In margine al convegno di Volos tra cattolici e ortodossi (giugno 2015)

bapt_02di Stefano Tarocchi • È un fatto ben noto che gli studiosi biblici ortodossi non sono accompagnati da strumenti magisteriali paragonabili alla Dei Verbum del Concilio Vaticano IIdai documenti della stessa Pontificia Commissione Biblica, come la Sancta Mater Ecclesia, 1964 [sulla storicità dei Vangeli, preludio alla stessa Dei Verbum]; L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa,1993), fino all’esortazione post-sinodale Verbum Domini di Benedetto XVI (2010). Naturalmente senza dimenticare l’enciclica Divino Afflante Spiritudi Pio XII (1943), che segnò uno spartiacque decisivo per l’esegesi cattolica, che avrebbe puntato dritto al Vaticano II. Divino Afflante Spiritu fu pubblicata cinquant’anni dopo l’enciclica Providentissimus Deus di Leone XIII (1893).Aggiungo che Lo stesso Leone, non va dimenticato, costituì la “Pontificia Commissione Biblica” nel 1902, nove mesi avanti la morte, e nel 1909 Pio X fondò il Pontificio Istituto Biblico. Un autorevole studioso delle scienze bibliche ebbe a scrivere qualche anno fa che “per noi oggi è difficile renderci conto in un modo realistico della nube scura di atteggiamento reazionario che pendeva sopra l’interpretazione cattolica della Bibbia nella prima metà del ventesimo secolo” (J.A. Fitzmyer).

Anche se il mondo ortodosso non ha alle spalle questo consolidato movimento, è possibile registrare una certa enfasi sulla materia, soprattutto nel clero più alto in grado. Si tratta comunque di una condizione che è piuttosto vaga riguardo il suo contenuto.

Tuttavia, anche la Chiesa ortodossa – che tra l’altro non ha respinto in epoca moderna la critica biblica – fino dalle primissime fasi della sua storia ha sviluppato la sua teologia sulla Bibbia. Non è senza significato, inoltre, che nella sua lunga storia essa ha rifiutato di accettare qualsiasi dogma che non fosse basato sulla Bibbia, per non parlare del fatto che tutte le dottrine conciliari del primo millennio della Chiesa hanno avuto una chiara fondazione biblica.

L’interpretazione della Scrittura è compresa come una spirale continua di lettura e rilettura dove tre differenti realtà interagiscono: il testo stesso nel suo stabilirsi storico e sociale, la tradizione teologica della sua ricezione, e le sfide moderne che un testo deve affrontare e a cui deve rispondere. È un terreno molto promettente da esplorare.

Semmai le difficoltà si registrano nel rifiuto di usare una traduzione moderna del testo neotestamentario, usato invece nella sua lingua originaria, il greco della koinê, di difficile comprensione alla maggior parte dei greci contemporanei.

In questo percorso si è inserito il Secondo Meeting Internazionale (Thessalia Conference Center, Melissatika, Volos, Grecia) dall’11 al 13 giugno: «The Baptism in the New Testament from an Orthodox and Roman Catholic perspective», che ha visto come protagonista la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale e l’Accademia Teologica di Volos, del patriarcato greco ortodosso di Demetriade (Tessaglia). Questa conferenza è stato sostenuto, rappresenta un contributo per l’enorme sforzo – qualcuno ha usato la parola “titanico” – della Chiesa cattolica e di quella Greco-Ortodossa verso la loro unione sacramentale.

Al proposito, secondo la tradizione l’Eucaristia e il Battesimo sono considerati come i due sacramenti che Gesù Cristo ha istituito per la Chiesa; perciò la “teologia eucaristica” e la “teologia battesimale” non sono né di valore diverso per quanto riguarda la ricerca dell’unità della Chiesa, né si escludono a vicenda, ma la prima è un elemento costitutivo e la condizione dell’altra.

