo di gratitudine, dice che «Dio mi concede di trovarmi qui a pregare insieme con Vostra Santità e con questa Chiesa sorella». «Il Signore ci ha donato ancora una volta il fondamento che sta alla base del nostro protenderci tra un oggi e un domani, la salda roccia su cui possiamo muovere insieme i nostri passi con gioia e con speranza».

E «sento – afferma Francesco – che la nostra gioia è più grande perché la sorgente è oltre, non è in noi, non è nel nostro impegno e nei nostri sforzi», ma «nel comune affidamento alla fedeltà di Dio». «Questa pace, questa gioia, il mondo non la può dare – sottolinea il Papa – invece il Signore Gesù l’ha promessa ai suoi discepoli, e l’ha donata loro da Risorto.

«Andrea e Pietro hanno ascoltato questa promessa – prosegue il Santo Padre -, hanno ricevuto questo dono. Erano fratelli di sangue, ma l’incontro con Cristo li ha trasformati in fratelli nella fede e nella carità. E in questa sera gioiosa, in questa preghiera vorrei dire soprattutto: fratelli nella speranza».

La radice di questa affermazione del papa sta nel testo del Vangelo secondo Giovanni, caro alla chiesa orientale, che così racconta la chiamata di Pietro ad opera del fratello Andrea, chiamato dal Signore prima di lui: «Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro (Gv 1,40-42). E appunto Andrea è chiamato il “protóclito”, ossia il “primo chiamato” come lo ebbe a definire lo stesso papa emerito ancora nel giugno 2006.

Questa sorta di primogenitura della chiamata, che muove Andrea, insieme ad un altro discepolo che resta anonimo nel racconto del Vangelo di Giovanni (lo stesso autore?), dalla sequela di Giovanni il Battista a quella di Gesù, è indirizzata alla chiamata di Simone. Il racconto del Quarto vangelo è assai diverso da quello della tradizione sinottica (vedi Mc 1,16-20), in cui è Gesù stesso a chiamare alla sua sequela due coppie di fratelli, Pietro e Andrea, appunto e Giacomo e Giovanni.

Gli eventi di queste ultime settimane sono a dirci che Pietro è andato da Andrea, nella speranza che i due possano «essere fratelli nella speranza del Signore Risorto!». Così, colmo di «gratitudine e trepidante attesa», il papa conclude l’indirizzo di risposta augurando a Bartolomeo e alla Chiesa di Costantinopoli il “fraterno” augurio per la festa del Santo Patrono. In cambio chiede – inaspettatamente – «il favore di benedire me e la Chiesa di Roma», chinando il capo in attesa che il “fratello” gli imponga le mani. E Bartolomeo, senza esitazioni, gli dona affettuosamente un bacio sulla testa. Il fratello ha chiamato il fratello sulla via della sequela di Gesù; il fratello accoglie il fratello sulla strada della comunione.

Se questa, fatta di gesti e di segni emblematici, è la strada per il ristabilimento di una comunione completa fra la chiesa di Roma e quella di oriente, ce lo dirà il tempo. Oggi possiamo dire che è sicuramente una delle vie su cui insiste il ministero petrino di Francesco, pur nella consapevolezza della complessità delle situazioni in cui la seconda (Istanbul) e la terza Roma (Mosca) si dibattono.

Armenia. Note da un viaggio

armenia_landscapedi Stefano Tarocchi • Periferia di Yerevan in Armenia, domenica mattina. In un quartiere popolare, la parrocchia cattolica si è ricavata uno spazio improvvisato in cui i locali pastorali coesistono con due cappelle ricavate nell’edificio. Un prete ci apre la porta. Ci accompagna per la celebrazione alla cappella più piccola che si affaccia si un giardino. Comincia a preparare, ma non riesce a trovare modo di accendere le due candele dell’altare, sul presbiterio simile a quelli antichi e moderno degli edifici sacri della Chiesa Apostolica, maggioritaria nel paese.

Il prete è in realtà Raphael François Minassian, l’arcivescovo della piccola comunità cattolica, sempre di rito armeno. Fino al 2011 fa risiedeva a Gerusalemme come esarca patriarcale. In precedenza aveva lavorato negli Stati Uniti, come parroco di comunità armene. «Rispetto all’esperienza di Gerusalemme è tutto cambiato», ha raccontato in un intervista. «Ho la responsabilità pastorale degli armeni cattolici in tutte le repubbliche ex-sovietiche e in alcune nazioni limitrofe, un milione circa di fedeli. Per questa ragione sono chiamato a conoscere e a visitare le varie comunità sparse in un territorio vastissimo».

