Il racconto di Matteo della Risurrezione: rapporto su (almeno) un tentativo di manipolazione

PIERO-SIdi Stefano Tarocchi  Il racconto matteano della Risurrezione è a mio avviso un esempio straordinario di come si può (tentare di) gestire una notizia scomoda e addirittura (tentare di) manipolarla per i propri fini. E non solo la notizia, ma lo stesso evento della risurrezione.

Il vangelo di Matteo è l’unico che rompe il silenzio sul giorno successivo alla sepoltura di Gesù, a rigore di logica il sabato che coincide con la Pasqua ebraica, quando racconta: «il giorno seguente, quello dopo la Parasceve, si riunirono presso Pilato i capi dei sacerdoti (lett: «i sommi sacerdoti») e i farisei, dicendo: «Signore, ci siamo ricordati che quell’impostore, mentre era vivo, disse: “Dopo tre giorni risorgerò”. Ordina dunque che la tomba venga vigilata fino al terzo giorno, perché non arrivino i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: “È risorto dai morti”. Così quest’ultima impostura sarebbe peggiore della prima!». Pilato disse loro: «Avete le guardie: andate e assicurate la sorveglianza come meglio credete». Essi andarono e, per rendere sicura la tomba, sigillarono la pietra e vi lasciarono le guardie»(Matteo 27,62-66).

Pilato, chiamato in causa, dalle autorità giudaiche che anticipano paradossalmente quanto dovrà avvenire e cercano di porvi rimedio alla loro maniera, decide di lasciare che siano i suoi interlocutori ad assicurare la custodia alla tomba.

Ricordiamoci di queste guardie, perché saranno la chiave del (duplice) tentativo di manipolazione, accanto a chi le ha usate.

Piero della Francesca nel suo straordinario capolavoro conservato a San Sepolcro, le ha raffigurate immerse totalmente in quel sonno che esprime la distanza umana da un fatto così straordinario e al tempo stesso l’incapacità di contenere l’evento della Pasqua, che non è possibile manipolare (o addomesticare per i propri fini). Come quanti hanno pensato di aver trovato la soluzione al problema in sé, la negazione tout court della Risurrezione, attraverso il mezzo più elementare della corruzione: il denaro. E tutto questo nonostante che, in aggiunta alla custodia umana, la tomba fosse stata bloccata strategicamente con dei sigilli, violati non da ipotetici rapitori ma dalla potenza della manifestazione divina.

Nel racconto di Matteo, la risurrezione sfugge semplicemente alle guardie che dovevano custodire la tomba: l’unica reazione è quella davanti all’angelo che ha il compito di rotolare la pietra che tiene chiuso il sepolcro: solo «per lo spavento che ebbero di lui, le guardie furono scosse e rimasero come morte» (Matteo 28,64). Paradossalmente, queste guardie testimoniano l’infondatezza della ragione per cui erano state collocate alla tomba di Gesù: se la pietra era ancora al suo posto, non poteva essere stato rapito nessun corpo. E tuttavia nessun corpo era ormai nella tomba: «So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto, infatti, come aveva detto; venite, guardate il luogo dove era stato deposto» (Matteo 28,5-6).

L’evangelista ha, però, in serbo un’altra sorpresa: dalla tomba si dipartono due movimenti divergenti. Le donne che vanno ad annunciare ai discepoli l’evento della risurrezione, per convocarli in Galilea, dove lo vedranno (mentre esse già lo incontrano sulla loro strada); e alcune (non tutte!), le guardie che riportano l’accaduto ai loro mandanti (Matteo 28,11).

Tutto sembrerebbe indicare il fallimento della mossa precedente delle autorità giudaiche, in quella terra di nessuno che il potere disegna sempre per quelli che lo abitano, e sembrerebbe renderli immuni dal senso di fallimento.

Il potere mette a disposizione anche il denaro e il denaro emerge ancora nel racconto. Quindi gli esponenti dell’intellighenzia di Gerusalemme decidono di mettere (ancora) mano alla borsa. Così, scrive ancora Matteo, i sommi sacerdoti «si riunirono con gli anziani e, dopo essersi consultati, diedero una buona somma di denaro ai soldati, dicendo: «Dite così: “I suoi discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato, mentre noi dormivamo”. E se mai la cosa venisse all’orecchio del governatore, noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni preoccupazione» (Matteo 28,12-14).

Il denaro che ha fornito la custodia armata e fallimentare alla tomba corrompe ancora una volta, e paga chi ha totalmente mancato al proprio compito iniziale: pertanto «quelli presero il denaro e fecero secondo le istruzioni ricevute (lett: «come era stato insegnato loro»). Così questo racconto [ho logos nell’originale!] si è divulgato fra i Giudei fino ad oggi» (Matteo 28,15).

