Parabola o allegoria?

Il Mantello della Giustizia – Agosto 2017

allegoria-sacra-particolare-bambinidi Stefano Tarocchi • La liturgia delle domeniche di questa estate ci mette di fronte ad una sezione importante dei Vangeli sinottici, quella detta delle parabole. Fra l’altro nella lingua italiana dal termine greco «parabola» deriva il nostro «parola».

Ora, secondo il dizionario della Treccani, la parabola è la «narrazione di un fatto immaginario ma appartenente alla vita reale, con il quale si vuole adombrare una verità o illustrare un insegnamento morale o religioso; nell’ebraismo rabbinico la parabola era molto comune nella predicazione e nell’insegnamento e fu questa appunto la forma originale dell’insegnamento di Gesù. Il termine è riferito oggi esclusivamente alle quarantanove contenute nei Vangeli sinottici».

Contemporaneamente, secondo la stessa fonte, l’allegoria (dal greco “parlare d’altro”) è una «figura retorica, per la quale si affida a una scrittura … un senso riposto e allusivo, diverso da quello che è il contenuto logico delle parole. Diversamente dalla metafora, la quale consiste in una parola, o tutt’al più in una frase, trasferita dal concetto a cui solitamente e propriamente si applica ad altro che abbia qualche somiglianza col primo, l’allegoria è il racconto di una azione che dev’essere interpretata diversamente dal suo significato apparente».

Così leggiamo nel vangelo di Marco, dopo che Gesù ha raccontato la parabola che apre il capitolo 4: «Quando furono da soli [con Gesù], quelli che erano intorno a lui insieme ai Dodici lo interrogavano sulle parabole. Ed egli diceva loro: «A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; per quelli che sono fuori invece tutto avviene in parabole, affinché guardino, sì, ma non vedano, ascoltino, sì, ma non comprendano, perché non si convertano e venga loro perdonato». E disse loro: «Non capite questa parabola, e come potrete comprendere tutte le parabole?» (Mc 4,10-13). Qui ovviamente non è possibile affrontare tutta la complessa questione evocata dal racconto del vangelo secondo Marco, e poi confluita nei paralleli di Matteo e Luca. Vorrei invece opporre il racconto della parabola vera e propria alla sua riscrittura allegorica.

Cominciamo accostando la parabola del seme e del seminatore, così come si trova nello stesso vangelo di Marco: «Cominciò di nuovo a insegnare lungo il mare. Si riunì attorno a lui una folla enorme, tanto che egli, salito su una barca, si mise a sedere stando in mare, mentre tutta la folla era a terra lungo la riva. Insegnava loro molte cose con parabole e diceva loro nel suo insegnamento: «Ascoltate. Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; e subito germogliò perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde tra i rovi, e i rovi crebbero, la soffocarono e non diede frutto. Altre parti caddero sul terreno buono e diedero frutto: spuntarono, crebbero e resero il trenta, il sessanta, il cento per uno». E diceva: «Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!» (Mc 4,1-9; cf. Mt 13,1-9; Lc 8,4-8).

Ed ecco quindi di seguito la sua narrazione allegorica, originata dall’interrogazione dei discepoli, che «lo interrogavano sulle parabole»: «il seminatore semina la Parola. Quelli lungo la strada sono coloro nei quali viene seminata la Parola, ma, quando l’ascoltano, subito viene Satana e porta via la Parola seminata in loro. Quelli seminati sul terreno sassoso sono coloro che, quando ascoltano la Parola, subito l’accolgono con gioia, ma non hanno radice in sé stessi, sono incostanti e quindi, al sopraggiungere di qualche tribolazione o persecuzione a causa della Parola, subito vengono meno. Altri sono quelli seminati tra i rovi: questi sono coloro che hanno ascoltato la Parola, ma sopraggiungono le preoccupazioni del mondo e la seduzione della ricchezza e tutte le altre passioni, soffocano la Parola e questa rimane senza frutto. Altri ancora sono quelli seminati sul terreno buono: sono coloro che ascoltano la Parola, l’accolgono e portano frutto: il trenta, il sessanta, il cento per uno» (Mc 4,14-20; cf. Mt 13,18-23; Lc 8,11-15).

Gesù ha appena detto che ai discepoli, e ai Dodici, «è stato dato il mistero del regno di Dio; per quelli che sono fuori invece tutto avviene in parabole, affinché guardino, sì, ma non vedano, ascoltino, sì, ma non comprendano, perché non si convertano e venga loro perdonato» (Mc 4,11-12).

