Lo Spirito Santo riunisce tutte le voci degli uomini

La Pentecoste fra la discesa dello Spirito e la torre di Babele

 

È abbastanza comune sentire, anche attraverso le pagine bibliche introdotte dalla liturgia, un legame fra il capitolo 2 degli Atti degli apostoli, che racconta la discesa dello Spirito Santo nel cinquantesimo giorno dopo la Pasqua e Genesi 11 che invece parla dell’episodio della costruzione della torre di Babele «la cui cima tocchi il cielo» (Gen 11,4).

Qui non abbiamo il tempo di entrare nei dettagli quest’ultimo episodio, collocato nel primo libro della Bibbia. Vorremmo tuttavia evidenziare il motivo per cui nella stessa liturgia l’episodio della Pentecoste viene legato a quello della Genesi.

Richiamiamo soltanto alcuni versetti del racconto 

della torre di Babele, a partire dalla premessa del racconto: «tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole» (Gen 11,1). Quella che in apparenza dovrebbe essere una premessa positiva, nel racconto biblico viene interpretata come la volontà umana di abbattere il nome del Creatore, nel farsi «un nome, per non disperdersi su tutta la terra» (Gen 11,4). Ma il Signore Dio risponde: «scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro… Per questo la si chiamò Babele (ebr: Babél), perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra» (Gen. 11,7.9).

Contrariamente a una lettura spiritualeggiante data per acquisita, il testo del libro degli Atti è legato al racconto della Genesi da una precisa espressione, culminata in un sostantivo, non a caso derivante da un verbo greco tradotto come “turbare, confondere”. Così leggiamo infatti nel libro degli Atti: «a quel rumore (lett. “voce”), la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua (At 2,6).

Ma la voce di Dio è proprio un fragore, il fragore come del tuono: così leggiamo in Atti: «venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano.  Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2,3-4).

Ora, secondo il libro dell’Esodo, l’alleanza con Mosé sul monte Sion si basa sull’ascolto della voce del Signore: «se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia, infatti, è tutta la terra!» (Es 19,5).

La tradizione rabbinica commenta che ogni parola uscita dalla potenza divina sul monte Sinai si divide in settanta lingue (Rabbi Jochanan). Settanta è un numero simbolico, se nella concezione ebraica il mondo era costituito da settanta popoli. Così le settanta lingue stanno a indicare che la Legge, la parola divina, è offerta a tutti i popoli.

In questo preciso caso è la stessa volontà di Dio di far comprendere a tutti i popoli della terra la sua voce. Infatti, un midrash, tipico commento dell’ebraismo, al libro dell’Esodo così dice: «la voce di Dio sul Sinai fu intesa da ciascuno secondo la sua capacità di intendere. Gli anziani la intesero secondo la loro capacità, i giovani secondo la loro capacità, e così anche i bambini, i lattanti e le donne. Persino Mosè la intese secondo la sua capacità».

Dunque, nel giorno di Pentecoste quanti erano presenti in Gerusalemme, come espressione dei popoli aderenti all’ebraismo delle terre vicine, che però non parlano l’ebraico, ricevono il kérigma della Pasqua ciascuno nella loro lingua, che diventa in questo circostanza un valore unitivo in ragione della sua provenienza divina, nel nome di Gesù, il nome «che è al di sopra di ogni nome» (Fil 2,9).

L’unico vero pastore: Gesù

Gesù Cristo, il vero pastore

Il mantello della Giustizia – Maggio 2024

di Stefano Tarocchi · Nei discorsi del quarto Vangelo rivolti da Gesù ai discepoli, nella cena avanti la Passione, ha uno dei nuclei più significativi nella descrizione del pastore vero: «io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore.  E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio” (Gv 10,11-18).

Dette parole hanno una premessa, talora considerata di minore importanza: «in verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore.  Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti, ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo.  Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,7-10).

