Francesco ai presbiteri nella giornata del loro Giubileo: la spiritualità della misericordia

I meditazionedi Stefano Tarocchi • Lo scorso 2 giugno, vigilia della festa liturgica del Sacro Cuore di Gesù, rispettivamente nelle tre basiliche di S. Giovanni in Laterano, di S. Maria Maggiore e di S. Paolo fuori le Mura, papa Francesco ha dettato ai presbiteri convenuti per il loro Giubileo altrettante meditazioni sul tema della misericordia. Essa – ha esordito Francesco prima di affrontare la vera e propria meditazione iniziale, «ci permette di passare dal sentirci oggetto di misericordia al desiderio di offrire misericordia». Il papa ha quindi addirittura coniato un neologismo nella lingua italiana, peraltro assai espressivo, quando ha osato parlare ai preti dell’azione del “misericordiare” per poter “essere misericordiati”, «un tipo di azione che è onninclusiva: la misericordia include tutto il nostro essere – viscere e spirito – e tutti gli esseri». Infatti «non si può meditare sulla misericordia senza che tutto si metta in azione».

Pertanto – ha aggiunto Francesco, nella preghiera, non fa bene intellettualizzare». Mentre «rapidamente, con l’aiuto della Grazia, il nostro dialogo con il Signore deve concretizzarsi su quale mio peccato richieda che si posi in me la Tua misericordia, Signore, dove sento più vergogna e più desidero riparare». Così «se le nostre strutture non si vivono e non si utilizzano per meglio ricevere la misericordia di Dio e per essere più misericordiosi con gli altri, possono trasformarsi in qualcosa di molto diverso e controproducente». Questo per raggiungere i desiderati «frutti di conversione della nostra mentalità istituzionale».

La vera e propria meditazione (I. «Dalla distanza alla festa») ha preso spunto dalla parabola del Padre misericordioso (Lc 15,11-31). Francesco circa il figlio fuggito da casa ha richiamato la sua nostalgia del figlio minore, richiamando l’etimologia greca: ha detto il papa che la nostalgia «è un sentimento potente. Ha a che fare con la misericordia perché ci allarga l’anima. Ci fa ricordare il bene primario – la patria da cui proveniamo – e risveglia in noi la speranza di ritornare», come sottolinea l’etimologia del termine greco: il nostos algos ossia il “dolore del ritorno”».

Quando questo si verifica il papa ha felicemente evidenziato il rapporto tra il padre e il figlio: questi viene accolto così com’è, e condotto alla festa: «sporco, ma vestito a festa». In quello stato di «vergognata dignità», dice Francesco, «possiamo percepire come batte il cuore di nostro Padre. Possiamo immaginare che la misericordia ne sgorga come sangue».

Questo sangue è il «Sangue di Cristo, sangue della Nuova ed Eterna Alleanza di misericordia, versato per noi e per tutti in remissione dei peccati. Questo sangue lo contempliamo mentre entra ed esce dal suo Cuore, e dal cuore del Padre». Esso, ha aggiunto il papa, «è l’unico nostro tesoro, l’unica cosa che abbiamo da offrire al mondo: il sangue che purifica e pacifica tutto e tutti. Il sangue del Signore che perdona i peccati». Parlando quasi di una condizione costitutiva della misericordia, ha chiesto ai preti un gesto ulteriore: «nella nostra preghiera, serena, che va dalla vergogna alla dignità e dalla dignità alla vergogna – tutte e due insieme – chiediamo la grazia di sentire tale misericordia come costitutiva di tutta la nostra vita; la grazia di sentire come quel battito del cuore del Padre si unisca con il battito del nostro».

