Benedizioni 2018

 

giovedì 1 febbraio V. per Treggiaia [Nn. dal 104 al 116; N. 100 P]
lunedì 5 febbraio V. I Maggio – V. Verdi
martedì 6 febbraio V. dei Pini
giovedì 8 febbraio V. dei Landi – V. delle Massucce – P. Aiaccia
lunedì 12 febbraio V. della Liberazione – V. della Romola [dal n. 12]
martedì 13 febbraio V. della Poggiona – Canigiana e Valline [Via di Treggiaia] – Pintello – Molino di Sugana  – Ragli [V. Volterrana]
lunedì 19 febbraio Tattoli e Fonte Antica – Monteprimo – Drappi –  Gabbiola [Cetine – Farnia – Golli]
giovedì 22 febbraio  V. per Treggiaia [n. pari  fino al 102] – V. Fratta – V. Mozza
lunedì 26 febbraio P.zza IV Novembre – V. Corta – P.zza Peschi – V. della Chiesa 
giovedì 1 marzo V. per Treggiaia  [Nn. Dispari] – V. per Cerbaia
ore 15:00 È possibile concordare un orario differente

 

«Il Vangelo, potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede»

Il Mantello della Giustizia – Gennaio 2018

accordo_augustadi Stefano Tarocchi • Nel numero scorso ho affrontato il formarsi del corpo delle lettere di san Paolo e la loro diffusione. Ora, vorrei fare emergere l’importanza della lettera ai Romani. Si tratta dell’unica lettera che l’apostolo indirizza ad una comunità non fondata da lui stesso, mentre, alla fine del suo an­nuncio evangelico in Oriente, si trova a dover risolvere il confronto con la chiesa di Gerusalemme nel suo diritto di an­nunciare legittimamente il Vangelo alle chiese di origine pa­gana.

Scrive Paolo: «fui impedito più volte di venire da voi. Ora però, non trovando più un campo d’azione in queste regioni e avendo già da parecchi anni un vivo desiderio di venire da voi, spero di vedervi, di passaggio, quando andrò in Spagna, e di essere da voi aiutato a recarmi in quella regione, dopo avere goduto un poco della vostra presenza. Per il momento vado a Gerusalemme, a rendere un servizio ai santi di quella comunità; la Macedonia e l’Acaia infatti hanno voluto realizzare una forma di comunione con i poveri tra i santi che sono a Gerusalemme. L’hanno voluto perché sono ad essi debitori: infatti le genti, avendo partecipato ai loro beni spirituali, sono in debito di rendere loro un servizio sacro anche nelle loro necessità materiali. Quando avrò fatto questo e avrò consegnato sotto garanzia quello che è stato raccolto, partirò per la Spagna passando da voi» (Rom 15,22-28).

Paolo, in concreto, vorrebbe avere dalla Chiesa di Roma l’avallo a questa missione in Spagna, che molto probabilmente non si è mai realizzata. Ma nel suo scritto, uno dei più densi che ci lascia, egli muove da un’affermazione sconvolgente: Giudei e pagani godono dello stesso di­ritto davanti al Vangelo, perché partecipano ugualmente della salvezza di Cristo, attraverso la fede: «Io non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco. In esso infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: “Il giusto per fede vivrà” (Rom 1,16-17).

In questi due versetti della lettera ai Romani viene peraltro enunciato il tema centrale della lettera: la manifestazione della «giustizia di Dio». Detto tema verrà sviluppato sotto due aspetti: dapprima al ne­gativo, in 1,1-3,20, centrato sul tema dell’«ira di Dio», e poi, al positivo, in 3,21-31, sulla giustizia vera e propria.

Scrive Romano Penna: «l’affermazione di fondo è che non c’è differenza fra pagani e giudei quanto al peccato, nel quale tutti gli uomini sono accomunati». Nonostante questo egli «non in­tende tanto dimostrare l’universale peccaminosità degli uomini (…) Ciò che preme a Paolo di dire e che doveva certamente apparire inaudito è che perfino i Giudei non si sottraggono a questa condizione e che perciò essi non hanno titoli particolari da accampare davanti a Dio e agli altri uomini, tali da costituirli in una condizione religiosa privilegiata». Di fatto Giudei e pagani godono dello stesso di­ritto davanti al Vangelo, perché partecipano ugualmente della salvezza di Cristo, attraverso la fede (cfr. 1,16-17).