Il Vangelo riprende qui la parola del profeta Isaia, nel momento preciso della sua chiamata, quando davanti alla visione del Signore sul suo trono, circondato dai Serafini con sei ali ciascuno egli esclama: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti». Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato». Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!». Egli disse: «Va’ e riferisci a questo popolo: “Ascoltate pure, ma non comprenderete, osservate pure, ma non conoscerete”. Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendilo duro d’orecchio e acceca i suoi occhi, e non veda con gli occhi né oda con gli orecchi né comprenda con il cuore né si converta in modo da essere guarito» (Is 65,6-10).

La missione dell’uomo di Dio, ossia il profeta Isaia, che dovrà compiere la sua missione davanti alla sua apparente inutilità, viene trasportato all’interno del Vangelo: è Gesù che la continua.

Gesù narra del seme che ad una lettura superficiale viene gettato su suoli dalla natura differente, dovuta alla normale pratica di semina al tempo e nel luogo dove si compie la sua missione.

Questa è la parabola, che ha dunque un unico orizzonte di riferimento, dato dall’apparente vanità di una fatica, su terreni sassosi e spinosi, e sulla strada, compensata però dall’abbondanza più che straordinaria del raccolto sul terreno buono. E qui l’importanza è da collocarsi sul seme e sul seminatore: la parola che egli porta non si fa annientare da nessuna fragilità e debolezza umana: è la missione di Gesù in ogni tempo, che continua nella comunità dei credenti in lui, anche se apparentemente fallimentare.

L’allegoria che accompagna la parabola, nata anch’essa all’interno della prima generazione cristiana, si sposta su un orizzonte complementare: quello del terreno che accoglie la parola. Qui sono importanti i singoli dettagli, che infatti vengono puntualmente spiegati. Ora il terreno che la accoglie la parola è importante, ma non può fermarne la straordinaria fecondità. In altri termini, i credenti dovranno sforzarsi di diventare il terreno fecondo, quello buono, ma non potranno mai sostituire sé stessi all’azione divina che Gesù lascia come compito alla comunità dei suoi discepoli.

Il «mistero del regno di Dio», affidato ai discepoli, e in particolare ai Dodici, verrà rivelato pienamente solo alla fine dei tempi. L’azione di Gesù, prende atto dell’incomprensione delle sue parole per «quelli che sono fuori», e anche della possibile indolenza degli stessi discepoli.

In sostanza, questo «mistero» è stato nascosto mediante le parabole, non «per la loro oscurità e complicazione – come scrive un commentatore –, ma proprio per la loro semplicità…: il significato delle parabole si svela solamente a colui che capisce che hanno a che fare con il Messia Gesù». Con la venuta del suo Figlio, Dio ha stabilito che è ormai il tempo di ascoltare la sua parola. Come scrive san Paolo ai cristiani di Corinto: «Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!» (2 Cor 6,2).

Calendario Gennaio – Marzo 2018

lunedì 1 gennaio 2018 Maria SS. Madre di Dio 10:30 S. Messa
sabato 6 gennaio Epifania 10:30 S. Messa
domenica 7 gennaio Battesimo di Gesù 10:30 S. Messa
domenica 14 gennaio Tavarnelle S. Lucia al Borghetto 17:00 Apertura Visita Pastorale (Vespri)
venerdì 2 febbraio Presentazione al tempio 18:00 S. Messa
mercoledì 14 febbraio Mercoledì delle Ceneri 18:00 S. Messa
domenica 18 febbraio I dom. di Quaresima 10:30 S. Messa
martedì 20 febbraio Montespertoli 21:15 INCONTRO COI GIOVANI
martedì 27 febbraio S. Cassiano 21:15 INCONTRO COI CATECHISTI
martedì 6 marzo S. Pancrazio 21:15 INCONTRO OPERATORI PASTORALI LITURGIA
venerdì 9 marzo Romola 10:00 Visita ai Malati
sabato 10 marzo 15:30 Incontro con i ragazzi del Catechismo, COpAE, CPP
domenica 11 marzo 10:30 Eucaristia
lunedì 19 marzo S. Giuseppe  18:00 S. Messa
domenica 25 marzo Annunciazione del Signore  18:00 S. Messa
domenica 25 marzo Domenica delle Palme 10:30 S. Messa

