«Simone Bar-Jonah», ossia «Simone, figlio di Giovanni»?

 

5213-5539856473_1f0d51c506_bdi Stefano Tarocchi • La pagina della liturgia festiva che, secondo l’evangelista Matteo, racconta la professione di fede dell’apostolo Pietro, avvenuta «nella regione di Cesarèa di Filippo» (Mt 16,13; o nei villaggi intorno alla città, come dice il vangelo di Marco: Mc 8,27), aggiunge alla professione di fede le parole di Gesù: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,17-19).

La città dove questi eventi si svolgono, già dedicata al dio Pan (oggi tale caratteristica si ritrova nel nome attuale Banyas) era già stata annessa nel 20 a.C. al regno di Erode il Grande, era stata fondata nel III secolo a.C. Il tetrarca Erode Filippo, dopo che il padre aveva fatto costruire un tempio dedicato ad Augusto, sullo stesso sito fonda una nuova città, dedicata all’imperatore Tiberio: viene chiamata Cesarea di Filippo per distinguerla dalla città di Cesarea Marittima, anch’essa fondata da Erode il grande in onore dell’imperatore Augusto.

È significativo in questo testo il nome con cui Gesù chiama l’apostolo, che precedentemente era rammentato come «Simon Pietro» (Mt 16,16). Troviamo questi due nomi accostati in Lc 5,8; Gv 1,40; 6,8.68; 13,6.9.24.36; 18,10.15.25; 20,2.6; 21,2.3.7.11.15; 2 Pt 1,2.

Il solo Vangelo di Marco sembra distinguere con maggiore accuratezza riguardo all’apostolo, tra l’antico nome di Simone e quello che Gesù gli assegna nella scelta dei Dodici. Così abbiamo: «Simone, al quale impose il nome di Pietro» (Mc 3,16). Qualcosa di analogo troviamo anche in Luca («Simone, al quale diede anche il nome di Pietro»: Lc 6,14), ma non in Matteo, che ha semplicemente «Simone, chiamato Pietro» (Mt 10,2). E del resto il Vangelo di Matteo aveva esordito con la chiamata dei primi due discepoli, ricordando Gesù, che quando: «camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello (Mt 4,18). E da quel momento in poi sarà sempre “Pietro”, eccetto che in Mt 16,16 (Mt 8,14; 14,28.29; 15,15; 16,22.23; 17,1.4.24; 18,21; 19,27; 26,33.35.37.40.58.69.73.75). Nel solo quarto Vangelo troviamo una variante significativa: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro» (Gv 1,42).

Peraltro, questa forma aramaica si ritrova altrove solo nelle lettere di Paolo (1 Cor 3,22; 9,5; Gal 2,9.11): di fatto aveva finito per prevalere l’altra forma, prima greca e poi latina: Petros / Petrus, e che è passata nelle lingue moderne. Ora Petros significa esattamente “pietra”, e non “roccia” (dovremmo usare il femminile), come ci si potrebbe maggiormente aspettare: ma il vangelo di Matteo introduce un gioco di parole, per cui è verosimile che i due termini acquistino il medesimo significato.

Nel Vangelo di Marco sostituisce l’uso di Simone dalla chiamata in avanti, compresa la professione di fede, eccetto che in Mc 14,37, quando Gesù, che si trovava nel Getsemani: «venne, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora?».

Si tratta sempre del medesimo apostolo, ma Gesù, significativamente, lo chiama Simone, come a richiamare un tradimento della scelta stessa che lo ha inserito nel gruppo dei Dodici.

Ma torniamo alla professione di fede: Gesù si rivolge all’apostolo chiamandolo «Simone, figlio di Giona»; è l’unica volta che Gesù si esprime in questo modo. Va detto subito che il testo originale riporta il ricalco aramaico «Barjonah», o in alcuni codici «Bar-Jonah»: entrambi non si trovano altrove nelle Scritture. La traduzione italiana usa quest’ultimo modo e lo rende come patronimico (nome del padre): «figlio di Giona». Si incontrano infatti nei Vangeli nomi come «Bartimeo» (Mc 10,46: «il figlio di Timeo, Bartimeo»), oppure «Bartolomeo» (Mc 3,18; Mt 10,3; Lc 6,14; At 1,13), o addirittura un Bar-Iesus (At 13,46) ed altri.

