Ripensare il Gesù storico

Ripensare il Gesù storico

Il Mantello della Giustizia – Luglio 2018

meierdi Stefano Tarocchi • «Molta gente nel mondo occidentale, assai istruita, fra cui molti sinceri non credenti, spesso solleva domande sulla realtà storica del Gesù annunciato dalla Chiesa… Non impegnarsi con questi seri ricercatori in campo storico a livello accademico sarebbe venire meno a un nostro dovere nei loro confronti, e lascerebbe molti cattolici istruiti a interrogarsi sui fondamenti storici della loro fede». Così si è espresso recentemente lo studioso americano John Paul Meier, l’autore della nutrita serie di saggi pubblicati in Italia con il titolo Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico.

C’è il rischio di evidenziare la tendenza a ridurre o trasformare Gesù in un simbolo mitico o in un archetipo senza tempo. Al fine di difendere la divinità di Cristo c’è il pericolo di oscurare o trascurare la vera e piena umanità di Cristo, compresa la sua appartenenza all’ebraismo.

Ora sappiamo che i vangeli non sono nati in provetta: tutti gli scritti che portano questo nome, perfino i vangeli apocrifi, lasciano trapelare un rapporto con l’oggetto a cui si riferiscono: Gesù Cristo. Di conseguenza, possiamo affermare che «ciò che oggi si possiede sono i ricordi dei primi discepoli, non Gesù stesso ma Gesù ricordato» (Dunn). E ciò non è un punto di scarso rilievo.

Questo non significa che debbano esserci differenze, come una certa ricerca presuppone, tra il «Gesù della storia» e il «Cristo della fede» (altri preferiscono dire: «Gesù della fede»).

Non è infatti privo di significato che quel termine che in breve trattiene il senso della predicazione cristiana, («Vangelo»), a partire dallo stesso esordio del vangelo di Marco, e addirittura dalle prime parole che tale vangelo pone sulle labbra di Gesù («dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo»), assume il suo senso definitivo nei quattro libretti di Marco, Matteo, Luca e Giovanni, i quattro vangeli canonici.

Prima ancora che essere un libro e della stessa predicazione di Gesù, il Vangelo è lui medesimo, ed è in lui che si genera il movimento che dai suoi discepoli condurrà a predicare di lui e quindi a scrivere di lui.

Così per Gesù Cristo, le cui notizie storiche difficilmente hanno un riscontro serio al di là dei quattro libri di Matteo, Marco e Luca e Giovanni. E ciò è realmente gravido di conseguenze. Questo elemento è talmente importante che ancora il Meier «il lettore che volesse conoscere il Gesù reale dovrebbe chiudere questo libro immediatamente perché il Gesù storico non è il Gesù reale né la facile via che a lui conduce. Il Gesù reale non è accessibile e non lo sarà mai».

Si può aggiungere che fra gli altri personaggi dell’antichità, ad esempio Gesù e Simon Pietro, per noi oggi sono semplicemente non accessibili con la ricerca storica né mai lo saranno. Significativamente si evidenzia la situazione paradossale di Paolo di Tarso e di Ignazio di Antiochia, perché nelle lettere che hanno lasciato – rispettivamente, le tredici lettere del canone neotestamentario attribuite a Paolo (le sette lettere autentiche e le sei pseudoepigrafe, secondo la gran parte degli studiosi), e le sette lettere che sono attribuite al martire originario di Antiochia (Efesini, Magnesi, Tralliani, Filadelfiesi, Romani, Smirnesi, Policarpo) – sono più accessibili allo storico moderno più che Gesù stesso e l’apostolo Pietro.