Tuttavia, nonostante i progressi compiuti nel Concilio Vaticano II, finora il fondamento biblico della «nostra fede comune» – sono parole usate da uno dei relatori ortodossi – non è ancora considerato in molte riflessioni teologiche contemporanee dell’ortodossia come «prerequisito per interpretazioni più recenti» ed attualizzanti.

Al termine del Meeting gli studiosi cattolici e greco-ortodossi intervenuti si sono dati appuntamento a Firenze per il 2017, come già era avvenuto in occasione del Primo Convegno Internazionale di Studi Biblici («The present and future of Biblical Studies in the Orthodox and Roman Catholic Churches»– Aula Giovanni Benelli, 6-7 giugno 2013): «Testimonianze del Nuovo Testamento sul mistero della divina Eucaristia».

Gesù parlava greco?

Gesu_e_centurione_Veronesedi Stefano Tarocchi • La maggior parte degli storici crede che Gesù parlasse aramaico, ma anche di considerare la possibilità che conoscesse ebraico ma anche il greco, e perfino il latino.

Cominciamo dall’aramaico, che è una lingua semitica, imparentata con l’ebraico, l’arabo e con altre lingue della stessa area.

Ai tempi dell’impero assiro (ottavo secolo a.C.), l’aramaico divenne comune per tutto il Vicino Oriente antico come lingua della diplomazia. Questo tipo di aramaico si è conservato nei documenti ufficiali e nelle iscrizioni, come quelle trovate su alcune tombe. Durante l’impero persiano (VI-IV secolo a.C.), l’aramaico era la lingua predominante della regione, e lo rimase almeno fino all’VIII secolo d.C.

Questa lingua viene parlato ancora oggi in alcuni villaggi della Turchia sud-orientale, nel nord dell’Iraq e nell’Iran del nord ovest, come pure in tre villaggi della Siria, Malula ed altri, vicino a Damasco, purtroppo distrutti dalla violenza della guerra e dalla follia dell’IS. In quest’ultimo caso si tratta dell’aramaico più vicino alla lingua antica. Negli scorsi anni queste tradizioni erano state parzialmente rivalutate anche dal governo siriano, che voleva impedire che si disperdessero: fino a non molto tempo fa, infatti, il linguaggio era trasmesso solo oralmente. I guai nacquero quando ci si accorse che l’aramaico scritto rassomiglia ai caratteri ebraici del vicino Israele. Nello stesso Iraq esiste una remota tradizione cristiana, con la presenza di caldei e assiri che risale al II secolo d.C. Si spiega così la celebrazione di riti ancora oggi nella lingua siriaca, derivante anch’essa dall’aramaico.

Da quando la Palestina entrò a far parte dell’impero persiano, gli ebrei, che avevano come lingua madre l’ebraico, soprattutto quelli delle classi più elevate, cominciarono a parlare aramaico. Anche parti dell’Antico Testamento sono scritte in aramaico: Esd 4,8 – 6,18; 7,12-26; Dn 2,4 – 7,28; Ger 10,11. Questo significa che uno dei principali passi nell’Antico Testamento per la nostra comprensione di Gesù compare in aramaico: la visione di Daniele di “uno simile ad un figlio d’uomo” è scritta in aramaico (Dn 7,13).

Negli anni in cui vive Gesù l’aramaico era la lingua più parlata in tutta la regione, sebbene l’ebraico possa essere stato dominante in Giudea, ma era diffuso anche l’uso del greco.

Verso la metà del primo secolo dell’era cristiana, i rotoli in ebraico dell’Antico Testamento furono tradotti in aramaico per destinarli alle sinagoghe, perché molti non capivano più l’ebraico. È molto probabile che in Galilea, dove Gesù crebbe e iniziò il suo ministero, l’aramaico fosse la lingua più comune, sebbene molti fossero in grado di comprendere l’ebraico ed anche un po’ di greco, lingua nella quale viene scritto il Nuovo Testamento.