Perciò «l’importante è che ciascuno si ponga nella tensione feconda in cui la misericordia del Signore ci colloca: non solamente di peccatori perdonati, ma di peccatori a cui è conferita dignità. Il Signore non solamente ci pulisce, ma ci incorona, ci dà dignità». Così Simon Pietro offre «l’immagine ministeriale di questa sana tensione» per «situarci qui, nello spazio in cui convivono la nostra miseria più vergognosa e la nostra dignità più alta». E ancora, «sporchi, impuri, meschini, vanitosi – è peccato di preti, la vanità – egoisti e, nello stesso tempo, con i piedi lavati, chiamati ed eletti, intenti a distribuire i pani moltiplicati, benedetti dalla nostra gente, amati e curati. Solo la misericordia rende sopportabile quella posizione».

Quindi il papa si è chiesto nella nuova meditazione (II. «il ricettacolo della misericordia») «perché è così feconda questa tensione fra miseria e dignità, fra distanza e festa?». Questa la risposta: «è feconda perché mantenerla nasce da una decisione libera. E il Signore agisce principalmente sulla nostra libertà, benché ci aiuti in ogni cosa. La misericordia è questione di libertà». Possiamo vivere «senza averne coscienza e senza chiederla esplicitamente, finché uno si rende conto che “tutto è misericordia”, e piange con amarezza di non averne approfittato prima, dal momento che ne aveva tanto bisogno». «L’unico eccesso davanti alla eccessiva misericordia di Dio è eccedere nel riceverla e nel desiderio di comunicarla agli altri». Ma «la misericordia è il vero atteggiamento di vita che si oppone alla morte, che è l’amaro frutto del peccato». Così «il Signore non solo non si stanca di perdonarci, ma rinnova anche l’otre nel quale riceviamo il suo perdono. Utilizza un otre nuovo per il vino nuovo della sua misericordia, perché non sia come un vestito rattoppato o un otre vecchio». «Un cuore che sa di essere ricreato grazie alla fusione della sua miseria con il perdono di Dio, e per questo è un cuore che ha ricevuto misericordia e dona misericordia». «Nell’esercizio di questa misericordia che ripara il male altrui, nessuno è migliore, per aiutare a curarlo, di colui che mantiene viva l’esperienza di essere stato oggetto di misericordia circa il medesimo male». Maria «è il recipiente semplice e perfetto, con il quale ricevere e distribuire la misericordia. Il suo “sì” libero alla grazia è l’immagine opposta rispetto al peccato che condusse il figlio prodigo verso il nulla. Ella porta in sé una misericordia che è al tempo stesso molto sua, molto della nostra anima e molto ecclesiale. Come afferma nel Magnificat: si sa guardata con bontà nella sua piccolezza e sa guardare come la misericordia di Dio raggiunge tutte le generazioni». Francesco ha quindi ripreso il discorso tenuto lo scorso anni ai vescovi messicani «l’unica forza capace di conquistare il cuore degli uomini è la tenerezza di Dio. Ciò che incanta e attrae, ciò che piega e vince, ciò che apre e scioglie dalle catene non è la forza degli strumenti o la durezza della legge, bensì la debolezza onnipotente dell’amore divino, è la forza irresistibile della sua dolcezza e la promessa irreversibile della sua misericordia».

Nell’ultima parte del ritiro (III. «il buon odore di Cristo e la luce della sua misericordia») Francesco si sofferma sulle opere di misericordia. Dopo aver invitato i prebiteri a chiedere al Signore «uno sguardo che impari a discernere i segni dei tempi nella prospettiva di “quali opere di misericordia sono necessarie oggi per la nostra gente” per poter sentire e gustare il Dio della storia che cammina in mezzo a loro». D’altronde «nelle opere di misericordia siamo sempre benedetti da Dio e troviamo aiuto e collaborazione nella nostra gente. Non così per altri tipi di progetti, che a volte vanno bene e altre no, e alcuni non si rendono conto del perché non funziona e si rompono la testa cercando un nuovo, ennesimo piano pastorale, quando si potrebbe semplicemente dire: non funziona perché gli manca misericordia… Se non è benedetto è perché gli manca misericordia»