Perciò fuori discussione che qualunque ricerca su Gesù non possa prescindere dai Vangeli. Tutte le fonti esterne, a cominciare da quelle conservateci negli scritti del Nuovo Testamento, fino a quelle extrabibliche, come quelle riferite dagli storici dell’antichità (ad esempio Svetonio, Tacito), non ci trasmettono se non elementi assai scarsi, o totalmente esterni a quella vicenda che in una qualche maniera, sicuramente mediata dalla testimonianza dei primi discepoli, quelli che – sono le parole che Pietro pronuncia a Cesarea nella casa del centurione Cornelio – sono «i testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti. E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio».

Non va trascurato poi che «è stata la fede ad assicurare Gesù alla storia, dato che nessuno che non fosse stato suo discepolo si interessò minimamente a lui e tantomeno a tramandarne la memoria». Anche «il fatto dell’anonimato dei Vangeli è molto importante: l’autore si nasconde dietro la figura di Gesù, protagonista del racconto, oltre che dietro la rispettiva comunità cristiana, di cui si fa porta parola» … «è come se contasse soltanto l’immagine di Gesù che essi trasmettono» (Penna).

 

 

 

 

 

 

La data della Cena di Gesù avanti la Passione

Il Mantello della Giustizia – Giugno 2018

lastsupdi Stefano Tarocchi • La cena di Gesù con i discepoli prima della passione è narrata in cinque differenti testi neotestamentari: oltre ai tre racconti dei Sinottici e a Giovanni (in cui mancano però le parole sul pane e sul calice del vino), appare infatti nel testo della prima lettera di Paolo ai Corinzi.

Quest’ultima, che precede letterariamente la stesura dei primi tre vangeli, parla esplicitamente di «Cena del Signore», è comunque strettamente collegata alla medesima tradizione che ritroviamo nel III Vangelo, connessa alla città di Antiochia di Siria. I testi di Marco e Matteo sono i testimoni della tradizione più antica, legata alla liturgia della chiesa di Gerusalemme. Riguardo allo svolgimento temporale della celebrazione pasquale esistono varie interpretazioni.

C’è anzitutto chi sostiene semplicemente che Gesù avrebbe celebrato la Cena eucaristica secondo il rito pasquale giudaico. È quanto sembrano indicare i Sinottici (così Mc 14,12: «il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: “Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua). Ma ciò è contraddetto da Giovanni, secondo cui i Giudei hanno celebrato la cena pasquale la sera del venerdì, il giorno della preparazione della festa («era la parasceve della Pasqua»: Gv 19,14). Quell’anno – quasi certamente il 30 dell’era cristiana – la Pasqua coincideva con il sabato: secondo il calendario ufficiale la parasceve, ossia “preparazione”, era il 14 del mese di Nisan, l’ultimo giorno prima del plenilunio successivo all’equinozio di primavera. Dice ancora Giovanni: «venuti da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua… Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso» (Gv 19,33-34.36).

Altri sostengono che Gesù avrebbe celebrato la Pasqua secondo un calendario non ufficiale, ad esempio il calendario solare di Qumran, in contrapposizione al calendario lunare ufficiale. Questo permette anche di supporre una cronologia lunga degli eventi della passione, ad esempio collocando la Cena, il martedì, e tutti gli eventi fino alla morte di Gesù: i due processi, la condanna a morte, e così via.

Altri dicono infine, e anch’io fra questi, che Gesù avrebbe istituito l’Eucaristia durante una cena di addio, «prima della festa di Pasqua» (Gv 13,1)». Il testo del vangelo di Marco, al pari di quello di Luca, fa riferimento anche ad una «stanza interna» posta al «piano superiore» di un’abitazione, dalle dimensioni notevoli. Così, il banchetto di Gesù con i suoi discepoli, «a meno che la casa non fosse realmente enorme, prevede uno svolgimento riservato a Gesù e ai discepoli, in un tempo diverso dalla Pasqua: il che avrebbe richiesto la presenza anche della famiglia dell’ospite, anche se in altro luogo della casa». Pertanto, «Gesù scelse di fare un banchetto serale con i suoi seguaci più stretti nella casa di qualche sostenitore benestante di Gerusalemme il giovedì verso il tramonto, quando cominciava il quattordicesimo giorno di Nisan, il primo mese di primavera. La cena, benché non fosse un banchetto pasquale e non fosse celebrata come sostitutiva del banchetto pasquale, fu nondimeno qualcosa di più che non un normale banchetto» (così J. P. MEIER).

