«Ecco l’Agnello di Dio»

trasferimento (2)di Stefano Tarocchi • Il Vangelo secondo Giovanni riserva al Battista un ruolo molto particolare: dopo averne precisato nel prologo il ruolo totalmente differente rispetto al Cristo – egli è infatti solo colui che gli rende testimonianza, e non la luce (Gv 1,8.15) – si fa conoscere al lettore che egli non è il Cristo, il Messia ma solo la «voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore». Quando Gesù arriva nel luogo in cui Giovanni sta battezzando, a Betania al di là del Giordano, è questa la sua parola «vedendo Gesù venire verso di lui»: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!». Giovanni aggiunge di essere «venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele» (Gv 1,29).
Ora è questa indicazione che voglio approfondire: «ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo».

Il quarto vangelo da un significato nuovo alla prima espressione («l’agnello di Dio»), che originariamente nell’ebraismo ha a che fare con il racconto del sacrificio di Isacco: «Dio stesso si provvederà l’agnello per l’olocausto» (Gen 22,8). Isacco nel giudaismo, dopo l’agnello della pasqua e il “servo del Signore” descritto da Isaia (Is 53,7.10), è il prototipo del sacrificio nel cui nome vengono cancellati i peccati del popolo. Per Gesù viene creata però l’associazione tra «agnello di Dio» e «Figlio di Dio»: «io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio» (Gv 1,34). Del resto appena Gesù è morto e «uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34), l’evangelista aggiunge (e in questo caso è lui il testimone): «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso. E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto». D’altronde, scrive ancora il Vangelo «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,16-17).

Potremmo però chiederci perché le parole del Battista parlano di «agnello di Dio che toglie il peccato», al singolare – mentre la liturgia “traduce” regolarmente «che toglie i peccati», al plurale. Questo è, come già commentava Rudolf Schnackenburg, il “peso dei peccati dell’umanità”. È ciò che viene chiamato in chiave ancora più assoluta, la distruzione di ogni ordine: «il peccato è l’iniquità» (1 Gv 3,4).

È infatti, su questa tonalità universale che si sposta il pensiero del quarto evangelista, quando scrive nella prima delle tre lettere che il canone gli attribuisce: «Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1 Gv 2,1-2). E ancora, e soprattutto: «non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv 4,10).

La stessa prima lettera di Giovanni sposta ulteriormente questo orizzonte, quando scrive anche: «Se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato. Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi» (1Gv 1,7-10).

Addirittura, il medesimo scritto dell’apostolo Giovanni, rovescia in chiave battesimale la contemplazione del Cristo, “addormentato” sulla croce, rivelando la sua azione salvifica universale: «egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue» (1 Gv 5,6).

“Genealogia di Gesù Cristo”

bibbia_tredonne_m717855b8di Stefano Tarocchi  Matteo è l’unico libro canonico che inizia con una lunga arida lista di nomi: una genealogia. Una buona traduzione letterale del testo evangelico dovrebbe essere «libro dell’origine», espressione che ricalca nella lingua greca quella di Gen 2,4: «Queste sono le origini del cielo e della terra». All’interno dello stesso libro della Genesi ne troviamo almeno due: Gen 5,1-32; 10,1-32.

L’evangelista raccoglie suddivide quarantadue nomi in senso discendente in tre serie di quattordici, come dice esplicitamente: «tutte le generazioni da Abramo a Davide sono quattordici, da Davide fino alla deportazione in Babilonia quattordici, dalla deportazione in Babilonia a Cristo quattordici» (Mt 1,17). Ed è lui medesimo a stabilire la ripartizione di questo triplice elenco a base «quattordici» in una sua personale scansione: in realtà le generazioni sono tredici nella prima serie, quattordici nella seconda, segnato dalla vicenda della deportazione, e solo dodici nella terza.