Ma proprio l’incipit della terza meditazione è di quelli che non ammette repliche: «il nostro popolo perdona molti difetti ai preti, salvo quello di essere attaccati al denaro. Il popolo non lo perdona. E non è tanto per la ricchezza in sé, ma perché il denaro ci fa perdere la ricchezza della misericordia. Il nostro popolo riconosce “a fiuto” quali peccati sono gravi per il pastore, quali uccidono il suo ministero perché lo fanno diventare un funzionario, o peggio un mercenario». E prosegue: «la grazia che chiediamo in questa preghiera è quella di lasciarci usare misericordia da Dio in tutti gli aspetti della nostra vita e di essere misericordiosi con gli altri in tutto il nostro agire. Per noi sacerdoti e vescovi, che lavoriamo con i Sacramenti, battezzando, confessando, celebrando l’Eucaristia…, la misericordia è il modo di trasformare tutta la vita del popolo di Dio in “sacramento”».

Ecco allora la «preghiera con la peccatrice perdonata (cfr Gv 8,3-11), per chiedere la grazia di essere misericordiosi nella Confessione, e un’altra sulla dimensione sociale delle opere di misericordia». È vero che «nel suo dialogo con la donna il Signore apre altri spazi: uno è lo spazio della non condanna. Il Vangelo insiste su questo spazio che è rimasto libero. Ci colloca nello sguardo di Gesù e ci dice che “non vede nessuno intorno ma solo la donna”. E poi Gesù stesso fa guardare intorno la donna con la domanda: “Dove sono quelli che ti classificavano”».

Il papa ha calcato su quest’ultimo verbo «perché dice di ciò che tanto rifiutiamo come il fatto che ci etichettino e ci facciano una caricatura». Si direbbe essere uno dei criteri con cui Francesco (in queste meditazioni l’attaccamento al denaro e la vanità) sferza gli uomini di Chiesa, preti, vescovi e religiosi, e che normalmente gli procura immeritate critiche: come dice la lettera agli Ebrei «Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d’animo quando sei ripreso da lui; perché il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio.

È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre? (Eb 12,5-7).

Al termine del discorso, papa Francesco enuclea davanti ai presbiteri le caratteristiche del ministero della riconciliazione, che dovrà essere 1. «Segnoe strumento di un incontro. … Segno vuol dire che dobbiamo attrarre. … Un segno dev’essere coerente e chiaro, ma soprattutto comprensibile»; 2. «non autoreferenziale, per dirlo in maniera difficile. Nessuno si ferma al segno una volta che ha compreso la cosa; nessuno si ferma a guardare il cacciavite o il martello, ma guarda il quadro che è stato ben fissato. Siamo servi inutili», non necessari; ma per questo il papa richiama alla 3. disponibilità. Che sia pronto all’uso lo strumento, che sia visibile il segno. L’essenza del segno e dello strumento è di essere mediatori, disponibili. Forse qui si trova la chiave della nostra missione in questo incontro della misericordia di Dio con l’uomo»; occorrerà, quindi, anche 4. imparare dai buoni confessori, quelli che hanno delicatezza con i peccatori e ai quali basta mezza parola per capire tutto, come Gesù con l’emorroissa, e proprio in quel momento esce da loro la forza del perdono … senza avere mai lo sguardo del funzionario, di quello che vede solo “casi” e se li scrolla di dosso».

Lasciamo Francesco parlare infine ancora una volta: «chiediamo due grazie al Buon Pastore: quella di lasciarci guidare dal sensus fidei del nostro popolo fedele, e anche dal suo “senso del povero”. Entrambi i “sensi” sono legati al “sensus Christi”, di cui parla san Paolo, all’amore e alla fede che la nostra gente ha per Gesù». Per questo la meditazione si è mutata in preghiera: «non permettere che il tuo popolo, Signore, si separi da Te. Che niente e nessuno ci separi dalla tua misericordia, la quale ci difende dalle insidie del nemico maligno. Così potremo cantare le misericordie del Signore insieme a tutti i tuoi santi quando ci comanderai di venire a Te».