Natale 2017

venerdì 22 dicembre Confessioni 15:30 → 17:30
domenica 24 dicembre IV di Avvento e Vigilia di Natale 10:30 S. Messa
22:00 Ufficio delle Letture 
22:30 Messa della Notte
lunedì 25 dicembre Natività del Signore 8:30 e 10:30 SS. Messe
martedì 26 dicembre S. Stefano 10:30 S. Messa
domenica 31 dicembre   10:30 S. Messa e Te Deum
lunedì 1 gennaio Maria SS. Madre di Dio 10:30 S. Messa
sabato 6 gennaio Epifania 10:30 S. Messa
domenica 7 gennaio Battesimo di Gesù 10:30 S. Messa

 

Il corpo delle lettere di Paolo

 

Rublev_Saint_Pauldi Stefano Tarocchi • Abbiamo già affrontato il tema del ruolo di Paolo nel cristianesimo delle origini. Qui vorrei affrontare, anche correndo il rischio di eccedere nei tecnicismi, il complesso problema della formazione del corpo delle lettere dell’apostolo Paolo. È lui stesso che anzitutto ci fa da guida nel segnalare la “materialità” della scrittura. Leggiamo infatti: «vi ho scritto nella lettera» (1 Cor 5,9), o il più semplice «vi ho scritto» (2 Cor 2,3.4.9). in realtà, come scopriamo dalla lettera ai Romani, a scrivere è il segretario («Anch’io, Terzo, che ho scritto la lettera, vi saluto nel Signore»: Rom 16,22), indispensabile in un tempo in cui il supporto della lettera andava usato con grande attenzione e, probabilmente, nel conservare una copia delle lettere dell’apostolo. Ma Paolo – è ancora lui a dirlo – aggiungeva il saluto di proprio pugno («Il saluto è di mia mano, di Paolo»: 1 Cor 16,21), diverso dalla scrittura di chi materialmente scriveva): «Notate con che grossi caratteri vi scrivo di mia mano» (Galati 6,11).

Anche Clemente Romano, che fu vescovo di Roma dal 92 al 97, nella lettera ai Corinzi attesta la conoscenza di 1 Corinzi nella capitale dell’impero: «Prendete la lettera del beato apostolo Paolo. Che cosa vi ha scritto per prima cosa all’inizio del suo Vangelo? In verità è sotto l’ispirazione dello Spirito che vi scrisse di sé, di Cefa, di Apollo perché anche allora voi avevate fatto delle divisioni» (Clemente ai Corinzi, 47,1-3).

Si tratta di un’allusione a 1 Cor 1,10-12: «Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire. Infatti, a vostro riguardo, fratelli, mi è stato segnalato dai familiari di Cloe che tra voi vi sono discordie. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: «Io sono di Paolo», «Io invece sono di Apollo», «Io invece di Cefa», «E io di Cristo». Ma vi si trova anche un riferimento a Fil 4,15: «Lo sapete anche voi, Filippesi, che all’inizio della predicazione del Vangelo, quando partii dalla Macedonia, nessuna Chiesa mi aprì un conto di dare e avere, se non voi soli».

Il riferimento è molto importante: significa che a Roma le lettere dell’apostolo erano già conosciute.

Anche sant’Ignazio, vescovo di Antiochia di Siria, nell’attuale Turchia (110 d.C.) attesta la conoscenza di Paolo in un’area poco aperta agl’influssi dell’apostolo. Il contemporaneo silenzio di altri scritti delle origini, come Didaché (fine del I secolo-inizi del II secolo), del Pastore di Erma (prima metà del II secolo) e del vescovo Papia di Gerapoli, l’attuale Pamukkale sempre in Turchia (seconda metà del I secolo-inizi del II secolo) è intenzionale.

Il corpo delle lettere di Paolo comincia a delinearsi nella sua interezza già a partire dalla fine del II sec. agli inizi del IV. Per sé ci si attesta con tredici lettere (quattordici secondo le tradizioni orientali, che includono anche la lettera Ebrei fra le lettere di Paolo); ma talora vi si trova anche una lettera ai Laodicesi (andata perduta, e da non confondere con la lettera agli Efesini, che in alcuni codici antichi lascia vuoto il nome dei destinatari), una lettera agli Alessandrini, una terza lettera ai Corinzi, un’epistola dello Pseudo Tito, e addirittura un epistolario Paolo-Seneca.