I Vangeli, tuttavia, comprendono parole non greche nel testo (ma scritte con lettere greche). Alcune di queste parole sono certamente aramaiche; altre sono probabilmente aramaiche, sebbene possano essere una variante dell’ebraico. La parola «Abbà» per esempio, che significa «babbo» o «padre» in aramaico, può anche essere trovata in certi dialetti ebraici.

Una delle frasi in aramaico dette da Gesù che più ricordiamo nei Vangeli è il grido di Gesù in croce: «eli eli lema sabachthani» (Mt 27,46). Mc 15,34 usa eloi invece di eli. La frase è poi tradotta in greco da Matteo e Marco: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Si tratta di una citazione dal Salmo 22,1. Il fatto che Matteo e Marco abbiano fatto parlare Gesù in aramaico suggerisce che questo versetto fu ricordato dalla prima comunità cristiana nella sua lingua originale.

Ancora prima della passione, un episodio in cui Gesù si esprime in aramaico si trova in Mc 5,41. Gesù entra nella casa di Giairo, un capo di una sinagoga, la cui figlia era morta. «Presa la mano della bambina, le disse: “Talità kum”, che significa: “Fanciulla, alzati”». Sia Matteo che Luca raccontano la stessa vicenda, ma omettono la frase (Mt 9,24; Lc 8,54). Il solo Marco riporta delle parole di Gesù in aramaico. Probabilmente quest’uso dell’aramaico non era comune: proprio questo motivo l’evangelista ha sentito la necessità di riportarlo.

Questo prova con certezza che Gesù parlava aramaico e lo usava per il suo ministero: sarebbe molto difficile pensare diversamente. Questo però non vuol dire che egli usò solo questa lingua. Gesù, infatti, parlava o insegnava anche in ebraico, come per esempio nell’uso frequente di amén (vedi Mt 5,18; Gv 3,11).

In Lc 4 si racconta dell’episodio di Gesù alla sinagoga della sua città, Nazareth, e durante la riunione dell’assemblea lesse i rotoli del profeta Isaia. La lettura avvenne sicuramente in ebraico, secondo l’uso sinagogale, che prevedeva la successiva traduzione in aramaico (ogni versetto nel caso de i libri della Torah, ogni tre per gli altri libri). Anche se parlava aramaico come prima lingua, Gesù aveva appreso l’ebraico come quasi tutti gli ebrei del tempo alla scuola sinagogale.

Diversi altri racconti dei Vangeli favoriscono la teoria secondo cui Gesù era in grado di servirsi anche dell’ebraico quando la situazione lo richiedeva. Per essere credibile come interlocutore, con molta probabilità, Gesù usava l’ebraico quando era impegnato in discorsi con i farisei, gli scribi e gli altri capi ebrei.

Gesù però potrebbe aver conosciuto anche il greco. Da quando Alessandro Magno conquistò la Palestina nel 332 a.C., la lingua greca s’impose come lingua del governo e, sempre più, del commercio e della cultura. È probabile che, al tempo di Gesù, gli ebrei con una buona istruzione, soprattutto quelli delle classi più alte, che si occupavano di commercio e di governo, abbiano conosciuto e usato il greco, o avuto almeno delle basi di questa lingua.

Il Vangelo di Matteo racconta il dialogo di Gesù con un centurione romano (Mt 8,5-13). Il centurione quasi certamente parlava in greco e, come Matteo scrive, lui e Gesù conversavano senza un interprete, come suggerisce il senso della narrazione.

Lo stesso si potrebbe affermare della conversazione avuta da Gesù con Ponzio Pilato prima della sua crocifissione (Mt 27,11-14; Gv 18,33-38; 19,8-15). Anche qui si può pensare alla possibilità di un traduttore (non menzionato nel testo!), ma l’espressività del racconto favorisce la realtà di un Gesù che parlava greco. Anche Pilato avrebbe usato il greco, non il latino, come ha invece immaginato noto regista in un film: non è nemmeno ipotizzabile che un governatore romano abbia potuto conoscere ed usare l’aramaico, la lingua di un popolo suddito.