Silvano Piovanelli e la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale

1470118323041-1772820907di Stefano Tarocchi • La recente scomparsa, il 9 luglio 2016, del cardinale Silvano Piovanelli, arcivescovo emerito di Firenze, è stata l’occasione per approfondire la memoria su questo prete fiorentino, indubbiamente molto amato da tutti, laici e preti, credenti e non credenti, che l’arcivescovo Giovanni Benelli volle suo stretto collaboratore. L’allora proposto di Castelfiorentino passò da pro-vicario a vicario generale e quindi vescovo ausiliare, fino a quando nell’improvvisa scomparsa del cardinale Benelli fu nominato da Giovanni Paolo II arcivescovo di Firenze, ruolo che ha ricoperto fino al 2001, quando si è ritirato alla pieve di Cercina e quindi al Convitto Ecclesiastico, nel viale Machiavelli.

Fra tutte le grandi scelte del cardinale Silvano se ne ascrivono due in particolare che sono finite in secondo (o terzo) piano: la reti dei settimanali diocesani e la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.

Di altre si dovrà necessariamente riaprire la lettura: un esempio per tutte il Sinodo Diocesano, il il 34° della storia e il primo celebrato dopo il Concilio Vaticano II (1988 – 1992). Chi scrive ne ha parlato nell’ultimo colloquio che ho avuto con lui venti giorni circa prima della morte: potei vedere nella grande sofferenza della malattia gli occhi illuminarsi rammentando le figure di preti fiorentini ormai scomparsi che vi collaborarono (uno per tutti: don Enrico Chiavacci, messo a capo della commissione teologica, alla quale Piovanelli chiamò anche il sottoscritto a far parte).

Proprio Enrico Chiavacci, insieme a Valerio Mannucci, Lino Randellini, Gino Ciolini, e Raffaello Parenti, Mario Lupori, furono protagonisti nell’immediato post concilio di quel movimento, che arricchitosi via via di altri prestigiosi teologi di varie discipline che portarono dapprima all’affiliazione la Facoltà di Teologia della Pontifica Università Gregoriana (1976), durante l’ultimo periodo dell’episcopato di Ermenegildo Florit, e poi dopo il breve mandato del cardinale Benelli, all’aggregazione (1990) la medesima facoltà della PUG, intensamente cercata da Valerio Mannucci, come primo passaggio dallo Studio Teologico Fiorentino alla costituenda facoltà.

Qui non è nemmeno il caso di rammentare che questo percorso era nato molto lontano: sia detto senza polemica per quanti nel corso degli anni si sono chiesti il senso di una facoltà di Teologia a Firenze (e forse hanno operato neanche troppo nascostamente in questa direzione…), con le università romane a così breve distanza. Seguendo questa logica – mi si permetta la franchezza – da circolo ricreativo, molte altre realtà potrebbero essere discusse.

La nascita dello Studium generale florentinum (31 maggio 1348 con papa Clemente VI) ne è un esempio. L’attività di quella che si chiamò l’Università dei teologi di Firenze, confermata successivamente da papa Leone X nel 1515, proseguì di fatto inalterata fino al 1931, quando la Costituzione apostolica di Pio XI Deus scientiarum Dominus, sospese a tutte le Università ecclesiastiche (e quindi anche all’Università dei teologi) la facoltà di concedere gradi accademici, finché non avessero riorganizzati i loro quadri in conformità a nuove istruzioni. L’attività della Università solo sospesa, in attesa di espletare gli adempimenti richiesti (e da qui di fatto ricomincerà realmente nel 1990).

Dobbiamo perciò tornare all’episcopato di Piovanelli e al 1986, quando viene inoltrata all’esame della Congregazione per l’Educazione Cattolica la documentazione per la trasformazione dello Studio in Facoltà teologica: nello steso anno la presidenza della CEI riconobbe «l’opportunità di dotare il centro Italia di una Facoltà teologica e la qualificazione di Firenze ad essere sede di tale istituzione». Al tempo stesso suggeriva «che l’istituenda Facoltà si preoccupasse di sostenere e promuovere la cultura teologica nel territorio dell’Italia Centrale, anche con gli opportuni collegamenti con le istituzioni teologiche promosse da diocesi e regioni limitrofe». La stessa Congregazione per l’Educazione Cattolica riconoscendo la secolare vocazione teologica di Firenze, confermava il recente impegno e, in relazione alle nuove esigenze spirituali, incoraggiava ad affrontare con sempre maggiore attenzione e competenza le molteplici problematiche religiose attorno al tema centrale dell’uomo.