Comincia così il viaggio in una delle terre sante del cristianesimo. La prima testimonianza dell’introduzione del cristianesimo in Armenia risale al I secolo, quando, dice la tradizione, vi arrivarono Bartolomeo e Taddeo, due dei dodici apostoli. L’Armenia fu la prima nazione ad adottare il Cristianesimo, quando il sovrano arsacite Tiridate III, convertito e battezzato con la sua corte da san Gregorio l’Illuminatore, nel 301 dichiarò il cristianesimo religione di Stato.

La Chiesa armena non prese parte al concilio di Calcedonia (451), in cui si affermò che Cristo è una sola persona in cui convivono due nature, quella umana e quella divina. Essa non aderì neppure alle decisioni prese dopo il concilio, tra cui la condanna del Monofisismo (sostenuto dalla Chiesa ortodossa siriaca). Essa si separò definitivamente dall’occidente latino nel 554 (un anno dopo il concilio di Costantinopoli II), quando gli armeni rigettarono le tesi “duofisite” del concilio di Calcedonia. È stata definita «monofisita»; tuttavia essa, pur essendo in disaccordo con la formula stabilita nel concilio di Calcedonia, considera il monofisismo, così come professato da Eutiche, un’eresia. La Chiesa apostolica aderisce invece alla dottrina di Cirillo di Alessandria (370-444), che considera la natura di Cristo come unica, frutto dell’unione di quella umana e divina. Per distinguere questa forma da quella di Eutiche, essa viene denominata «miafisismo». L’arcivescovo Minossian sostiene sia arrivato il tempo che la Chiesa apostolica cerchi una maggiore unità interna, risolvendo questioni legate a sedi e patriarcati indipendenti, per trovare poi un cammino di piena comunione anche con la Chiesa cattolica.

E qui è necessario parlare dell’ordine Mechitarista, dal nome del suo fondatore, Mechitar, nato nel 1676 e monaco a 15 anni nell’ordine armeno di S. Antonio abate. Mechitar dedicò la vita intera cercando di favorire il rientro della Chiesa apostolica nella comunione piena con la Chiesa cattolica.

Mechitar partì per Roma nel 1696, per approfondire gli studi, ma dopo una grave malattia fu costretto a rientrare in patria. Ordinato prete nello stesso anno, si trasferisce a Costantinopoli nel 1700, dove, con una decina di discepoli, inizia una vita di predicazione e di preghiera. L’8 settembre 1701, festa della natività di Maria, la comunità si consacra al Signore, sotto la protezione della Vergine. Questo crea un conflitto con la comunità originaria, ma anche con la popolazione musulmana, a causa della fede cristiana. Mechitar e i suoi seguaci si trasferiscono nel territorio controllato dalla repubblica di Venezia, nella penisola di Morea. Cinque anni dopo chiedono a papa Clemente XI di approvare il loro ordine.  Ai tre voti originari, che nel monachesimo armeno non venivano pronunciati espressamente, Mechitar ne aggiunse un quarto: l’apostolato fino all’effusione del sangue. Gli aderenti all’ordine, inoltre, dovevano essere armeni, almeno da parte di un genitore. Papa Clemente accolse la loro richiesta, ma impose di scegliere una regola monastica occidentale. Mechitar scelse la regola di s. Benedetto.

Vicende di guerra con i Turchi conducono nel 1715 i monaci a Venezia, nell’isola di s. Lazzaro, acquistata dalla Serenissima. Già sede dei monaci benedettini, nel XII secolo l’isola fu destinata a lebbrosario, quindi ad alloggio di poveri e malati, prima dell’arrivo dei Mechitaristi era stata a lungo totalmente abbandonata. Mechitar vi muore nel 1749. Seguendo l’esempio del fondatore, i suoi monaci continuano il lavoro di riscoperta, di studio, di traduzione e di stampa di antichi scritti armeni e della traduzione in armeno di importanti opere sia classiche che della cristianità: un contributo straordinario allo sviluppo culturale del popolo armeno, per diffonderne la conoscenza anche in Occidente e, al contempo, sviluppare un cammino che riporti alla comunione con la Chiesa di Roma.

Non ci resta il tempo di parlare delle bellezze storiche e architettoniche del territorio armeno, senza trascurare le grandi croci in pietra (khachkar). Voglio solo accennare che nel 2015 sarà ricordato il centenario del genocidio armeno:  i Turchi tra il 1915 e il 1923,  infatti, si renderanno responsabili dello sterminio oltre 1.500.000 armeni residenti nell’Anatolia (gli “Armeni occidentali”). Nell’anno 2015 sarà celebrato il centenario del “grande male”, che segna ancora la storia di questo popolo.