Nel parallelo Vangelo di Luca il racconto delle generazioni è narrato in senso ascendente dopo il racconto del battesimo di Gesù: questi «quando cominciò il suo ministero, aveva circa trent’anni ed era figlio, come si riteneva, di Giuseppe, figlio di Eli, … figlio di Set, figlio di Adamo, figlio di Dio» (Lc 3,23-38). In questo caso si tratta di settantacinque nomi, fino ad arrivare nientemeno allo stesso Dio, contro i quarantadue nomi di Matteo (che in realtà sono trentanove), che iniziano da Abramo, che nella lista del terzo vangelo è di fatto il ventunesimo.

I tre gruppi di quattordici generazioni sottolineano il compimento delle profezie veterotestamentarie: la fedeltà di Dio che non viene mai meno alle sue promesse. Nel lungo procedere delle generazioni si inseriscono, oltre a Maria, quattro donne: Tamar, la nuora di Giuda (cf. Genesi 38,1-30; Rut 4,12.18-22); Racab, la prostituta di Gerico (cf. Giosué 2,1.3; 6,17.23.25; Ebrei 11,31; Giacomo 2,25); Rut, la moabita (Rut 4,13-17.18-22); Betsabea, già «moglie di Uria» (cf. 2 Samuele 11,1-26).

Queste figure femminili rompono il lungo, quasi monotono uniforme susseguirsi dei nomi maschili. Esse rendono evidente l’irregolarità e la discontinuità di un cammino non sempre irreprensibile, ma è questa umanità debole e fragile che viene assunta totalmente dal Figlio di Dio per essere salvata.

Tamar, la prima di esse, è di fatto costretta dalla legge del levirato a sedurre il suocero Giuda per assicurare una legittima discendenza: «Tamar si tolse gli abiti vedovili, si coprì con il velo e se lo avvolse intorno, poi si pose a sedere all’ingresso di Enàim, che è sulla strada per Timna. Aveva visto infatti che Sela era ormai cresciuto, ma lei non gli era stata data in moglie. Quando Giuda la vide, la prese per una prostituta, perché essa si era coperta la faccia. Egli si diresse su quella strada verso di lei e disse: «Lascia che io venga con te!». Non sapeva infatti che era sua nuora. Ella disse: «Che cosa mi darai per venire con me?». Rispose: «Io ti manderò un capretto del gregge». Ella riprese: «Mi lasci qualcosa in pegno fin quando non me lo avrai mandato?». Egli domandò: «Qual è il pegno che devo dare?». Rispose: «Il tuo sigillo, il tuo cordone e il bastone che hai in mano». Allora Giuda glieli diede e si unì a lei. Ella rimase incinta» (Gen 38,14-18).

Racab fu la prostituta che favorì l’ingresso degli inviati di Giosuè nella città di Gerico quello che dicono due testi. Dicono i testi biblici: «Rimarrà in vita soltanto la prostituta Raab e chiunque è in casa con lei, perché ha nascosto i messaggeri inviati da noi (Gs 6,17). Così commentano la lettera agli Ebrei e quella di Giacomo: «per fede, Raab, la prostituta, non perì con gli increduli, perché aveva accolto con benevolenza gli esploratori (Eb 11,31); «anche Raab, la prostituta, non fu forse giustificata per le opere, perché aveva dato ospitalità agli esploratori e li aveva fatti ripartire per un’altra strada? (Gc 2,25).

Rut è la straniera che sceglie di ritornare in mezzo al popolo di Israele, e proprio nella città di Betlemme, fino al gesto inaudito di quando «Scese all’aia e fece quanto la suocera le aveva ordinato. Booz mangiò, bevve e con il cuore allegro andò a dormire accanto al mucchio d’orzo. Allora essa venne pian piano, gli scoprì i piedi e si sdraiò» (Rt 3,6-7). Allo stupore di Booz, che le è stato scelto dalla suocera Noemi, Rut risponde: «”Sono Rut, tua serva. Stendi il lembo del tuo mantello sulla tua serva, perché tu hai il diritto di riscatto”. Egli disse: “Sii benedetta dal Signore, figlia mia! Questo tuo secondo atto di bontà è ancora migliore del primo, perché non sei andata in cerca di uomini giovani, poveri o ricchi che fossero. Ora, figlia mia, non temere! Farò per te tutto quanto chiedi, perché tutti i miei concittadini sanno che sei una donna di valore (Rt 3,9-11). La legge del levirato rientra dunque in questa narrazione, che così conclude il brevissimo libro omonimo: così «Booz generò Obed, Obed generò Iesse e Iesse generò Davide» (Rt 4,21-22).