Ora, pare che al tempo di Gesù (Gnilka), il nome del profeta Giona non fosse più in uso. «Jonah» infatti potrebbe essere la rara abbreviazione di “Johanan”, «Giovanni». Nel quarto vangelo abbiamo la riprova di una verosimiglianza: «Simone, figlio di Giovanni» (Gv 1,42; 21,5.16.17).

Quello che è certo è che la professione di fede pronunciata da Pietro in una forma così completa («Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16), che Gesù impone ai discepoli di non divulgare nelle sue implicazioni («ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo»: Mt 16,20) si fonda sulla rivelazione divina e non è frutto della sua umanità o delle sue capacità («né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli»: Mt 16,17). Nonostante, ed oltre i suoi fallimenti, soprattutto durante la passione, nonostante i suoi dubbi e la sua poca fede («Uomo di poca fede, perché hai dubitato?»: Mt 14,31; cf. 28,17), egli è e rimane la roccia della Chiesa del Cristo, colui che garantisce che la sua professione di fede è situata all’interno della rivelazione del Padre.

Ponti e pontefici

Il Mantello della Giustizia – Settembre 2018

augustodi Stefano Tarocchi • In questi tempi difficili in cui i ponti crollano, portandosi dietro il loro carico di dolore e di sofferenza, e ponendo interrogativi a non finire – e risposte inadeguate e contraddittorie – , vorrei riflettere sul senso di una parola e delle sue implicazioni. D’altra parte, nella nostra storia, in Italia ed Europa, ci sono ponti costruiti venti secoli fa, che ancora adempiono egregiamente al loro compito, sulle strade di città e paesi, per il passaggio di uomini e di mezzi, e come acquedotti perfettamente funzionanti.

Il termine «ponte» deriva dal vasto mondo del bacino linguistico indoeuropeo. Fra esse spiccano il sanscrito e una lingua liturgica iranica.

Solo verso la fine del ‘700 venne scoperto il collegamento tra il sanscrito e una serie di lingue provenienti di un’origine comune, il protoindoeuropeo, che comprende la maggior parte delle lingue d’Europa, vive ed estinte, che attraverso il Caucaso e il Medio Oriente da un lato, e la Siberia occidentale e parte dell’Asia Centrale dall’altro, sono arrivate a coinvolgere l’Asia meridionale.

Ebbene, il termine del sanscrito da cui nasce la nostra parola «ponte» ha di fatto due significati: il primo significato è “via, sentiero, cammino”; il secondo è invece, inaspettatamente, “mare”.

A nessuno verrebbe in mente di accostare alla parola latina,  da cui deriva il nostro “ponte”, il termine greco pontos, che invece significa “mare”. In realtà il ponte è il collegamento, la congiunzione, tra due strade distanti fra loro, che il ponte unisce, per crearne una nuova. E, come ci insegnano gli eventi recenti, il crollo di un ponte è sicuramente l’interruzione di una strada, un percorso, e quindi della vita di relazione, ad essi legata.

Ma è realmente possibile vedere un legame fra un ponte e il mare? Di fatto, il Mar Nero era chiamato dai greci Ponto Eusino, ossia “mare ospitale” (il termine più antico, tuttavia, era però il più attuale “mare inospitale”). Per di più, abbiamo in Italia il sito archeologico di Metaponto(che significa “Al di là del mare”, e l’eloquente Agro Pontino.

Perché nell’Europa greca e latina la stessa parola può indicare lo “scavalco” di una valle, per esempio quella scavata da un fiume – è la ragione principale per cui costruiamo ponti dalle nostre parti – ed un mare che permette di “scavalcare”, cioè accorciare i percorsi fra due terre, separate da una depressione o da un fiume?

Qui anche i nostri Vangeli ci sono d’aiuto. Ad esempio, così leggiamo nel Vangelo di Matteo: «Vedendo la folla attorno a sé, Gesù ordinò di passare all’altra riva» (Mt 8,18). Così si dice che Gesù è «giunto all’altra riva, nel paese dei Gadarèni» (Mt 8,28). Al ritorno, lo stesso Gesù «salito su una barca, passò all’altra riva e giunse nella sua città, Cafarnao» (Mt 9,1). Più avanti si narra che «subito dopo costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla» (Mt 14,22). Ma anche in Marco leggiamo di Gesù che «in quel medesimo giorno, venuta la sera, disse ai discepoli: «Passiamo all’altra riva» (Mc 4,35), finché «li lasciò, risalì sulla barca e partì per l’altra riva» (Mc 8,13).  E così via.

I Vangeli sono perciò unanimi nel dirci che un tratto di mare è la via più breve fra due terre, due città situate sulle rive del mare di Galilea.