Detto questo, vorrei indirizzare lo sguardo alla Dichiarazione congiunta luterano-cattolica sulla dottrina della giustificazione, pubblicato nel 1999 con la firma del card. Joseph Ratzinger, quasi ad anticipare la commemorazione dei cinquecento anni della Riforma di Martin Lutero, datata al 1517.

Tale testo pur movendo dall’affermazione che «nelle Lettere paoline il dono della salvezza è evocato in diversi modi: fra altro, come «liberazione in vista della libertà» (Gal 5,1-13 ; cfr. Rom 6,7), «riconciliazione con Dio» (2 Cor 5,18-21 ; cfr. Rom 5,11), «pace con Dio» (Rom 5,1), «nuova creazione» (2 Cor 5, 17), come «vita per Dio in Cristo Gesù» (Rom 6,11.23) o «santificazione in Cristo Gesù» (cfr. 1 Cor 1,2 ; 1,30 ; 2 Cor 1,1)», aggiungeva che «tra queste descrizioni ha un posto di spicco quella della «giustificazione» del peccatore nella fede per mezzo della grazia di Dio (Rom 3,23-25), che è stata più specialmente messa in evidenza all’epoca della Riforma».

E così proseguiva: «Paolo descrive il Vangelo come forza di Dio per la salvezza dell’uomo in preda al potere del peccato: come messaggio che proclama la «giustizia di Dio che si rivela mediante la fede e in vista della fede» (Rom 1,17-18) e dà la «giustificazione» (Rom 3,21-31). … Nella morte e risurrezione di Cristo si radicano tutte le dimensioni della sua opera salvifica, poiché egli è il «nostro Signore, il quale è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione» (Rom 4,25). Tutti gli esseri umani hanno bisogno della giustizia di Dio, poiché «tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio» (Rom 3,23; cfr. Rom 1,18 – 3,20; 11,32; Gal 3,22)» (Dichiarazione congiunta 9-10).

Lo stesso tema della «giustificazione», viene ripreso nel medesimo documento approfondendo la distinzione operata dalle teologie luterana e cattolica: «secondo il modo di comprendere luterano, Dio giustifica il peccatore solo nella fede (sola fide). Nella fede, l’uomo confida totalmente nel suo Creatore e Salvatore ed è così in comunione con lui. Dio stesso fa scaturire la fede suscitando tale fiducia con la sua parola creatrice. Poiché questo agire di Dio è una nuova creazione, essa riguarda tutte le dimensioni della persona e conduce a una vita nella speranza e nell’amore. Pertanto, l’insegnamento della «giustificazione soltanto per mezzo della fede» distingue, senza tuttavia separarli, il rinnovamento della condotta di vita, necessariamente conseguenza della giustificazione, e senza la quale non vi sarebbe la fede, dalla giustificazione stessa» (Dichiarazione congiunta 26).

E, comunque, «anche secondo il modo di comprendere cattolico la fede è fondamentale per la giustificazione; infatti, senza di essa non può esservi giustificazione. L’uomo, in quanto colui che ascolta la parola e crede, viene giustificato mediante il battesimo. La giustificazione del peccatore è perdono dei peccati e realizzazione della giustizia attraverso la grazia giustificante che fa di noi dei figli di Dio. Nella giustificazione i giustificati ricevono da Cristo la fede, la speranza e l’amore e sono così accolti nella comunione con lui. Questa nuova relazione personale con Dio si fonda interamente sulla sua misericordia e permane dipendente dall’azione salvifica e creatrice di Dio misericordioso, il quale rimane fedele a sé stesso e nel quale l’uomo può quindi riporre la propria fiducia. Pertanto, l’uomo non potrà mai appropriarsi della grazia giustificante né appellarsi ad essa davanti a Dio» (Dichiarazione congiunta 27).

Paradossalmente quell’interpretazione di Paolo che ha potuto dare origine a cammini diversi, è il punto da cui riprendere un comune cammino cristiano, tanto più attuale in tempi come i nostri. Prendendo in prestito, non a caso, la liturgia della festa dell’esaltazione della croce, si potrebbe concludere che «donde sorgeva la morte di là risorge la vita».