Betsabea, infine, è la donna che Davide si scelse, quando «un tardo pomeriggio, alzatosi dal letto, si mise a passeggiare sulla terrazza della reggia. Dall’alto di quella terrazza egli vide una donna che faceva il bagno: la donna era molto bella di aspetto. Davide mandò a informarsi chi fosse la donna. Gli fu detto: «è Betsabea figlia di Eliàm, moglie di Uria l’Hittita» (2 Sam 11,2). Per amore di lei, che gli partorirà Salomone, Davide trama la morte in battaglia del marito (2 Sam 11,14-15).

Quindi l’umanità nella sua inestricabile connessione tra bene e male è la trama sulla quale si intesse la generazione umana del Figlio di Dio. Matteo ne è consapevole e lo sottolinea col suo stile preciso. Lo stesso numero «quattordici», ripetuto tre volte, indica che Cristo è il vero Davide. Fra le interpretazioni possibili, esso risulta infatti la somma dei tre numeri (4+6+4) che a loro volta sono l’equivalente delle lettere che compongono il nome del re (D+W+D, in ebraico le consonanti del nome David).

E qui arriviamo al nodo principale di questa “arida” lista di nomi: «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo». Il testo greco dice però letteralmente: «è stato generato», introducendo quello che gli specialisti chiamano il “passivo teologico” (cf. Mt 2,1), come viene chiarito a Giuseppe dalle parole dell’angelo che gli appare in sogno.

Gesù è così il “tre volte” «figlio di Davide» (cf. però 1,20.21.24: anche Giuseppe è chiamato così). Le parole dell’annuncio divino attraverso l’angelo chiariscono ulteriormente: «Così fu generato Gesù Cristo [lett. «l’origine di Gesù era in questo modo»]: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo» (Mt 1,18). E più avanti sottolinea: «senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù» (Mt 1,25).

Quindi, senza timore di essere smentiti, questa grandiosa storia a tinte chiaroscurali dell’umanità, viene ad essere illuminata dalla silenziosa presenza della Madre di Dio. Tutte le generazioni umane infatti, si interrompono davanti all’atto divino che si compie attraverso di lei «per opera di Spirito santo».

Papa Francesco e il viaggio in Svezia

ap3722973_articolodi Stefano Tarocchi • «Dovremmo scrutare più profondamente il destino di Pietro nel Vangelo. Pietro, così sosteneva san Gregorio Palamàs (monaco del Monte Athos:1296-1359), è il prototipo stesso dell’uomo nuovo, ovvero il peccatore perdonato. Cristo gli fa delle promesse riguardanti il ministero della chiesa, contro cui le porte degli inferi non prevarranno… Se nella chiesa c’è un vescovo che è l’analogo di Pietro, siamo ben lontani dalla potenza e dalla gloria: egli può essere qui solo per ricordare alla chiesa che essa vive del perdono di Dio e non ha altra forza che la croce» (Atenagora, patriarca di Costantinopoli, 1886-1972).

Queste parole, richiamate nell’intervista rilasciata da papa Francesco recentemente ad “Avvenire” (18 novembre 2016), possono interpretare l’evento accaduto lo scorso ottobre nell’arena di Malmö, terza città della Svezia, così messo in luce dallo stesso vescovo di Roma : «Rendo grazie a Dio per questa commemorazione congiunta dei cinquecento anni della Riforma, che stiamo vivendo con spirito rinnovato e nella consapevolezza che l’unità tra i cristiani è una priorità, perché riconosciamo che tra di noi è molto più quello che ci unisce di quello che ci separa».