L’8 settembre 1997, natività della Beata Vergine Maria, la Congregazione per l’Educazione Cattolica emanò inopinatamente il decreto che costituiva la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, senza lasciarsi fuorviare da accorpamenti impropri con altre realtà accademiche. Per la città che ha la sua cattedrale dedicata a S. Maria del Fiore, unendo così la civitas e la comunità dei credenti unita intorno al vescovo, non è una circostanza casuale

Questa la storia e le sue circostanze: ma dietro, insieme a chi è stato prima rammentato, c’era indubbiamente il cardinale Silvano. Piovanelli aveva anzitutto previsto la dotazione di un fondo economico cospicuo, che permettesse alla costituenda facoltà di costruire la propria attività e ricavare sufficienti energie per il proprio mantenimento. Vi riuscì, nonostante molti ostacoli.

Ma va rammentata anche l’indubbia capacità di mediare anche presso la congregazione, il cardinale prefetto, il segretario generale e i funzionari: non è facile farsi ascoltare, mediare senza creare l’effetto paradosso contrario.

Anche per questo motivo la FTIC, che già aveva dedicato a Piovanelli il volume Il vescovo fra storia e teologia. Saggi in onore del card. Silvano Piovanelli (Vivens Homo 11 [2000], il 28 febbraio 2014, a distanza di pochi giorni dal suo novantesimo genetliaco (era nato il 21 febbraio 1924), gli conferì il Dottorato ad honorem in Sacra Teologia, memore della sua «scelta programmatica, maturata nell’ambito del Sinodo, di attivare annualmente la lettura, lo studio, la meditazione personale e comunitaria su un libro biblico proposto dalla Diocesi».

Tutto questo conduceva al filo rosso delle sue dieci lettere pastorali che si caratterizzano abbiano per lo più titoli desunti dalla Bibbia: a cominciare dalla lettera del 1983: «Cinque pani e due pesci», ripresa anche l’anno seguente, alla lettera «Lasciatevi riconciliare» (1985). La lettera «A ciascuno secondo il suo bisogno» (1986), e ancora le lettere «Siate testimoni» (1993) e «Prodigatevi nell’opera del Signore (1994), scritte sulla scia del Sinodo diocesano appena concluso – che consegnano alla chiesa fiorentina, in un cammino biennale, il Libro degli Atti degli Apostoli come primo “testo biblico di riflessione”. E quindi la lettera «Tu credi in Gesù Cristo» (1998) e «Lo Spirito dà la vita» (1999), negli ultimi due anni di preparazione al grande Giubileo del 2000, fino alla lettera «Proclamiamo l’anno di grazia del Signore» (2000).

Degna di nota è la lettera «Andiamo alla Casa del Signore» (1996), in cui il Cardinale Piovanelli, in occasione dei 700 anni della posa della prima pietra della Cattedrale, introduce il popolo di Dio, con tratto denso e tuttavia vivace, alla geografia fisica e teologica di S. Maria del Fiore, in un percorso quanto mai attuale. Piovanelli ha perseguito così una storia dell’esegesi in senso lato, che si riconduce al percorso vitale della catechesi, e comunque della comunicazione della fede.

Pilato tra “storia e memoria”

pilatodi Stefano Tarocchi • Nella conclusione del recente saggio sul prefetto della Giudea (Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria, Einaudi, Torino 2016), Aldo Schiavone, giurista e storico, scrive di essere impressionato da «un’insuperabile ambiguità che si riproduce di continuo intorno a Pilato, appena se ne parli; quasi la sua cifra non potesse essere altro dall’indefinito, dalla nebbia; e aleggiasse su di lui l’ombra di un non detto, di un taciuto che intercetta ogni volta la luce, o la deforma» (143). Si tratta dell’uomo, non a caso, che Tertulliano definiva «un cristiano nel cuore» (pro sua conscientia christianus: Apologeticum, 21).