Il compimento al rito giudaico viene realizzato soltanto con la sua morte sacrificale, e non tanto con la Cena. In questo caso gli evangelisti vi avrebbero proiettato la loro fede confermata dalla risurrezione.

Prima ancora della cena avanti la Passione, il gesto di spezzare il pane appartiene alla tradizione di Gesù. I Vangeli raccontano, ad esempio, che «prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla» (Lc 9,16). Esso suscita la fede dei due discepoli di Emmaus, i quali, davanti agli Undici raccontano «come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane (Lc 24,35). Come scrive ancora Paolo ai Corinzi: «il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo» (1 Cor 10,16-17).

In quella vigilia della Pasqua resa nuova da Gesù, l’atto di condividere una cena, con i discepoli, è l’annuncio che la morte che seguirà di lì a poco, è la manifestazione di ciò che dice Giovanni: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine (Gv 13,1)».

Anche gli altri tre Vangeli lo confermano con chiarezza. Così Luca, all’inizio della cena, prima e dopo il calice iniziale: «ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio… da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio”» (Lc 22,15.18). O, subito dopo le parole sul calice, come dice anche Marco («In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio»: Mc 14,25) e anche Matteo («Io vi dico che d’ora in poi non berrò di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi, nel regno del Padre mio» (Mt 26,29).

 

 

 

 

«Preti senza battesimo?»

Il Mantello della Giustizia – Maggio 2018

2839f8e7-c609-4d36-85b1-70aec25f07bedi Stefano Tarocchi • L’autore di questo denso seppur breve saggio di 156 pagine, uscito di recente per i tipi delle edizioni San Paolo, fratel MichaelDavide Semeraro, così avverte i suoi lettori, che hanno affrontato il suo pensiero dal titolo eloquente: «nel percorso di queste pagine non si può trovare nessuna soluzione, ma solo qualche provocazione che non vuole giudicare né, tantomeno destabilizzare. L’intento è semplicemente – si fa per dire – quello di pensare in modo sempre più ampio». E quindi aggiunge: «siamo solo agli inizi di un cammino, che però non possiamo più rimandare e in cui dobbiamo appassionatamente coinvolgerci non semplicemente per limitare i danni, ma per ampliare le opportunità di crescita e di testimonianza, serenamente diversi e coraggiosamente nuovi». L’autore è monaco dal 1983 e vive nella “Koinonia de la Visitation” a Rhêmes-Notre-Dame in Val d’Aosta.

La suggestione del titolo («Preti senza battesimo? Una provocazione, non un giudizio») era già stata affrontata nella lucida prefazione scritta dal vescovo emerito di Ivrea Luigi Bettazzi, sulla scia di Lumen Gentium (ma anche di Presbyterorum Ordinis!): «nella Chiesa non sono i fedeli in subordine alla gerarchia, ma è questa al servizio del popolo di Dio: il presbitero non deve sentirsi in primo luogo il capo a cui tutti i battezzati devono sentirsi subordinati, ma piuttosto deve sentirsi destinato dal sacramento dell’ordine (che è estensione del sacramento del battesimo) a porsi al servizio dei battezzati; e poiché anch’egli è fondamentalmente un battezzato, dovrà curare la sua crescita umana» in tutti gli aspetti che la compongono: l’avverbio usato da Bettazzi («fondamentalmente») va inteso nel suo senso più specifico.