Questo viaggio è diventato un punto nevralgico, quanto passato sotto silenzio se non avversato senza pudore, proprio allo scadere dell’anno giubilare della Divina Misericordia del magistero di Francesco, sulle orme dei suoi predecessori, da Paolo VI a Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, passando per il brevissimo pontificato di papa Luciani. Infatti papa Francesco ha così chiosato: «il cammino intrapreso per raggiungere [l’unità dei cristiani] è già un grande dono che Dio ci fa e, grazie al suo aiuto, siamo oggi qui riuniti, luterani e cattolici, in spirito di comunione, per rivolgere il nostro sguardo all’unico Signore, Gesù Cristo».

Da Giovanni XXIII (si veda Gaudet Mater Ecclesia, il discorso con cui fu aperto il Concilio Vaticano II) alla bolla di indizione del Giubileo da poco concluso (la Misericordiae Vultus di Francesco), passando per l’enciclicaDives in Misericordia di Giovanni Paolo II: sono tutti tratti che illuminano questo viaggio in terra di Svezia, che ha come centro la città di Lund, il luogo dove settant’anni fa fu fondata la Federazione luterana mondiale, che riunisce la maggior parte delle Chiese luterane maggiormente ispirate a Lutero (e non la Germania dove Martin Lutero è nato, nella città di Eisleben in Sassonia-Anhalt nel 1483). Un viaggio perciò all’interno della galassia luterana, compiuto il 31 ottobre, il giorno che simbolicamente ogni anno richiama la nascita della Riforma, dal 31 ottobre 1517 quando il monaco agostiniano affisse le famose 95 Tesi sul portale della chiesa del castello di Wittenberg, ancora in Sassonia-Anhalt.

Già la “dichiarazione congiunta”, tenuta nella Commemorazione congiunta cattolico-luterana della Riforma così si esprimeva, rilevando che le due confessioni «mentre [sono] profondamente grati per i doni spirituali e teologici ricevuti attraverso la Riforma, [confessano e deplorano] davanti a Cristo il fatto che hanno ferito l’unità visibile della Chiesa». Peraltro, è altamente significativa nella versione ufficiale la ripetizione dello stesso aggettivo “congiunta” a significare un’unità desiderata e tuttora da raggiungere nella sua pienezza, che il testo così lumeggiava: «differenze teologiche sono state accompagnate da pregiudizi e conflitti e la religione è stata strumentalizzata per fini politici. La nostra comune fede in Gesù Cristo e il nostro battesimo esigono da noi una conversione quotidiana, grazie alla quale ripudiamo i dissensi e i conflitti storici che ostacolano il ministero della riconciliazione».

È pur vero che, nota ancora la Dichiarazione congiunta, «mentre il passato non può essere cambiato, la memoria e il modo di fare memoria possono essere trasformati». Lo stesso Francesco ancora nella cattedrale luterana di Lund dirà: «Con questo nuovo sguardo al passato non pretendiamo di realizzare una inattuabile correzione di quanto è accaduto, ma di «raccontare questa storia in modo diverso» (Commissione Luterana-Cattolica Romana per l’unità, Dal conflitto alla comunione, 17 giugno 2013, 16).

E Francesco nella Malmö Arena, nell’evento conclusivo della giornata, così si è espresso: «non lasciamoci abbattere dalle avversità. Queste storie, queste testimonianze ci motivino e ci offrano nuovo impulso per lavorare sempre più uniti. Quando torniamo alle nostre case, portiamo con noi l’impegno di fare ogni giorno un gesto di pace e di riconciliazione, per essere testimoni coraggiosi e fedeli di speranza cristiana. E come sappiamo, la speranza non delude!».