Le due micro-unità narrative sono alla base di un insegnamento molto importante: Gesù è ad un tempo pastore e colui che si mette a guardia del gregge che gli è affidato, assumendone il ruolo di porta, cioè di vigilanza in prima persona su coloro che entrano dentro il recinto del gregge: si direbbe quasi a prezzo della sua vita.

Prima di lui ci sono stati soltanto ladri e briganti, ma le pecore non li hanno ascoltati: queste possono entrare e uscire dal recinto per trovare il pascolo, senza alcuna paura proprio perché c’è questa porta sicura. I ladri hanno non hanno un solo scopo, il rubare, ma anche l’uccidere e il distruggere. A difesa di essi solo, il Cristo, porta delle pecore, conduce alla vita, e alla vita senza limiti.
È per questa ragione che Gesù afferma di essere il vero pastore, ossia colui che è capace di dare la propria vita per le pecore. Al pastore si contrappone colui che ha uno stipendio per guardare alle pecore – il termine usato per sé non è negativo, ma finisce per diventarlo, nell’accezione di mercenario. Questi, al momento del pericolo – e quale maggior pericolo per le pecore di un lupo? –, egli abbandona le pecore anziché proteggerle.

Per di più, non è secondario che fra il pastore e le pecore si instauri la stessa comunione di ascolto reciproco: un “conoscere” che è molto di più di un interscambio di superficie: è realmente quello spazio che apre all’amore. Oltretutto, questo pastore ha il compito di ricondurre all’unità quel gregge che gli è stato affidato, comprendendo anche pecore che vengono da altri greggi, da altri recinti.  Tutto ciò poggia però sul dono della vita che il pastore fa per le sue pecore seguendo il comando del Padre.

Ora un testo così ricco e carico di profondità pronunciato nel momento in cui Gesù sta per essere glorificato, cioè sta per andare incontro alla sua passione nel linguaggio del Vangelo secondo Giovanni, rischia di essere vanificato da un pericolo sempre in atto in una certa interpretazione. Di cosa parliamo? Quello di una semplificazione riduttiva e sostanzialmente irrispettosa.

Voglio dire che il vero pastore, il Cristo, in nessun momento e per nessuna ragione può essere confuso, se non per confronto, con coloro che svolgono nella comunità il ruolo di pastore, in particolare vescovi e presbiteri, e anche diaconi. Detto in altre parole non è rispettoso per il testo e il messaggio evangelico, anziché approfondirlo come è necessario soprattutto in questi tempi, spostarsi a parlare di vocazioni al ministero della Chiesa, dimenticando la reale figura del pastore e della porta, che il Vangelo ci presenta con chiarezza cristallina.

È solo lui, nello spessore della pagina giovannea a dare il senso dell’esser pastore. Ed è lui solo a dare il senso della nota immagine di papa Francesco dei pastori con “l’odore delle pecore”, “pastori in mezzo al proprio gregge”, e “pescatori di uomini”.

C’è un testo di sant’Agostino che riassume in maniera straordinariamente efficace l’immagine del pastore, all’interno e in comunione con il popolo di Dio: «sorreggetemi anche voi in modo che, secondo il precetto dell’Apostolo, portiamo l’un l’altro i nostri pesi, e così adempiamo la legge di Cristo. Se egli non condivide il nostro peso, ne restiamo schiacciati; se egli non porta noi, finiamo per morire. Nel momento in cui mi dà timore l’essere per voi, mi consola il fatto di essere con voi. Per voi infatti sono vescovo, con voi sono cristiano» (Discorso 340: nell’anniversario della sua ordinazione a vescovo).
Il pastore è anzitutto pecora del gregge di Cristo.

«Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza…»

«Noi annunciamo Cristo crocifisso»

Il Mantello della Giustizia – Marzo 2024

 

di Stefano Tarocchi · Il tema della croce di Gesù Cristo, che è centrale in questo tempo di Pasqua, è uno dei temi più diffusi, e al tempo stesso meno conosciuti, dell’annuncio cristiano.