Paolo e il cristianesimo delle origini

Il Mantello della Giustizia – Novembre 2017

Decapitación_de_San_Pablo_-_Simonet_-_1887di Stefano Tarocchi • È sicuramente possibile tracciare un quadro generale del cristianesimo primitivo a partire da Paolo. Nella scuola esegetica che si sviluppò presso l’Università di Tubinga (Baden-Württemberg) verso la metà del XIX secolo, dove sotto la guida del teologo Ferdinand Christian Baur, vicino alle posizioni di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, si produsse una discussa corrente di ermeneutica biblica. All’interno di quest’ultima fu elaborato il concetto di «paolinismo» per definire nell’insieme il pensiero di Paolo, il «cristianesimo-etnico», in opposizione al «petrinismo», vicino al «giudeo-cristianesimo». All’origine si trattava di due movimenti complementari, ma successivamente la visione di Paolo finì per prevalere.

Questa ricostruzione, che manifesta l’intento di costruire sistematicamente il pensiero di Paolo a partire dalle sue lettere, non è tuttavia immune da una preoccupazione intellettualistica, peraltro fuori luogo: le lettere di Paolo non sono state costruite a tavolino.

È maggiormente corretto sostenere, invece, che il pensiero di Paolo, nella complessità con cui si presen­ta, ha un ruolo tutto particolare nell’orizzonte neotestamentario.

Si inizia nel periodo del primo cristianesimo post-pasquale che precede la conversione e la forma­zione cristiana del fariseo Saulo, un arco temporale molto limitato, dovendo misurare l’intervallo fra la morte di Cristo e l’evento di Damasco compreso fra i tre e i cinque anni. Questo tuttavia che riveste una particolare importanza, in quanto proprio in esso si manifesta la prima testimonianza dei discepoli e prendono forma i primi tentativi di enunciare in forma scritta la fede cristiana. In altre parole, prende l’avvio quel nucleo di tradizione che poi l’epistolario paolino terrà particolarmente presente (cf. 1 Cor 15,3-5; Rom 1,3b-4a).

Ma, naturalmente, il cristianesimo non è riconducibile al solo Paolo, per quanto predominante possa essere la sua personalità. Si definisce così il concetto dell’«apaolinismo», che definisce quei testi che non risentono dell’influsso dell’apostolo: nel canone neotestamentario è rappresentato dal corpus giovanneo e dalla lettera agli Ebrei, sia pure con i problemi che questi scritti pongono. È un percor­so che si prolungherà fino al II secolo, comprendendo al suo interno anche scritti come la Didaché, la lettera di Barnaba, il Pastore di Erma e l’opera di Papia di Gerapoli.

Un terzo fronte, l’«antipaolinismo», è rappresentato fondamentalmente dal giudeo-cristianesimo, che combina i due poli, ritenuti da Paolo incompossibili, della fede nel Messia Gesù e dell’osser­vanza della legge. Esso può essere talora acuito dalla presenza al suo interno di un filone che tende a travisare il paolinismo; ma questa chiave di lettura sarebbe troppo generosa. Di fatto, non di travisamento si tratta, quanto di un’opposizione dell’ala cosiddetta più tradizionalista, e più ortodossa dal punto di vista giudaico, all’interno della chiesa primitiva. Tale opposizione si verifica in maniera tanto più profonda quanto più trascorre il tempo e si succedono le varie generazioni. Lo stesso Paolo lo testimonia nei suoi scritti: cf. 2 Cor 11,13.26 («falsi aposto­li»; «falsi fratelli»); Fil 3,2 («cattivi operai»); Rom 16,17 («coloro che provocano divisioni e ostacoli»).

A proposito della letteratura neotestamentaria, si può ritrovare come testo chiave di questa tendenza probabilmente la stessa lettera di Giacomo; ma più avanti avrà altre manife­stazioni, come ad esempio le lettere Pseudoclementine.

Prescindendo dal libro degli Atti degli Apostoli, che per più della metà è dedicato alla figura di Paolo e che nessuno metterebbe in relazione con la diretta teologia dell’apostolo, conosciamo sotto il nome di questi tredici lettere, di cui sette vengono considerate autentiche dalla gran parte degli studiosi (nell’ordine canonico: Rom, 1-2 Cor, Gal, Fil, 1 Ts, Fm) e sei non autentiche, ovvero pseudoepigrafiche (Ef, Col, 2 Ts, 1-2 Tm, Tt), senza minimanente intaccare la loro appartenenza al canone del Nuovo Testamento.