La medesima dichiarazione congiunta invitava a pregare «per la guarigione delle nostre ferite e delle memorie che oscurano la nostra visione gli uni degli altri» e ad abituarsi al rifiuto di «ogni odio e ogni violenza, passati e presenti, specialmente quelli attuati in nome della religione» per ascoltare «il comando di Dio di mettere da parte ogni conflitto» e riconoscere che cattolici e luterani sono «liberati per grazia per camminare verso la comunione a cui Dio continuamente chiama».

Anche nell’omelia tenuta nella preghiera ecumenica comune all’interno della cattedrale luterana della piccola città universitaria di Lund, Francesco ha messo in luce come «cattolici e luterani [abbiano] cominciato a camminare insieme sulla via della riconciliazione». Ed ha sottolineato come «ora, nel contesto della commemorazione comune della Riforma del 1517, [abbiano] una nuova opportunità di accogliere un percorso comune, che ha preso forma negli ultimi cinquant’anni nel dialogo ecumenico tra la Federazione Luterana Mondiale e la Chiesa Cattolica».

Aprendo probabilmente un nuovo modo di leggere le due confessioni cristiane e i loro rapporti reciproci, Francesco ha aggiunto: «l’esperienza spirituale di Martin Lutero ci interpella e ci ricorda che non possiamo fare nulla senza Dio. “Come posso avere un Dio misericordioso?”. Questa è la domanda che costantemente tormentava Lutero. In effetti, la questione del giusto rapporto con Dio è la questione decisiva della vita. Come è noto, Lutero ha scoperto questo Dio misericordioso nella Buona Novella di Gesù Cristo incarnato, morto e risorto. Con il concetto di “solo per grazia divina”, ci viene ricordato che Dio ha sempre l’iniziativa e che precede qualsiasi risposta umana, nel momento stesso in cui cerca di suscitare tale risposta. La dottrina della giustificazione, quindi, esprime l’essenza dell’esistenza umana di fronte a Dio».

Quindi il papa ha concluso: «non possiamo rassegnarci alla divisione e alla distanza che la separazione ha prodotto tra noi. Abbiamo la possibilità di riparare ad un momento cruciale della nostra storia, superando controversie e malintesi che spesso ci hanno impedito di comprenderci gli uni gli altri». Per questo, Francesco ha fortemente invitato alla preghiera: «luterani e cattolici preghiamo insieme in questa Cattedrale e siamo consapevoli che senza Dio non possiamo fare nulla; chiediamo il suo aiuto per essere membra vive unite a lui, sempre bisognosi della sua grazia per poter portare insieme la sua Parola al mondo, che ha bisogno della sua tenerezza e della sua misericordia».

Vita di Joseph Ratzinger

papa-guerriero_2924663_703805di Stefano Tarocchi • Lo storico Elio Guerriero (già direttore dell’edizione italiana della rivista teologica Communio e vicedirettore editoriale delle Edizioni San Paolo) da pochi mesi ha pubblicato una biografia di Joseph Ratzinger (Servitore di Dio e dell’umanità. La biografia di Benedetto XVI, Mondadori 2016, 539 pagine più 10 di introduzione). Ha scritto anche vari libri anche per altri editori, tra cui Jaca Book, Edizioni Paoline, De Agostini e SEI: in particolare, monografie e studi su Ignazio Silone, Gianna Beretta Molla e Hans Urs von Balthasar. Di quest’ultimo ha curato l’edizione italiana delle opere.

Il volume di cui parliamo  si tratta di un lungo appassionato ritratto di Joseph Ratzinger, scritto con il piglio dello studioso di punto, che esce addirittura con la prefazione del papa Francesco e un’intervista al papa emerito, in cui spiega le sue motivazioni alle dimissioni del 2013.