Pilato viene raccontato in cinque intensi capitoli dal Schiavone: 1) In una notte nel mese di Nisan; 2) La Giudea romana e il lavoro del quinto prefetto; 3) Dio e Cesare; 4) Il destino del prigioniero; 5) Nell’ombra.

A parte il breve capitolo finale, che fa pendant con la stringata introduzione, il percorso segue il cammino tracciato dai Vangeli, con l’eccezione del capitolo 3: una preziosa digressione sul ruolo del prefetto della Giudea e di Pilato in questo ruolo.

Tuttavia nessuna meraviglia se l’uomo che fu, sotto il principato di Tiberio, il quinto prefetto della Giudea, in carica dal 26 al 36 d.C. (e che aveva a disposizione un’unità di cavalleria e cinque coorti di cavalleria), non era molto amato nella terra di sua pertinenza. Peraltro anche se Tacito, usando un felice anacronismo lo chiama “procuratore”, il titolo di prefetto è testimoniato un ritrovamento di una iscrizione – usata originariamente per una delle torri del porto di Cesarea Marittima, sua residenza insieme al grosso della guarnigione, dedicata all’imperatore Tiberio, e poi riutilizzata nel rifacimento del teatro della città. Una lettera del re Erode Agrippa I (in Filone, Legatio ad Caium, 38) lo descrive come «implacabile, senza riguardi, ostinato». Sappiamo anche di stragi fatte compiere dai suoi soldati tra le folle: una, in occasione dei lavori dell’acquedotto del tempio di Gerusalemme, che Pilato voleva finanziare con il tesoro del Tempio (Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche, XVIII, 3, 2); un’altra in circostanze ignote, come rammenta il terzo Vangelo (Lc 13,1: «quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici»), una terza a danno dei Samaritani, che si accompagna a quando, con le insegne imperiali e l’effige dell’imperatore, oltre che il suon nome divino, fece ingresso nel tempio di Gerusalemme. L’azione contro i Samaritani segnò la sua rovina: essi infatti reclamarono presso Vitellio, legato romano in Siria (per lui c’erano a disposizione quattro legioni: la VI, la X [Fretensis], la III e la XII) da cui Pilato dipendeva, e questi lo sospese dalla sua carica, inviandolo a Roma a rispondere del suo operato al tribunale di Tiberio. Prima che arrivasse a Roma Tiberio era già morto, e Pilato cadde nell’oblio.

Più che mai sembra decisiva la distinzione dell’autore tra storia e memoria: la memoria religiosa (ma anche culturale) «è più orientata al significato e alla comprensione degli eventi cui allude … che alla registrazione del passato in quanto tale». Questo perché la stessa memoria è la generatrice del percorso che conduce alla ricostruzione storica. Lo storico perciò distingue, tra i nomi: per lui Giuda e Barabba sono per sé solo figure della “memoria” che ci ha dato i Vangeli. Gli altri sono totalmente personaggi della storia: Anna, Caifa, Erode Antipa, Giuseppe di Arimatea, e soprattutto Pilato.

Ma la storia di Pilato può essere ricostruita solo a partire dalle testimonianze evangeliche dei tre Vangeli Sinottici, e soprattutto di Giovanni, nei rispettivi racconti della passione.

Tutte le fonti confermano che «l’arresto e la condanna di Gesù avevano avuto un impulso giudaico, all’interno dell’élite sacerdotale» (p. 72): l’autorità romana e quella giudaica hanno proceduto fianco a fianco. Questo è confermato dal fatto che nelle accuse mosse Gesù ci fu uno slittamento dal piano religioso a quello politico, che prevedeva il ben noto principio dell’autonomia delle regioni amministrate da Roma (suis moribus legibusque suis uti). Così il Vangelo di Giovanni: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!» (Gv 18,31) e l’apodittico: «noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio» (Gv 19,7).