Il primo gruppo di lettere riflette il sistema di pensiero originale dell’apostolo: è il «paolinismo di origine». Il secondo gruppo riflette invece il pensiero dei discepoli di Paolo, in cui il suo contributo è dunque unito a vari livelli con il contributo di tali discepoli. Pertanto, sarà denominato «scuola paolina», o anche, «paolinismo di tradizione».

L’importanza dell’apostolo risulta da tutti i testi che abbiamo citato (oltre al libro degli Atti, cf. 2 Pt 3,15-16; 1 Clem 5). Su Paolo pos­sediamo una tale abbondanza di notizie che non ha assolutamente pari nel Nuovo Testamento: né su Pietro, né su Maria di Nazareth, e a questo livello neanche su Gesù Cristo, esiste una tale messe di dati

Paolo ha compiuto un’attività missionaria che non ha confronto nel primo secolo, e per molti dei secoli avvenire. La testimonianza più grande al proposito si ha, forse, nell’epilogo della lettera ai Romani: «da Gerusalemme e dintorni fino all’Illiria (il sud dell’attuale Albania), ho portato a termine la predicazione del Vangelo di Cristo (Rom 15,19)». Tale predicazione si spinse nella stessa Roma, che l’apostolo sembra considerare co­me tappa intermedia del suo progetto di recarsi in Spagna (cf. Rom 15,24).

La produzione letteraria di Paolo, esclusivamente epistolare, favorisce il colloquio che una lettera impone. Essa può considerarsi favorita non solo dalla sua formazione rabbinica, ma anche dall’ambiente ellenistico di provenienza; infine, e soprattutto dalla necessità pastorale di prolungare il rapporto con le comunità da lui fondate. Di qui il carattere occasionale delle lettere, la cui importanza non risiede tanto nel livello letterario, quanto nella documentazione sulle chiese destinatarie e sulla personalità, ad un tempo umana e teologica, del loro autore.

L’ultimo momento, quello del «paolinismo di tradizione», nasce dal fatto che il pensiero dell’apostolo ebbe un tale seguito da lasciare dietro di sé una tradizione, una scuola, di cui si fanno portavoce anonimi discepoli di Paolo. Pur nella differenza che, di fatto, s’instaura, si può notare il richiamo costante all’unico maestro. Così Paolo può essere considerato come depositario di un carisma, forse superiore a quello di Pietro, nel favorire un’ampia unità ecclesiale, che costruisce insieme chiese molto diverse e molto distanti fra di loro, che pure si rifanno all’apostolo.

I sentieri principali di questo percorso sono essenzialmente due: il primo, che parte da Colossesi e passando attraverso Efesini giunge a sfociare nello gnosticismo del II secolo; il secondo che parte dalle lettere pastorali e si sviluppa nel successivo ordinamento ecclesiastico della grande chiesa.

Per semplificare, uno conduce all’eresia, l’altro all’ortodossia.

«Simone Bar-Jonah», ossia «Simone, figlio di Giovanni»?

Il Mantello della Giustizia – Settembre 2017

«Simone Bar-Jonah», ossia «Simone, figlio di Giovanni»?

5213-5539856473_1f0d51c506_bdi Stefano Tarocchi • La pagina della liturgia festiva che, secondo l’evangelista Matteo, racconta la professione di fede dell’apostolo Pietro, avvenuta «nella regione di Cesarèa di Filippo» (Mt 16,13; o nei villaggi intorno alla città, come dice il vangelo di Marco: Mc 8,27), aggiunge alla professione di fede le parole di Gesù: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,17-19).

La città dove questi eventi si svolgono, già dedicata al dio Pan (oggi tale caratteristica si ritrova nel nome attuale Banyas) era già stata annessa nel 20 a.C. al regno di Erode il Grande, era stata fondata nel III secolo a.C. Il tetrarca Erode Filippo, dopo che il padre aveva fatto costruire un tempio dedicato ad Augusto, sullo stesso sito fonda una nuova città, dedicata all’imperatore Tiberio: viene chiamata Cesarea di Filippo per distinguerla dalla città di Cesarea Marittima, anch’essa fondata da Erode il grande in onore dell’imperatore Augusto.