Se Gesù conosceva abbastanza il greco tanto da conversare con un centurione romano e con un governatore romano, dove lo apprese? La spiegazione più probabile orienta verso la Galilea. Sebbene l’aramaico fosse la prima lingua di Nazareth, la città natale di Gesù era a poca strada da Sefforis, una città importante, che fu anche capitale della Galilea, in cui si parlava greco. Quindi anche se non si può essere certi che Gesù parlasse il greco, si può ragionevolmente immaginare che possa averlo utilizzato in diverse occasioni.

“Dire quasi la stessa cosa.” A proposito di Giovanni 20

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di Stefano Tarocchi • «Tradurre significa sempre “limare via” alcune delle conseguenze che il termine originale implicava. In questo senso, traducendo, non si dice mai la stessa cosa». Così Umberto Eco (Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano 2003), che del resto aggiunge «delle discussioni che agitano sempre l’ambiente dei biblisti, continuamente intesi a criticare traduzioni precedenti dei testi sacri». E conclude che nonostante che «inabili e infelici siano state le traduzioni … una parte consistente dell’umanità si è trovata d’accordo sui fatti e sugli eventi fondamentali tramandati da questi testi». Questo non ci solleva dalle responsabilità di guardare ad un testo particolare, come la manifestazione del Cristo risorto ai discepoli nel capitolo 20 del Vangelo di Giovanni, per alcune considerazioni.

Il contesto è presto richiamato: la sera del giorno di Pasqua Gesù si manifesta ai discepoli, riuniti insieme «mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano … per timore dei Giudei» (Gv 20,19). Dopo il saluto, che a breve ripeterà, «mostrò loro le mani e il fianco (pleura). E i discepoli gioirono al vedere il Signore». Fra i discepoli però è assente Tommaso, che così parla: «“Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco (pleura), io non credo”».

L’evangelista racconta poi dell’altra manifestazione di Gesù: «Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: “Pace a voi!”. Poi disse a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco (pleura); e non essere incredulo, ma credente!”» (Gv 20,20.25-27).

Il termine è già presente dal contesto della morte, che dev’essere affrettata, o verificata, nell’imminenza del sabato della Pasqua: così «venuti da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco (pleura), e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34). È colui che nella leggenda cristiana è stato chiamato Longino, a causa dello strumento che usa, la lancia, in greco lonché, che mira evidentemente al cuore, particolare come vedremo importante.

Così quello che il Signore risorto ha mostrato ai discepoli è il suo “fianco”, certamente, ma in un particolare elemento dell’anatomia da cui, dopo la morte, scaturiscono sangue e acqua (o del siero trasparente, assimilato all’acqua). Più che una spiegazione fisiologiche, bisogna guardare ad una interpretazione teologica; pensando allo Spirito, Giovanni aveva infatti detto che «dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva» (Gv 7,38). E soprattutto, Gesù si fa conoscere – anche per via del segno dei chiodi – come colui che era stato crocifisso e di cui era stata accertata la morte.

Nell’anatomia la “pleura” è una membrana che avvolge singolarmente ciascun polmone.

Ora nella lingua italiana, c’è dall’inizio del XIII secolo, un termine che rende ragione della complessità di questo racconto, in cui la manifestazione del risorto ai discepoli deve manifestare la continuità tra la morte e la vita. E questo termine non è «fianco» (troppo generico), ma «costato» (che letteralmente significa “parete toracica”, e deriva da “costa”, “costola”): evidentemente in un punto vicino al cuore, da cui sgorgano in abbondanza «sangue e acqua», come le rappresentazioni più note ci mostrano. Perciò, correggendo Umberto Eco, meglio la traduzione precedente (CEI 1974: «costato») che non l’attuale (2008: «fianco»). Possiamo, viceversa, accettare la traduzione di At 12,7. Si tratta dell’episodio della liberazione miracolosa di Pietro dalla prigionia: «gli si presentò un angelo del Signore e una luce sfolgorò nella cella. Egli toccò il fianco (pleura) di Pietro, lo destò e disse: «Àlzati, in fretta!». E le catene gli caddero dalle mani».