Pilato venne usato per costringerlo a ratificare la condanna già stabilita dai maggiori esponenti del giudaismo: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare» (Giovanni 19,12). Era questo l’unico motivo per portare Gesù alla morte, senza invocare poter invocare a Gerusalemme la Lex Iulia maiestatis che a Roma puniva chi avesse voluto sostituirsi al potere costituito proclamandosi «re dei Giudei».

Ma Gesù, pur accusato di essere re, non ha un regno in questo mondo (cf. Giovanni 18,36). Schiavone indulge al vezzo di fare un po’ di teologia (pp. 86-87), e, per affermare il monoteismo, costruisce quasi una natura “binitaria” di Gesù, in bilico tra lui e il Padre: l’unico punto, a mio avviso, discutibile del saggio, che richiama un altro elemento binario, Dio e Cesare, e quindi la lotta dei discepoli di Cristo contro il potere del cesare di turno.

Schiavone smonta anche la memoria trasmessa dal solo Matteo del gesto per cui Pilato è giustamente famoso, l’atto di lavarsi le mani (Matteo 27,24), che a suo avviso diventa «il punto zero nella genealogia dell’antisemitismo cristiano» (p. 111), per approfondire il racconto del famoso “processo”, che l’autore nega fosse un procedimento vero e proprio, con una precisa procedura. Schiavone ha forti dubbi anche sull’invio da Pilato ad Erode, l’Antipa, come narra Luca (23,6-12), che vorrebbe addirittura costruire un’amicizia di comodo fra il tetrarca e il prefetto.

Del resto non era un processo nemmeno l’interrogatorio davanti ad Anna e poi a Caifa. Davanti a Pilato non c’era un cittadino romano, che poteva invocare una garanzia dovuta al suo stato giuridico o al suo patrimonio: c’era solo un predicatore dalle umili origini. Questo non impedisce di frapporre fra Gesù e Pilato la celebre domanda «che cos’è la verità», la cui analisi lascia trasparire anche in Schiavone una certa simpatia per il prefetto, al pari di Tertulliano e della chiesa Ortodossa Etiope che annovera Pilato tra i santi, per quest’ultimo, evidentemente affascinato dall’uomo che ha davanti (“quid est veritas?” “Est vir qui adest).

Schiavone parimenti insiste sul fatto che non solo Giovanni, ma anche Matteo e Marco finiscono per incolpare l’intero popolo ebraico dell’intera responsabilità del crimine (p. 113), scagionando (soprattutto Marco!) Pilato e il potere di Roma da ogni responsabilità sulla morte di Gesù. Se il Giudaismo ha manovrato perché Pilato pronunci la condanna, nonostante il tentativo in extremis di far appello alla consuetudine di liberare un prigioniero, non è il Giudaismo delle folle e del popolo, pur richiamate nella narrazione ma quello dell’intellighenzia del potere politico-religioso. Tutto sommato anche Pilato, nella sua ineffabile ambiguità, ne è ugualmente vittima.

«Ti sei rivelato a noi e non al mondo?»

3-1-660x350di Stefano Tarocchi • La VI domenica del Tempo Pasquale introduce il testo del Vangelo di Giovanni – peraltro omessa dal libro liturgico – con la domanda dell’apostolo Giuda (si noti, «non l’Iscariota»), che si rivolge a Gesù: «come mai ti sei rivelato a noi e non al mondo?».

È noto l’autorivelazione del Cristo è definita nel Vangelo di Giovanni come luce: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12) e «Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre (Gv 12,46). Si riprende il medesimo tema quando il Vangelo dice: «Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo» (Gv 9,5).

La stessa presenza del Cristo, come Verbo, era già definita in questo modo: «veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9). Oppure: «la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvage» (Gv 3,19).

Del resto anche la prima lettera di Giovanni scrive: «Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna. Se diciamo di essere in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, siamo bugiardi e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato» (1 Gv 1,5-7).