È significativo in questo testo il nome con cui Gesù chiama l’apostolo, che precedentemente era rammentato come «Simon Pietro» (Mt 16,16). Troviamo questi due nomi accostati in Lc 5,8; Gv 1,40; 6,8.68; 13,6.9.24.36; 18,10.15.25; 20,2.6; 21,2.3.7.11.15; 2 Pt 1,2.

Il solo Vangelo di Marco sembra distinguere con maggiore accuratezza riguardo all’apostolo, tra l’antico nome di Simone e quello che Gesù gli assegna nella scelta dei Dodici. Così abbiamo: «Simone, al quale impose il nome di Pietro» (Mc 3,16). Qualcosa di analogo troviamo anche in Luca («Simone, al quale diede anche il nome di Pietro»: Lc 6,14), ma non in Matteo, che ha semplicemente «Simone, chiamato Pietro» (Mt 10,2). E del resto il Vangelo di Matteo aveva esordito con la chiamata dei primi due discepoli, ricordando Gesù, che quando: «camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello (Mt 4,18). E da quel momento in poi sarà sempre “Pietro”, eccetto che in Mt 16,16 (Mt 8,14; 14,28.29; 15,15; 16,22.23; 17,1.4.24; 18,21; 19,27; 26,33.35.37.40.58.69.73.75). Nel solo quarto Vangelo troviamo una variante significativa: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro» (Gv 1,42).

Peraltro, questa forma aramaica si ritrova altrove solo nelle lettere di Paolo (1 Cor 3,22; 9,5; Gal 2,9.11): di fatto aveva finito per prevalere l’altra forma, prima greca e poi latina: Petros / Petrus, e che è passata nelle lingue moderne. Ora Petros significa esattamente “pietra”, e non “roccia” (dovremmo usare il femminile), come ci si potrebbe maggiormente aspettare: ma il vangelo di Matteo introduce un gioco di parole, per cui è verosimile che i due termini acquistino il medesimo significato.

Nel Vangelo di Marco sostituisce l’uso di Simone dalla chiamata in avanti, compresa la professione di fede, eccetto che in Mc 14,37, quando Gesù, che si trovava nel Getsemani: «venne, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora?».

Si tratta sempre del medesimo apostolo, ma Gesù, significativamente, lo chiama Simone, come a richiamare un tradimento della scelta stessa che lo ha inserito nel gruppo dei Dodici.

Ma torniamo alla professione di fede: Gesù si rivolge all’apostolo chiamandolo «Simone, figlio di Giona»; è l’unica volta che Gesù si esprime in questo modo. Va detto subito che il testo originale riporta il ricalco aramaico «Barjonah», o in alcuni codici «Bar-Jonah»: entrambi non si trovano altrove nelle Scritture. La traduzione italiana usa quest’ultimo modo e lo rende come patronimico (nome del padre): «figlio di Giona». Si incontrano infatti nei Vangeli nomi come «Bartimeo» (Mc 10,46: «il figlio di Timeo, Bartimeo»), oppure «Bartolomeo» (Mc 3,18; Mt 10,3; Lc 6,14; At 1,13), o addirittura un Bar-Iesus (At 13,46) ed altri.

Ora, pare che al tempo di Gesù (Gnilka), il nome del profeta Giona non fosse più in uso. «Jonah» infatti potrebbe essere la rara abbreviazione di “Johanan”, «Giovanni». Nel quarto vangelo abbiamo la riprova di una verosimiglianza: «Simone, figlio di Giovanni» (Gv 1,42; 21,5.16.17).

Quello che è certo è che la professione di fede pronunciata da Pietro in una forma così completa («Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16), che Gesù impone ai discepoli di non divulgare nelle sue implicazioni («ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo»: Mt 16,20) si fonda sulla rivelazione divina e non è frutto della sua umanità o delle sue capacità («né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli»: Mt 16,17). Nonostante, ed oltre i suoi fallimenti, soprattutto durante la passione, nonostante i suoi dubbi e la sua poca fede («Uomo di poca fede, perché hai dubitato?»: Mt 14,31; cf. 28,17), egli è e rimane la roccia della Chiesa del Cristo, colui che garantisce che la sua professione di fede è situata all’interno della rivelazione del Padre.