E qui nasce la seconda manipolazione, quella della notizia, condotta attraverso una sorta di parodia dello stesso kerigma cristiano, utilizzando la stessa identica terminologia, ancora più evidente nel testo originale.

Il potere tenta di piegare la verità della risurrezione, mostrando così la propria intima debolezza, e in aggiunta sostiene di poter manipolare anche l’autorità di Roma. Ha addirittura elaborato anche il suo “comunicato stampa”: «Dite così: “I suoi discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato, mentre noi dormivamo”».

In esso non sostiene neanche che le guardie sono state sopraffatte, ma sono venute meno nel loro compito perché sopraffatte dal sonno. Questa è l’ultima perfidia: al corrotto in pratica viene addossata anche la colpa e la responsabilità del corruttore.

Matteo, infine, aggiunge per il suo lettore che il «racconto» del rapimento si è diffuso fra i Giudei fino al giorno in cui viene scritto il “suo” racconto, quel Vangelo che è ancora oggi nelle nostre mani. Possiamo ritenere che è esattamente questo racconto, insieme a quelli di Marco, Luca (e Giovanni), a dare l’esatta ricostruzione degli avvenimenti relativi alla risurrezione: qui è come se le donne, anziché limitarsi ai soli discepoli, fossero arrivate fino a noi per chiamarci nella Galilea del nostro tempo, in cui vediamo ancora oggi presente e vivo il Risorto.

Francesco alla Sinagoga di Roma, cinquant’anni dopo la “Dichiarazione sulle Relazioni con le religioni non cristiane”

 Il Mantello della Giustizia – Marzo 2016

visita-papa-francesco-sinagoga-roma-focus-on-israeldi Stefano Tarocchi • Lo scorso 17 gennaio, dopo la storica visita di Giovanni Paolo II (13 aprile 1986), papa Francesco ha compiuto una visita, la prima da vescovo di Roma, al Tempio Maggiore della capitale, principale sinagoga della città, a distanza di sei anni esatti da quella di Benedetto XVI (17 gennaio 2010).

Se la visita di Giovanni Paolo ha rivestito un ruolo ineguagliabile nei rapporti con i «fratelli maggiori», come ebbe a definirli papa Wojtyła, quella delle settimane scorse di Francesco avviene in coincidenza con il cinquantesimo anniversario della dichiarazione Nostra aetate del Concilio Vaticano II, già ricordata lo scorso dicembre in un documento della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo. Tale documento insiste sulla dimensione teologica del dialogo ebraico-cattolico e quindi evidenzia l’inscindibile legame che unisce cristiani ed ebrei.

D’altronde, come ha notato Francesco, la dichiarazione conciliare, «ha definito teologicamente per la prima volta, in maniera esplicita, le relazioni della Chiesa cattolica con l’ebraismo». Così «i cristiani, per comprendere sé stessi, non possono non fare riferimento alle radici ebraiche, e la Chiesa, pur professando la salvezza attraverso la fede in Cristo, riconosce l’irrevocabilità dell’Antica Alleanza e l’amore costante e fedele di Dio per Israele».

Il lucido testo promulgato cinquant’anni fa da Paolo VI, che si firmava «vescovo della chiesa cattolica», dopo aver parlato in generale delle varie religioni, da quelle orientali all’Islam, al paragrafo 4 recava scritto: «tutti i fedeli di Cristo, figli di Abramo secondo la fede, sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e che la salvezza ecclesiale è misteriosamente prefigurata nell’esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù. Per questo non può dimenticare che ha ricevuto la rivelazione dell’Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l’Antica Alleanza, e che essa stessa si nutre dalla radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che sono i gentili. La Chiesa crede, infatti, che Cristo, nostra pace, ha riconciliato gli Ebrei e i gentili per mezzo della sua croce e dei due ha fatto una sola cosa in se stesso. Inoltre la Chiesa ha sempre davanti agli occhi le parole dell’apostolo Paolo riguardo agli uomini della sua stirpe: «ai quali appartiene l’adozione a figli e la gloria e i patti di alleanza e la legge e il culto e le promesse, ai quali appartengono i Padri e dai quali è nato Cristo secondo la carne» (Romani 9,4-5), figlio di Maria vergine».