Post scriptum: Se sulla traduzione di pleura si può discutere, non si può accettare quello che troviamo nel capitolo 10 degli Atti, quando Pietro ha appena finito di parlare a Cesarea nella casa del centurione Cornelio. «Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in [altre] lingue e glorificare Dio» (At 10,44-46). La conclusione semplicemente è inesistente: l’effetto dello Spirito opera sui pagani venuti alla fede e li fa «parlare in lingue», ossia «parlare con un linguaggio di lode» in cui «glorificano Dio. Non in «altre lingue», ossia in «lingue straniere», come nell’episodio della Pentecoste. L’aggettivo «altre» semplicemente non c’è nel testo originale. Sicuramente il frettoloso correttore di bozze ha dimenticato di controllare, fidandosi della sua memoria, lasciando che il lettore ignaro venisse mandato fuori strada.

In margine ad un recente libro di Fausto Bertinotti

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di Stefano Tarocchi • Parliamo qui del libro intervista di Fausto Bertinotti, con la prefazione del card. Gianfranco Ravasi, uscito recentemente per i tipi della Marcianum Press (F. Bertinotti,Sempre daccapo. Conversazione con Roberto Donadoni, Venezia 2014).

Che cosa spinge un personaggio della caratura di Bertinotti a misurarsi con domande di grande rilievo, poste da don Roberto Donadoni, direttore editoriale della Marcianum Press non è semplice da decifrare. Ma naturalmente un libro intervista è un percorso diverso da un libro semplicemente autoriale. Chi intervista ha in mente delle domande, e le risposte a quest’ultime in qualche modo organizzano le domande successive.

Questo libro si articola in quattro tempi – parlerei di tempi più che di capitoli -: 1. le sfide del nostro tempo; 2. la “terza via” al socialismo; 3. socialismo e cristianesimo; 4. le domande ultime. È indubbio che soprattutto il quarto tempo (pp. 89-121) sia il più intrigante, come cercherò di mostrare.

In queste pagine va anche aggiunto che c’è un singolare rapporto con san Paolo, a cominciare da quello che l’apostolo scrive alle chiese della Galazia, definendo in Cristo una nuova visione dell’umanità: «Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Dell’apostolo Paolo, Bertinotti delinea la funzione di costruttore del popolo di Dio, per sostenere che ricalchi in questo, da un certo punto di vista, le orme di Mosè. Ma in ogni caso, scrive Bertinotti, Paolo non è da considerare il fondatore del cristianesimo né è mai da contrapporre a Cristo, anch’egli peraltro non «circoscritto» alla sfera del pur nobile fondatore. Il fondatore, infatti, ha sempre a che fare con una dimensione storica; così se Paolo è impegnato nel fondare la comunità di Corinto liberandola da tutte le sue debolezze e i suoi limiti, il Cristo «in ogni suo atto è la rottura dell’assetto del mondo antico con l’immissione di ogni reietto» (p. 85). Qui secondo me traspare una certa nostalgia del non credente che vorrebbe aderire alla fede ma ne è impedito, un po’ come quando lascia al mondo di chi è credente i valori immutabili (p. 103). Il politico, invece, deve declinare i valori in modo diverso, a seconda del corso della storia che sta attraversando.