Il Canone muratoriano, la più antica lista conosciuta dei libri del Nuovo Testamento, risalente al 170, scoperta nell’anno 1740 da Ludovico Antonio Muratori, presbitero e bibliotecario, all’interno di un manoscritto dell’VIII secolo, elenca tredici lettere di Paolo, che, oltre alle lettere inviati ai singoli discepoli (Timoteo, Tito, Filemone), ordina in base alle sette chiese destinatarie (Roma, Corinto, Galazia, Efeso, Filippi, Colosse, Tessalonica). Questo sulla falsariga degli schemi usati anche da Ippolito Romano e da s. Cipriano, che derivano dai capitoli 2 e 3 dell’Apocalisse (con le lettere disposte secondo un itinerario geografico). Vi si trovano le lettere apocrife ai Laodicesi e agli Alessandrini, ma è assente la lettera agli Ebrei (al pari delle lettere di Giacomo e delle due lettere di Pietro), elemento che testimonia l’antichità del documento.

Un codice in papiro, esattamente uno dei papiri della collezione Chester Beatty, conservati a Dublino, ed esattamente il Papiro 46, contiene dieci lettere di Paolo, con la lettera agli Ebrei collocata tra la lettera ai Romani e 1 Corinzi. Sono assenti le tre lettere pastorali e lo scritto a Filemone. Nel caso specifico si tratta di una sorta di quaderno legato sul margine composto di 86 fogli per 172 pagine (7 fogli, ossia 14 pagine, andate perdute erano probabilmente bianche) proveniente dall’Egitto e datato intorno alla prima metà del III secolo. La scoperta sorprese i primi studiosi che esaminarono i testi, in quanto si riteneva all’epoca che tale tipo di codici non fossero stati comunemente usati dai cristiani prima del IV secolo. Questo dimostra l’uso in ambito cristiano, molto prima che si affermasse comunemente.

Solo l’eresiarca Marcione (140), secondo Tertulliano (e sant’Epifanio), elencadieci lettere dell’apostolo: Galati (priva di alcune sezioni, come quasi tutto il capitolo 3), 1-2 Corinzi, Romani (senza i capitoli1, 9-11 e 15), 1-2 Tessalonicesi, Laodicesi (che identifica con Efesini), Colossesi, Filippesi, Filemone. Mancano le più recenti Epistole Pastorali (1 e 2 Timoteo Tito) e la Lettera agli Ebrei, non è scritta da Paolo.

A tutto questo aggiungono testimonianze di Cirillo di Gerusalemme (catechesi IV del 348), il Canone 60 del concilio di Laodicea (360), la lettera 39 di s. Atanasio che parlano ancora di quattordici lettere.

Arriviamo infine al concilio plenario di tutta l’Africa, tenutosi ad Ippona nel 393, che nel Canone 36 parla delle tredici lettere dell’apostolo Paolo, più «sempre dello stesso la lettera agli Ebrei».

Il medesimo canone, che, peraltro, fa riferimento alla chiesa di Roma (chiamata transmarina Ecclesia), è attribuito anche al concilio cartaginese del 397 (chiamato anche Cartaginese III), nel Canone 47, e al concilio cartaginese del 419, nel Canone 29. Qui però si parla espressamente delle «le quattordici lettere dell’Apostolo Paolo». Un altro concilio nord-africano, il Cartaginese II del 419, dopo il papa Innocenzo I (405), parlerà ancora di quattordici lettere paoline.

In definitiva, solo il Decreto di papa Gelasio (492-496) dà la lista completa ancora di quattordici lettere dell’apostolo, in ordine decrescente di grandezza, con la lettera agli Ebrei collocata opportunamente alla fine dell’elenco, per indicarne l’origine decisamente particolare. Si tratta nella sostanza della stessa formulazione che sarà ripresa al concilio di Trento, nel decreto dell’8 aprile 1546.

In conclusione, un percorso omogeneo che dai primi decenni dell’era cristiana consegna fino a noi le lettere dell’apostolo Paolo, così come sono contenute all’interno delle Scritture cristiane.

All’interno, poi, del Nuovo Testamento la seconda lettera di Pietro, che probabilmente è da far risalire alla prima metà del II secolo, scrive: «la magnanimità del Signore nostro giudicatela come salvezza, come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; così egli fa in tutte le lettere, in cui tratta di queste cose. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina» (2 Pt 3,15-16).