Prendiamo un testo come quello che è affidato alla liturgia delle domeniche di Quaresima di quest’anno: «mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti, ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1 Cor 2,22-25).

di Stefano Tarocchi · Il tema della croce di Gesù Cristo, che è centrale in questo tempo di Pasqua, è uno dei temi più diffusi, e al tempo stesso meno conosciuti, dell’annuncio cristiano.

Prendiamo un testo come quello che è affidato alla liturgia delle domeniche di Quaresima di quest’anno: «mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti, ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1 Cor 2,22-25).

Non si tratta dell’unico annuncio in cui Paolo affronta il tema della croce. Infatti, leggiamo ancora nella stessa prima lettera ai Corinzi: «Cristo non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo, non con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo. La parola della croce, infatti, è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti. Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo? Poiché infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione». E ancora: «mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti, ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1 Cor 1,17-25).

E quindi: «Anch’io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1Cor 2,1-5).

Questa è normalmente la base sulla quale si contrappone l’esito, apparentemente negativo, del discorso che nel libro degli Atti riporta le parole dell’apostolo Paolo. Il tutto sulla base della ricostruzione del progetto che è in mente all’autore di questo libro, il secondo di Luca, autore del terzo vangelo.

Riportiamo qui un esempio emblematico, le parole del Papa Francesco: «l’apostolo Paolo venne ad Atene, ed è rimasto colpito quando ha visto nell’areopago tanti monumenti agli dèi. E lui ha pensato di parlare di questo: “Voi siete un popolo religioso, io vedo questo… Mi attira l’attenzione quell’altare al ‘dio ignoto’. Questo io lo conosco e vengo a dirvi chi è”. E incominciò a predicare il Vangelo. Ma quando arrivò alla croce e alla risurrezione si scandalizzarono e se ne andarono via (cf. At 17,22-33). C’è una cosa che la mondanità non tollera: lo scandalo della Croce. Non lo tollera. E l’unica medicina contro lo spirito della mondanità è Cristo morto e risorto per noi, scandalo e stoltezza (cf. 1Cor 1,23)» (Francesco, Omelia del 16 maggio 2020).

Nell’incontro di San Paolo con la grande città di Atene, ormai ridotta a modesto villaggio non lontano dalla metropoli di Corinto, emerge la ricerca, peraltro di straordinaria attualità, di un linguaggio straordinariamente capace di intercettare l’ambiente culrurale dei suoi destinatari.

In quel testo (At 17,15-34), che rimandiamo agli stessi lettori, l’autore degli Atti ricostruisce l’annuncio della risurrezione di Cristo, attraverso di quell’ambiente che ha come passatempo principale ascoltare tutte le novità che accadono sulla sua «piazza»: stiamo parlando dell’‘areopago’, la «rupe di Ares». Esso «l’Areopago va inteso non tanto come un luogo (dove gli oratori potevano parlare liberamente e gli ascoltatori erano sempre a portata di mano) quanto come il consiglio, che si riuniva sul monte» (Fitzmyer).

Situato presso l’acropoli e divenuto il più antico tribunale di Atene, fu ridotto poi al solo giudizio sui delitti di sangue – oggi addirittura l’Areopago designa la corte suprema della Grecia in materia di diritto civile e penale.

Ma il libro degli Atti dice che «tutti gli Ateniesi e gli stranieri là residenti non avevano passatempo più gradito che parlare o ascoltare le ultime novità» (At 17,21).

Pertanto, non c’è nessuna opposizione fra ciò che accaduto ad Atene secondo la descrizione dell’autore e quello che Paolo scrive ai cristiani di Corinto.

Se è vero che «gli Atti degli Apostoli non sono terminati» perché «continuano nella storia della Chiesa e di ogni battezzato» (Penna), dentro ogni annuncio cristiano si trova la verità del Vangelo, nella sua scomoda certezza.