Fausto Bertinotti si muove da una lettura molto acuta sulla realtà multiculturale del nostro tempo (il “meticciato di popoli e di culture” di cui parlava l’allora patriarca Scola nel 2007: p. 31), per affermare, citando uno studio di Amintore Fanfani, l’incompatibilità tra capitalismo e cristianesimo (p. 71). D’altronde, il capitalismo cui ci si riferisce è quello che permette che l’1% della popolazione possegga metà della ricchezza mondiale. Bertinotti ricorda con una certa commozione l’incontro che il cardinale Michele Pellegrino, allora arcivescovo di Torino, ebbe quasi in punta di piedi, con gli operai di quella città negli anni ‘70, nel momento in una lotta per il difficile rinnovo del contratto. E rammenta anche il vescovo Bettazzi ad Ivrea e l’esperienza di preti operai, in quello che definisce un “camminare insieme” fra la sfera ecclesiale e quella del mondo lavoro, collocati in due mondi diversi della società del tempo.

Vengo così alle domande ultime, proprie dell’ultima tappa del libro: dall’incontro con Cristo rammentato da papa Francesco come primo momento del cammino della fede, che progredisce con l’approfondimento della sua parola (p. 107), alla risposta ai grandi interrogativi dell’esistenza dell’uomo che hanno come risposta una dimensione religiosa, oppure terrena. L’uomo Bertinotti sceglie il cammino di chi avanza nell’esistenza quotidiana «come se Dio non esistesse», dove la distinzione tra credenti e non credenti si stabilisce circa la dimensione della fede nello spazio pubblico. Se credenti e non credenti vogliono camminare insieme – è una delle tracce eventi di questo volume – vanno evitati «tutti gli elementi di commistione» fra le due dimensioni.

La radice di questo argomento non risiede in un progetto filosofico, ma nell’insegnamento di san Paolo, (Bertinotti cita Romani 13,1: «Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio»; ma potremmo riferirci anche a quello che l’apostolo scrive a Filemone, oppure nelle lettere ai Colossesi e agli Efesini), e in quello del Vangelo di Giovanni: «Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo (Gv 17,16.18)». La lettura di Bertinotti (p. 110) è assai interessante: Paolo detta questo insegnamento (ossia la sottomissione all’autorità) non per confermare il potere ma perché ritiene che sia così caduco da non doversene occupare.

In questa dimensione l’altro, il prossimo evangelico, non è il limite ma l’ambito in cui esercitare la propria libertà. E qui si affaccia ancora san Paolo: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono» (1Ts 5,21): è l’ulteriore questione di Donadoni, cui Bertinotti risponde, cogliendo finemente il senso della provocazione, con l’esortazione della lettera ai Romani, tratta ancora dal capitolo 13: «Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge. Infatti: Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai, e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: Amerai il tuo prossimo come te stesso. La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità» (Rom 13,8-10).

D’altronde, Bertinotti mantiene come punto fermo – e lo ripete più volte – l’articolo 3 della Costituzione della Repubblica italiana, in cui i costituenti posero come principio della carta il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando la libertà e l’uguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Per Bertinotti si pone quella «straordinaria utopia in cui gli ultimi possono diventare primi» (p. 93). Oppure, come scrive alla conclusione del volume: «per usare il linguaggio del credente, va senz’altro mantenuta l’idea che nella nostra società gli ultimi, se non possono diventare i primi, debbono poter smettere di essere gli ultimi … gli sfruttati, gli umiliati, gli esclusi diventino il lievito di una nuova umanità, in cui non ci siano più primi e ultimi» (p. 121).

È questo che, sostiene Bertinotti, va trattenuto: e chiosa ancora con san Paolo, riprendendo di fatto il suo testamento postumo, conservatoci dai discepoli: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2Tim 4,7). E qui Bertinotti in un certo senso si tradisce, quando muta la frase di Paolo da «ho conservato la fede» a «non ho perso la fede». Inguaribile nostalgia che non ci rende mai tranquilli, ma ci colloca sempre in cammino, «sempre daccapo», appunto.