Così Francesco si pone con i papi che lo hanno preceduto, nella scia di una tradizione ininterrotta, che ha dovuto superare più di un dramma nel corso della storia, composta di elementi capaci di scavare fossati profondi. Richiamo soltanto l’Orazione del venerdì santo, la famigerata «pro perfidisJudaeis» [ut Deus et Dominus noster auferat velamen de cordibus eorum], in realtà coniata nel VII secolo come risposta alla “dodicesima benedizione” ebraica dell’Amidah, la “Preghiera in piedi”, che in una sua formulazione costituiva una vera e propria maledizione espressamente rivolta contro i “nazareni”, i seguaci di Gesù. Anche se dal concilio Tridentino, fino alla riforma conciliare del Vaticano II – a parte i recenti tentativi di restaurazione –venne usata solo nella grande preghiera universale dopo la lettura della Passione, di fatto ha influenzato (e forse influenza ancora) generazioni di credenti, nella catechesi e nella predicazione.

Ma la visita di Francesco alla sinagoga di Roma arriva anche in un tempo particolare, fatto «delle grandi sfide che il mondo di oggi si trova ad affrontare», a cominciare da quell’ecologia integrale che il papa definisce come «ormai prioritaria», e, pertanto «come cristiani ed ebrei possiamo e dobbiamo offrire all’umanità intera il messaggio della Bibbia circa la cura del creato».

È, tuttavia, soprattutto dove «conflitti, guerre, violenze ed ingiustizie aprono ferite profonde nell’umanità e ci chiamano a rafforzare l’impegno per la pace e la giustizia. La violenza dell’uomo sull’uomo è in contraddizione con ogni religione degna di questo nome, e in particolare con le tre grandi religioni monoteistiche. La vita è sacra, quale dono di Dio. Il quinto comandamento del Decalogo dice: «Non uccidere» (Esodo 20,13). Dio è il Dio della vita, e vuole sempre promuoverla e difenderla; e noi, creati a sua immagine e somiglianza, siamo tenuti a fare lo stesso». E Francesco prosegue: «ogni essere umano, in quanto creatura di Dio, è nostro fratello, indipendentemente dalla sua origine o dalla sua appartenenza religiosa. Ogni persona va guardata con benevolenza, come fa Dio, che porge la sua mano misericordiosa a tutti, indipendentemente dalla loro fede e dalla loro provenienza, e che si prende cura di quanti hanno più bisogno di Lui: i poveri, i malati, gli emarginati, gli indifesi. Là dove la vita è in pericolo, siamo chiamati ancora di più a proteggerla. Né la violenza né la morte avranno mai l’ultima parola davanti a Dio, che è il Dio dell’amore e della vita».

Quindi Francesco conclude: «noi dobbiamo pregare con insistenza affinché Dio ci aiuti a praticare in Europa, in Terra Santa, in Medio Oriente, in Africa e in ogni altra parte del mondo la logica della pace, della riconciliazione, del perdono, della vita».

Cinquant’anni dopo aver ricuperato le comuni radici condivise, ebraismo e cristianesimo si propongono di trovare nuove, non semplici, vie di un cammino condiviso.

La traduzione CEI del 1971: una traduzione fiorentina?

florit_672-458_resizedi Stefano Tarocchi • «Ogni traduzione, anche la più accurata, anche quella che più si preoccupa di rendere il senso genuino dei testi originali, è pur sempre un’“interpretazione”, una serie di scelte esegetiche, legate per forza alla sensibilità, alla formazione culturale, alle preferenze» di quanti vi si accingono. Così scriveva l’arcivescovo Florit in una premessa rimasta inedita della traduzione della CEI del 1971.

Il concilio Vaticano II aveva detto: «È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla sacra Scrittura. Per questo motivo, la Chiesa fin dagli inizi fece sua l’antichissima traduzione greca del Vecchio Testamento detta dei Settanta, e ha sempre in onore le altre versioni orientali e le versioni latine, particolarmente quella che è detta Volgata. Poiché, però, la parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo, la Chiesa cura con materna sollecitudine che si facciano traduzioni appropriate e corrette nelle varie lingue, di preferenza a partire dai testi originali dei sacri libri» (Dei Verbum22).

Negl’intendimenti di Florit nella fase immediatamente postconciliare, la nuova traduzione della Bibbia in lingua italiana, o piuttosto la revisione di quella curata da Galbiati, Penna e Rossano, doveva essere riversata prevalentemente nella liturgia e doveva avere le seguenti caratteristiche: 1. che fosse, quanto possibile, esatta nel rendere il testo originale; 2. che avesse una sua modernità di linguaggio ed una eufonia della frase per favorire la proclamazione nelle assemblee; 3. che fosse curata nel ritmo, secondo le esigenze della recitazione e del canto».