Tuttavia, nel momento in cui sta per arrivare la sua passione, quella che il Vangelo chiama “glorificazione”, la rivelazione del Cristo avviene solo davanti ai discepoli e non più al «mondo». In sostanza si potrebbe sostenere che il «mondo», creato da Dio per mezzo del Verbo, si è ribellato in maniera radicale a Dio e al suo Figlio, il Verbo che «era nel mondo». «Il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto» (Gv 1,10). Ma lo stesso Verbo «a quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1,12-13).

Non è un caso che il tema del «mondo» dòmini la scena nel Quarto Vangelo, il Vangelo di Giovanni, non fosse altro che numericamente, per le sue settantotto ricorrenze (!) sulle cent’ottantasei dell’intero Nuovo Testamento. Potremmo aggiungerne anche trenta, nelle prime due lettere dello stesso Giovanni.

Qui tenterò di riprendere una parte dei testi in questione per definire una immagine della potenza divina che non viene sopraffatta dalle tenebre, la condizione negativa dell’umanità in quanto opposta a Dio: «la luce splende nelle tenebre» e tuttavia «le tenebre non l’hanno vinta» (Gv 1,5). Che è come dire che il Cristo si è rivelato davanti alla condizione umana, che lo respinge ma non è capace di sconfiggerlo.

La totale opposizione tra il «mondo» e il Padre è espressa quindi con estrema chiarezza: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,16-17). Ma il Vangelo dice di più: Dio ha amato quella realtà (il «mondo») che lo ha rifiutato, lasciando aperto la strada a quanti si sono posti in una posizione diametralmente opposta: non di rifiuto ma di ascolto, di accoglienza.

A quel mondo che si oppone a Dio, questi offre un’altra strada, come emerge dalle parole con cui il Battista annuncia Gesù: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29). Si parla proprio al singolare («il peccato»), perché esso riassume ogni altra colpa. Anche la prima lettera dell’apostolo Giovanni precisa: «in questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv 4,10).

E non è un’opposizione formale tra Dio e quanti gli si oppongono, se Gesù dice ai discepoli «il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive» (Gv 7,7; letteralmente: «maligne», come il nemico di Dio e delle sue creature), mostrando qui una nuova declinazione della sua missione di luce. Questo si dice con chiarezza anche nella guarigione dell’uomo cieco: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi» (Gv 9,39).

Perciò i discepoli devono sapere che «se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma vi ho scelti io dal mondo, per questo il mondo vi odia» (Gv 15,18-19). E più avanti Gesù aggiunge: «Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me, ed essi hanno osservato la tua parola. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi. Ma ora io vengo a te e dico questo mentre sono nel mondo, perché abbiano in sé stessi la pienezza della mia gioia» (Gv 17,6.9.11.13).

Nella stessa preghiera che Gesù pronuncia avanti la sua passione, mentre si trova ancora con i discepoli egli dice: «Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse. Io ho dato loro la tua parola e il mondo li ha odiati, perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; [prego] perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me. Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai dato; poiché mi hai amato prima della creazione del mondo. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto, e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato» (Gv 17,5.14-16.18.21.23-25).

Pertanto il «mondo», che è stato oggetto dell’amore di Dio e del Cristo, una volta che ha scelto definitivamente la sua strada non può più cambiare il proprio cammino; perciò il Cristo, da un certo momento in poi della sua missione, prega per i discepoli e non più per coloro che si sono radicalmente autoesclusi dalla salvezza. Ne è conferma il fatto che in precedenza il vangelo dice di Gesù: «non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» (Gv 12,47). Per questo aggiungerà ai discepoli: «Vi ho detto questo perché abbiate pace in me. Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33).

In conclusione potremmo chiosare con le stesse parole del Vangelo, nella sua conclusione definitiva: «Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere» (Gv 21,25). La potenza del Cristo, che ha vinto la sua opposizione radicale nella sua gloria, cioè la passione e la risurrezione, riduce il mondo, stavolta in senso neutro, a semplice contenitore delle sue parole.