Una Chiesa che sta attraversando un tempo di grandi cambiamenti, che sperimenta non tanto scandali inusitati al suo interno quanto modalità totalmente nuove di affrontarli, secondo fratel MichaelDavide deve cominciare a riappropriarsi del valore fondante del battesimo. La stessa terminologia in uso per definire normalmente il ministero ordinato dovrebbe far riflettere.

Qui ci aiuta inevitabilmente quella straordinaria “omelia” che il canone ispirato degli scritti del Nuovo Testamento colloca dopo le lettere di san Paolo, di fatto trasformandola in epistola vera e propria: la lettera agli Ebrei. Colui che secondo la legge mosaica non era sacerdote, il Cristo – ma lo era il suo precursore, Giovanni il Battista, che inopinatamente sceglie la strada del deserto anziché seguire le orme del padre, Zaccaria – diventa l’unico vero sacerdote: «nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchìsedek» (Ebrei 5,7-10).

Gesù, «reso perfetto» (ossia diventato sommo sacerdote: il verbo greco traduce l’ebraico “riempire le mani”, tipico della consacrazione del sacerdote levitico) in quanto «è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato» (Eb 4,15), perfeziona – cioè dona il sacerdozio – all’intero popolo di Dio.

Così ancora scrive la lettera agli Ebrei: «ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati. Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati» (Eb 10,11-14). Fondamentalmente lo scritto agli Ebrei, che non dimentichiamolo, doveva servire per istruire alla fede in Cristo i sacerdoti dell’antica alleanza che avevano abbracciato la nuova fede, desacralizza di fatto il ministero.

Fratel MichaelDavide fa risalire a questo impatto, e a quello di un certo mondo pagano che si convertì al Vangelo, quel rovesciamento che rende il ministero quasi esclusivamente concepito come chiamata divina (la “vocazione”), anziché servizio (“diakonia”): va allora operata quella rivoluzione copernicana che pone il ministero istituito al servizio del battesimo e non sopra di esso.

Si tratta di una vera e propria deposizione del sacro che, secondo l’autore, fa ritrovare al ministero la sua dimensione più umana: la lettera agli Ebrei parla chiaramente dell’antica alleanza quando dice che «ogni sommo sacerdote, infatti, è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per sé stesso, come fa per il popolo. Nessuno attribuisce a sé stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne» (Eb 5,1-4).

Ora, è significativo che queste parole che introducono al sacerdozio di Gesù, il Figlio che «imparò l’obbedienza da ciò che patì», ed in pari tempo esprimono una radicale contestazione del sacerdozio dell’antica alleanza, vengono adoperate in riferimento al ministero della nuova alleanza.

Questo significa situare quest’ultimo su di un fallimento fino dalla sua costituzione, dimenticando invece il forte richiamo a Melchisedek, sul cui sacerdozio di fonda quello di Cristo.

È così che Paolo, che nella lettera ai Romani scrive, parlando dell’offerta sacerdotale della vita, propria di ogni cristiano, così scrive: «vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rom 12,1-2).

Il sacerdozio del popolo di Dio, ossia il sacerdozio battesimale, rende consacrata al Signore la vita stessa di ogni credente: è qui che si innesta e si perfeziona il ministero istituito.

Desacralizzandone la portata – e quindi la persona che lo riceve – dona a quest’ultimo il suo specifico significato, e questo attraverso una rivalutazione senza pari del battesimo. Come dice Papa Francesco: «mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, “la classe media della santità”» (Gaudete et exultate, 7).

 

 

 

Il racconto della risurrezione di Marco: quale finale?

Il Mantello della Giustizia – Aprile 2018

sepolcro-vuotodi Stefano Tarocchi • La liturgia della Veglia Pasquale dell’anno “B”, l’anno in corso, riferisce il testo del racconto della risurrezione del vangelo secondo Marco. La pericope riporta fra l’altro le parole seguenti: «[Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salome] entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: “Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”» (Mc 16,5-7).