Nella sostanza, con «un vocabolario, quanto più possibile, moderno e vivo, un periodare abbastanza agile e spezzato» ottenuto con «la purificazione del testo da eventuali sviste e da asprezze lessicali e sintattiche».

Florit manifesta la preoccupazione «attraverso, la revisione letteraria, di giungere ad un testo corretto e apprezzabile dal punto di vista linguistico» e che deve «lasciare intatte le scelte di carattere interpretativo fatte dai biblisti», che avendo un «compito prevalentemente di natura esegetica e teologica» hanno «potuto occuparsi solo di riflesso dell’aspetto linguistico».

Il compito dei «letterati fiorentini», voluti da Florit e dai suo collaboratori (si tratta di Chiari, Lisi, Betocchi, Bargellini, Devoto, Pieraccioni, Pampaloni, Paolo Sacchi, L.M. Personé, e Carlo Bo), è stato quello di eliminare le forme arcaiche, i «semitismi di difficile comprensione, i periodi eccessivamente lunghi», tipici dell’epistolario paolino. Nella lettera loro indirizzata Florit scriverà espressamente che la «terza fase del lavoro, per quanto si riferisce al Nuovo Testamento, si vorrebbe realizzare a Firenze, tenuto conto dell’opportunità di “risciacquare i panni in Arno”».

L’arcivescovo di Firenze era saggiamente consapevole che «l’opera non [avrebbe potuto] soddisfare tutte le esigenze». Perciò Florit mostra di gradire, anzi solleciterà «rilievi, annotazioni, critiche… tali da permettere «nelle future edizioni gli opportuni miglioramenti sia dal punto di vista interpretativo che linguistico».

Firenze inevitabilmente assume un ruolo decisivo, ma nel quadro di una oralità che renda il testo sempre più coinvolgente, dopo la lunga stagione di estraneità dei credenti davanti alla Vulgata. Questo era possibile nell’orizzonte letterario del tempo, sia per l’importanza di quanti erano stati chiamati a condividere il progetto, sia per il quadro culturale che scaturiva dalla città. La lingua italiana di quaranta anni fa era Firenze e la Toscana, prima che il linguaggio televisivo e i suoi influssi romani e lombardi creassero un’altra stagione, e un altro tipo di lingua, una lingua comune forse non migliore ma certo diversa.

Secondo le intenzioni di Florit non si traduce la Bibbia solo far comprendere il testo a chi non conosce il greco e l’ebraico – esistevano già eccellenti traduzioni in lingua italiana –, ma perché la proclamazione nell’assemblea ridia nuovo vigore alla parola, al pari dell’interprete di uno spartito musicale che trasmette a quanti ascoltano la forza della parola. L’interprete può leggere lo spartito musicale, come si distende nella sua mente, dopo che si trova sul pentagramma davanti ai suoi occhi: finché rimane in questo stadio la Parola rivelata non comunica a nessuno la sua verità, che è fatta di suono vivo ed efficace anche in una traduzione. L’interprete, come il traduttore, ha il compito di far risuonare la parola nel cuore e nella mente di quanti ascoltano.

Siamo in sostanza all’orizzonte determinato dalla lettura pubblica della Parola, in quella duplice mensa che questa condivide con il pane della vita, l’Eucaristia, in sintonia con il libro di Neemia: «Allora tutto il popolo si radunò come un solo uomo sulla piazza davanti alla porta delle Acque e disse allo scriba Esdra di portare il libro della legge di Mosè, che il Signore aveva dato a Israele. Il primo giorno del settimo mese, il sacerdote Esdra portò la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere. Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci d’intendere; tutto il popolo tendeva l’orecchio al libro della legge» (Neemia 8,1-3).

Come dice il Vangelo di Luca: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Luca 4,21)»

Francesco alla chiesa italiana: interrogazioni e proposte.

imagedi Stefano Tarocchi • È indubbio che il discorso pronunciato da papa Francesco il 10 novembre scorso al mattino nella cattedrale fiorentina sia stato un discorso fortemente significativo, al di là del convegno ecclesiale che lo ha originato: lo prova la fretta con cui lo si è archiviato, al di là della prima accoglienza entusiastica, e anche dei primi distinguo con cui i soliti noti lo hanno accolto, oppure lo hanno ignorato (o fatto ignorare…). Peccato, perché esso è una delle chiavi per entrare nel rapporto tra Francesco e quella chiesa italiana, della nazione da cui trae origine la sua famiglia, ma che può guardare alla realtà italiana con uno sguardo realmente universale e non con quello che tradizionalmente si è attribuito al papa, in forma più “poetica” che teologica, più “scolastica” che concreta.