. La creazione di strade, di percorsi, ha anche un valore religioso, e non solo nelle Scritture. Se il “sacro” indica la separazione, il “profano”, che sembra opporvisi, è in realtà ciò che è potenziale in dialogo con il sacro: il termine, è infatti composto  di pro, «davanti» e fanum, «tempio, luogo sacro». Quindi designa ciò che «che sta fuori del sacro recinto» ed ha bisogno di essere collegato con esso: l’umano necessita di entrare in contatto con il divino, attraverso una strada, come dimostra alle nostre latitudini un ponte, oppure, in altre geografie, un tratto di mare. Si presenta cioè un bisogno ineludibile di avvicinare l’umano al divino, con tutte le conseguenze del caso.
Ecco perciò che dal ponte nasce anche il pontefice, il «sacerdote che costruisce la via». Se nell’antichità, evidentemente a Roma, il nome sembra designare coloro che curavano la costruzione del ponte sul Tevere, come sembra dire l’origine del nome, in numero oscillante da 5 a 9, è maggiormente vero che in realtà i pontefici stabilivano in base a quali regole un qualsiasi rito – sacrale, processuale o negoziale che fosse – doveva essere compiuto, perché potesse considerarsi valido, e tali regole erano di volta in volta comunicate a chi lo richiedesse. Quindi, al contrario di altri sacerdoti, i pontefici non assolvevano a precise funzioni di culto, ma ne ponevano le condizioni.

Essi erano presieduti da un pontefice massimo elettivo, finché nel 12 a.C. Augusto fece propria la carica. Essa sarebbe rimasta prerogativa di tutti i successivi imperatori, fino all’era cristiana inoltrata, fin quando nella Chiesa cattolica, il titolo fu presto usato per indicare i vescovi, e in particolare il vescovo di Roma.
Con Tertulliano (155-230), per la prima volta, il vescovo di Roma è chiamato pontefice massimo.

Questa è un’altra storia, ma vediamo bene quanto è difficile per il vescovo di Roma indicare una via, senza che non sorgano frange estreme intenzionate a demolire il suo ruolo, nell’attaccare la persona. Nuovi e devastanti distruttori di ponti, destinati comunque a fallire. Lo impediscono la fede evangelica… e l’eredità delle lingue indoeuropee.

 

Venticinquesimo del parroco don Stefano

ore 17,30: primi Vespri della domenica

ore 18,00: celebrazione della Messa

Seguirà una cena conviviale (offerta libera) sul sagrato della chiesa.

 

Occorre prenotarsi entro la domenica 26 agosto (scrivere a: 25anniallaromola@gmail.com)

Ogni tipo di collaborazione è gradito.

 

 

Note per una teologia «biblica»

Note per una teologia «biblica»

Il Mantello della Giustizia – Agosto 2018

rene-roux-bdi Stefano Tarocchi • «Lasciando da parte l’uso antico …, notiamo come alcuni studiosi contemporanei tendano ad indentifica la teologia con la teologia sistematica, escludendo cioè la teologia storica e quella biblica, quasi non fossero vera teologia. Questo atteggiamento, frutto di una esaltazione unilaterale dell’approccio sistematico nell’insegnamento della teologia nelle facoltà non è in grado di leggere la realtà antica e di cogliere appieno il significato dell’approccio storico ed esegetico nelle opere dei padri. Intenderemo qui teologia non solo come elucubrazione teorica sui dogmi della fede, ma come qualsiasi tentativo di natura storica, esegetica o apologetica di “rendere ragione della speranza che è in voi” (cf. 1 Pt 3,15). Così si è espresso in una relazione ancora inedita il prof. René Roux, patrologo, rettore della Facoltà Teologica di Lugano in un convegno tenutosi lo scorso giugno a Breslavia in Polonia.

Ora già la Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei Verbum così si esprimeva: «la sacra teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio scritta, inseparabile dalla sacra Tradizione; in essa vigorosamente si consolida e si ringiovanisce sempre, scrutando alla luce della fede ogni verità racchiusa nel mistero di Cristo. Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio, sia dunque lo studio delle sacre pagine come l’anima della sacra teologia» (DV 24).