Il racconto di Marco però aggiunge un ulteriore versetto, parte integrante del testo evangelico, che nella liturgia dell’anno “B” è però sorprendentemente omesso: «esse uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite» (Mc 16,8).

È vero che il racconto di Marco si completa con i versetti 9-20 del medesimo capitolo, una «reliquia autentica della prima generazione», lontana comunque dallo stile narrativo ed espressivo del secondo vangelo. Si tratta di quella che è chiamata la “finale canonica”. Questi versetti, peraltro, sono assenti nei codici maiuscoli Sinaitico e Vaticano, e si trovano solo in codici come l’Alessandrino, quelli di Efrem il Siro, di Beza, di Washington e il codice Koridethi. Qui in effetti la tradizione manoscritta del testo marciano è molto complessa. Forse, come alcuni hanno sostenuto, per qualche motivo la prima generazione cristiana sentì il bisogno di compensare l’originale chiusura dell’evangelista, secondo alcuni andata perduta.

Nel testo troviamo anche un’altra aggiunta – una specie di versetto 8 bis –, omessa dai codici più importanti e comunque estranea al linguaggio dell’evangelista: «esse raccontarono in breve ai compagni di Pietro ciò che era stato loro annunciato. In seguito, Gesù stesso fece portare da loro, dall’oriente fino all’occidente, il messaggio sacro e incorruttibile della salvezza eterna. Amen».

Un’ulteriore integrazione, dello stesso tenore della precedente, contenuta nel solo codice di Washington, si trova tra i versetti 14 e 15: «[gli Undici, rimproverati per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto (Mc 16,14] addussero a propria difesa: «Questo secolo d’ini­quità e d’incredulità è sotto il dominio di Satana, il quale non permette che ciò che è sotto il giogo degli spiriti im­puri concepisca la ve­rità e la po­tenza di Dio; per questo ri­vela fin d’ora la tua giustizia». Essi dice­vano al Cristo e il Cristo rispose loro: «Il termine degli anni del po­tere di Satana è compiuto; e tuttavia altre cose terribili sono vi­cine. E io sono stato consegnato alla morte per coloro che hanno peccato, per­ché si convertano alla verità e non pec­chino più ed ereditino la gloria di giustizia spirituale ed incorrut­tibile che è nel cielo».

Tornando al versetto 8 di Marco 16, forse nella mente degli editori del lezionario si ritiene evidentemente che possa creare dello sconcerto negli ascoltatori odierni. Il motivo è che nega una verità palese: il compito dell’annuncio che l’angelo («un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca: Mc 16,5») affida alle donne – «andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: “Egli vi precede in Galilea”» – è stata apparentemente disattesa: «non dissero niente a nessuno». Dopotutto gli altri tre Vangeli, sebbene in maniere diverse, raccontano un’altra storia.

Questo è uno dei casi in cui l’editore del libro liturgico si permette di decidere quale parte della parola di Dio lasciare venga proclamata. Così, ad esempio trascurando una determinata struttura narrativa, magari in nome della tardiva divisione in capitoli e versetti, sembra dare all’omileta e a quanti ascoltano una versione diversa della pagina evangelica. Non che tale obiettivo non si possa raggiungere involontariamente anche con una determinata traduzione piuttosto che un’altra, ma tant’è.

Si può comunque pensare che Marco, nei versetti 1-8 del capitolo 16 del suo libro, gli ultimi di suo pugno, lasci che il lettore, nonostante che in un primo tempo possa essere sconcertato dalla finale del Vangelo, in quelle scarne parole trovi comunque un significato straordinario.

L’evangelista sembra dirci che quella che a prima vista è un tradimento della missione affidata alle donne, non solo queste ultime dicono tutto ai discepoli (l’esatto contrario del testo attuale!), ma la consegna di condurre i discepoli in Galilea si compie in pieno: i discepoli dovranno raggiungere il Cristo dove si manifesterà ai discepoli come il Risorto.ù