Guerriero, in un’intervista alla Radio Vaticana dello scorso settembre, ha dichiarato che fu quello il «momento in cui divenne più impellente» per lui «l’esigenza di scrivere questo libro… con lo sconcerto che si diffuse un po’ nella vita della Chiesa». E significativamente aggiunse che «la decisione veniva dalla sua profonda concezione del servizio con la quale aveva affrontato il ministero petrino. E dal suo punto di vista, l’idea era molto chiara e molto semplice. Lui stava prestando un servizio: nel momento in cui non ritenesse più di avere le forze sufficienti per prestarlo, avrebbe sentito non solo il desiderio, ma il dovere di rinunciare al servizio, pur rimanendo – per quel che riguarda l’aspetto sacramentale – vescovo emerito di Roma».

Peraltro il papa Francesco nell’intervista – un unicum prezioso ed inaudito, come inaudito fu quell’atto di Benedetto, che ancora nel 1996 Giovanni Paolo II riteneva un problema, dentro e fuori la Chiesa – ricorda il «grande debito di gratitudine» della Chiesa universale a Joseph Ratzinger per la «profondità e l’equilibrio del suo pensiero teologico».

Il papa Francesco lo definisce addirittura fondamentale: e non c’è dubbio che Guerriero indaga in maniera particolarmente approfondita su di esso, ricostruendo con acribia le vicende del giovane teologo poi giovane vescovo, quindi prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede, poi eletto successore di Giovanni Paolo II, che lo aveva scelto prima come arcivescovo di Monaco – Frisinga, e poi voluto accanto a sé a Roma. Restituirne le vicende della famiglia da cui deriva, i tempi difficili della situazione storica della Germania nazista, gli studi di teologia e le ricerche che costituiranno le tappe della sua ricerca dottorale e di quella necessaria a conseguire l’insegnamento nelle facoltà statali nelle varie sedi in cui Ratzinger si è distinto. Ma anche i conflitti con i colleghi teologi, mostri sacri e no (un nome per tutti: Michael Schmaus), e l’appassionato ascolto degli studenti delle facoltà nelle quali insegna, fino alla partecipazione al Concilio Vaticano II e al ruolo avuto nella stesura delle grandi costituzioni dogmatiche. E ancora la nascita della rivista Communio, che va oltre la precedente Concilium, fondata, insieme a de Lubac e von Balthasar dallo stesso Ratzinger (che vi contribuirà con oltre 45 articoli e note) nel 1972 a sette anni dalla nascita della precedente.

Ancora Francesco nella prefazione ricorda l’udienza di congedo dai cardinali, il 28 febbraio 2013, diciassette giorni dopo aver annunciato in Concistoro l’intenzione di rinunciare «al ministero di vescovo di Roma, successore di san Pietro». Francesco rievoca che in quell’occasione Benedetto, fra l’altro, ebbe a dire: «tra voi c’è anche il futuro papa, al quale già oggi prometto la mia incondizionata reverenza ed obbedienza». Questo per evidenziare l’atteggiamento di «cordiale vicinanza spirituale» e la «fraternità» di Benedetto nel ruolo che si stava riservando nella Chiesa cattolica, senza mai cedere a pressioni indebite ed inopportune. L’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio, che ascoltò quelle parole ignaro di quello che sarebbe accaduto il 13 marzo successivo, testimonia la concordia con il papa emerito: la sua capacità di comprendere la gioia e il peso del servizio alla chiesa universale, che divengono comunione di preghiera. Papa Francesco sottolinea che questa comunione esprime plasticamente la continuità del ministero petrino, «senza interruzione, come gli anelli di una stessa catena saldati dall’amore».

Guerriero non chiede al lettore sforzi aggiuntivi, per seguirlo nel suo percorso. Non dà niente per scontato: conduce sapientemente il lettore per mano attraverso la minuziosa ricerca sugli anni noti e quelli meno noti del cammino all’interno della chiesa di Joseph Ratzinger, dall’anno della nascita (1927) al presente. La biografia assume così pieno significato: una lente preziosa per ricostruire quasi novant’anni della storia della Chiesa attraverso gli occhi di un suo insostituibile servitore.