Pertanto «gli esegeti cattolici e gli altri cultori di sacra teologia, collaborando insieme con zelo, si adoperino affinché, sotto la vigilanza del sacro magistero, studino e spieghino con gli opportuni sussidi le divine Lettere, in modo che il più gran numero possibile di ministri della divina parola siano in grado di offrire con frutto al popolo di Dio l’alimento delle Scritture, che illumina la mente, corrobora le volontà e accende i cuori degli uomini all’amore di Dio. Il santo Concilio incoraggia i figli della Chiesa che coltivano le scienze bibliche, affinché, con energie sempre rinnovate, continuino fino in fondo il lavoro felicemente intrapreso con un ardore totale e secondo il senso della Chiesa» (DV 23).

Da queste premesse il capitolo sesto e conclusivo della Dei Verbum («La sacra Scrittura nella vita della Chiesa») invita quanti «attendono legittimamente al ministero della parola» a conservare «un contatto continuo con le Scritture mediante una lettura spirituale assidua e uno studio accurato, affinché non diventi “un vano predicatore della parola di Dio all’esterno colui che non l’ascolta dentro di sé”» (DV 25). Queste ultime sono parole di S. Agostino d’Ippona (Serm. 179, 1).

Recentemente anche il papa Francesco nell’«Esortazione apostolica sull’annuncio del vangelo nel mondo attuale» (Evangelii Gaudium) nota che se «le università sono un ambito privilegiato per pensare e sviluppare questo impegno di evangelizzazione in modo interdisciplinare e integrato» (EG 134), è pur sempre vero che «la semplicità ha a che vedere con il linguaggio utilizzato. Dev’essere il linguaggio che i destinatari comprendono per non correre il rischio di parlare a vuoto. Frequentemente accade che i predicatori si servono di parole che hanno appreso durante i loro studi e in determinati ambienti, ma che non fanno parte del linguaggio comune delle persone che li ascoltano. Ci sono parole proprie della teologia …, il cui significato non è comprensibile per la maggioranza dei cristiani» (EG 158). Dice ancora Francesco, a proposito di chi annuncia la parola, che «il rischio maggiore … è abituarsi al proprio linguaggio e pensare che tutti gli altri lo usino e lo comprendano spontaneamente. Se si vuole adattarsi al linguaggio degli altri per poter arrivare ad essi con la Parola, si deve ascoltare molto, bisogna condividere la vita della gente e prestarvi volentieri attenzione» (EG 158).

Ora, qui si tratta di riappropriarci del concetto antico e perenne di fare teologia attraverso lo «studio delle sacre pagine» perché divengano «l’anima della sacra teologia». Se la «sacra teologia» ha il «fondamento perenne sulla parola di Dio scritta» e nella Tradizione occorre una rivoluzione copernicana, un ritorno al modo antico di fare teologia.

Non una teologia che organizza la Scrittura e la costringe a fare da riprova alle proprie affermazioni – e nei casi più eclatanti il “teologo” che sposa una determinata interpretazione e quella soltanto – ma una teologia umile che nasce, si sviluppa e dialoga con ogni cultura, dentro e fuori gli ambiti accademici, «in religioso ascolto della parola di Dio». Il Dio a cui «piacque nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura. Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (DV 1.2).

Ne è prova il fatto che se «la parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo» (DV 22), ovvero il divino «rivelare sé stesso [Seipsum revelare]… in eventi e parole intimamente connessi» (DV 2), e per questa ragione la Chiesa cura con materna sollecitudine che si facciano traduzioni appropriate e corrette nelle varie lingue» (DV 22), e quindi, a differenza di altre fedi e religioni, non c’è necessità di una lingua sacra, chi fa teologia non può permettersi di sostituire l’ebraico e il greco (e anche l’aramaico) con il suo linguaggio. La Parola di Dio non può essere piegata per le esigenze di sviluppare e manifestare il proprio pensiero.

Per concludere, possiamo ricuperare ciò che dice Papa Francesco a proposito dei predicatori – ed applicarlo ai teologi – «la semplicità ha a che vedere con il linguaggio utilizzato. Dev’essere il linguaggio che i destinatari comprendono per non correre il rischio di parlare a vuoto. Frequentemente accade che i predicatori si servono di parole che hanno appreso durante i loro studi e in determinati ambienti, ma che non fanno parte del linguaggio comune delle persone che li ascoltano. Ci sono parole proprie della teologia o della catechesi, il cui significato non è comprensibile per la maggioranza dei cristiani. Il rischio maggiore per un predicatore è abituarsi al proprio linguaggio e pensare che tutti gli altri lo usino e lo comprendano spontaneamente. Se si vuole adattarsi al linguaggio degli altri per poter arrivare ad essi con la Parola, si deve ascoltare molto, bisogna condividere la vita della gente e prestarvi volentieri attenzione» (EG 158).