Francesco ha cominciato lanciando uno sguardo al «volto della misericordia” del Cristo rappresentato nell’affresco della cupola di S. Maria del Fiore, cattedrale ma anche chiesa che racchiude l’essenza stessa della città e da questa guarda all’Italia e al mondo. Secondo il papa l’umanesimo ha pienamente a che fare con i «sentimenti di Cristo Gesù», secondo l’inno paolino della lettera ai Filippesi. Francesco ne sceglie tre: l’umiltà, il disinteresse e la beatitudine.

«L’ossessione di preservare la propria gloria, la propria “dignità”, la propria influenza non deve far parte dei nostri sentimenti. Dobbiamo perseguire la gloria di Dio, e questa non coincide con la nostra: Gesù non considera un «privilegio» l’essere come Dio (Fil 2,6)». E ancora cita l’apostolo Paolo “Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a sé stesso» (Fil2,3)».

Quindi Francesco aggiunge che «un altro sentimento di Gesù che dà forma all’umanesimo cristiano è il disinteresse. “Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri” (Fil 2,4)”. … Più che il disinteresse, dobbiamo cercare la felicità di chi ci sta accanto. L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale. Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di sé stesso, allora non ha più posto per Dio». È il rinchiudersi «nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli (Evangelii gaudium, 49)».

Un terzo sentimento analizzato dal papa è quello della beatitudine: «il cristiano è un beato, ha in sé la gioia del Vangelo. Nelle beatitudini il Signore ci indica il cammino» per «arrivare alla felicità più autenticamente umana e divina» che troviamo anche «nella più umile della nostra gente, … è quella di chi conosce la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano di un lavoro, a volte duro e mal pagato, ma svolto per amore verso le persone care; e anche quella delle proprie miserie, che tuttavia, vissute con fiducia nella provvidenza e nella misericordia di Dio Padre».

«Questi tre tratti ci dicono che non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione. I sentimenti di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste». Ed ha aggiunto: «preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (EG 49).

Da qui nascono le possibili tentazioni per chi accoglie il Vangelo nel nostro tempo: Francesco ne ha presentate due. I discepoli di Gesù dovranno anzitutto guardarsi dalla tentazione del pelagianesimo, che «spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata… con l’apparenza di un bene». Esso «ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte» … e «ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività. La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore… non nella leggerezza del soffio dello Spirito». E Francesco aggiunge che «davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, animare… La riforma della Chiesa – e la Chiesa è semper reformanda – è aliena dal pelagianesimo» e «non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le strutture. Significa invece innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito».

La seconda della tentazione è quella dello gnosticismo, che «porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello. Il fascino dello gnosticismo è quello di «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» (EG 94)». Il papa spiega che «la differenza fra la trascendenza cristiana e qualunque forma di spiritualismo gnostico sta nel mistero dell’incarnazione. Non mettere in pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi che non danno frutto, che rendono sterile il suo dinamismo». Ed ha aggiunto che «la Chiesa italiana ha grandi santi il cui esempio possono aiutarla a vivere la fede con umiltà, disinteresse e letizia, da Francesco d’Assisi a Filippo Neri. Ma pensiamo anche alla semplicità di personaggi inventati come don Camillo che fa coppia con Peppone», tratto che ha fatto storcere la bocca a quanti non conoscono la fine penna di Guareschi – su cui ha scritto il direttore – ma solo la sua trasposizione cinematografica.

In conclusione riprendo quello che lo stesso Francesco ha detto, riassumendolo in quattro punti: 1) «ai vescovi chiedo di essere pastori: sia questa la vostra gioia. Sarà la gente, il vostro gregge, a sostenervi»; 2) «a tutta la Chiesa italiana raccomando ciò che ho indicato in quella Esortazione: l’inclusione sociale dei poveri, che hanno un posto privilegiato nel popolo di Dio, e la capacità di incontro e di dialogo per favorire l’amicizia sociale nel vostro Paese, cercando il bene comune. L’opzione per i poveri è «forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la Tradizione della Chiesa» (Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, 42)». Questi due punti si aprono in altri due: 3) «Vi raccomando anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti»; 4) «Cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii gaudium, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni».

Sarà bene che la chiesa italiana si metta in moto per accogliere la sfida allo stesso tempo pressante (e misericordiosa) che il papa le ha lasciato: non è un caso che proprio l’invito ad approfondire l’Evangelii gaudium sia una garbata ma ferma presa d’atto che troppi ambienti ecclesiali se ne siano tenuti a doverosa distanza anziché raccoglierne le sfide.