Se negli Atti degli apostoli è racchiuso il tentativo di annunciare a una cultura diversa rispetto a quella del popolo ebraico i fatti che riguardano la risurrezione di Cristo, non troviamo nessun tentativo di ammorbidire la verità del Vangelo con un linguaggio forbito. Si tratta comunque di un annuncio che si fa ascoltare perché non c’è nessuna fede senza un annuncio: «non tutti hanno obbedito al Vangelo. Lo dice Isaia: Signore, chi ha creduto dopo averci ascoltato? Dunque, la fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo (Rom 10,16-17)».

Dentro ogni annuncio c’è la certezza che Cristo ha salvato tutti gli uomini attraverso la stoltezza della sua croce. E il Paolo della lettera ai Corinzi non contrasta con il Paolo degli Atti: le due narrazioni, quella dello scritto e dell’apostolo, e la lettura che ne fa l’autore del terzo Vangelo, sono due metodi complementari che permettono di afferrare il dono della salvezza attraverso l’obbedienza, cioè l’ascolto, della fede (cf. Rom 1,5).

«Passa l’apparenza di questo mondo…il tempo si è come contratto»

«Passa l’apparenza di questo mondo»

Il Mantello della Giustizia – Febbraio 2024

di Stefano Tarocchi · Nel capitolo 7 della prima lettera ai Corinzi, Paolo risponde ad alcune questioni che gli vengono poste dalla chiesa della metropoli di Corinto: si tratta delle persone sposate, del matrimonio fra cristiani e pagani, di chi non è sposato, e ancora altre questioni che sono collegate. Qui non vogliamo entrare in queste questioni così complesse e di non facile interpretazione all’interno del linguaggio paolino.

C’è però un passaggio sul quale vogliamo attirare l’attenzione di chi avrà la pazienza di leggere. Si tratta del passaggio in cui Paolo afferma: «il tempo si è fatto breve», per aggiungere poi «passa l’apparenza di questo mondo (1 Cor 7,31). La CEI oggi traduce “figura”; nella versione del 1974 rendeva “scena”. Lo stesso termine si trova nella lettera ai Filippesi, dov’è tradotto in altro modo: «pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte» (Fil 2,6-8).

 

«Il tempo si è fatto breve»: nella lingua greca, il termine usato per definire il tempo non si riferisce ad una semplice cronologia, di fatto senza limiti, ma si riferisce al tempo nel senso della sua qualità: il momento opportuno perché accada un evento.
Anche il verbo usato per definire la brevità significa “contrarre”, “ridurre la dimensione”. Sembra tratto dal linguaggio della navigazione: Paolo usava sempre espressioni vicine all’esperienza dei suoi destinatari, e Corinto era posta in una posizione geografica ideale per comprendere questo linguaggio. L’apostolo indica l’azione di «raccogliere una o più vele presso il pennone, usando gli imbrogli (apposite funi predisposte a questo scopo), per poterle poi serrare, ossia sottrarle in gran parte all’azione del vento» (Dizionario della Navigazione).

L’apostolo, dando insegnamenti ai cristiani di Corinto, li sta guidando ad interpretare la loro esistenza nella certezza dell’imminente ritorno del Cristo glorioso.

Ecco spiegato anche il senso dei due versetti successivi: «d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente».

Le vicende umane sono del tutto transitorio, come lui spiega ulteriormente quando dice: «passa l’apparenza di questo mondo».

L’espressione che Paolo usa non è l’equivalente del termine “mondo”: l’espressione «esprime l’aspetto esteriore, tutto ciò che può essere percepito dai sensi» nella realtà in cui viviamo. Tutto questo «può cambiare, e cambia, di stagione in stagione, anche se il mondo stesso rimane» (Robertson-Plummer). Come dicevano gli antichi (forse Seneca?), «passa l’immagine esterna del mondo, non la sua natura, come se il mondo si trasformasse in un’altra dimensione».

Dopo questa affermazione, Paolo così prosegue: «io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito. Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni» (1 Cor 7,32-35).

L’apostolo non vuole indicare una scelta da intraprendere senza esitare, come quando fa riferimento al Signore: «agli sposati ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito» (1 Cor 7,10). Viceversa, «agli altri dico io, non il Signore: se un fratello ha la moglie non credente e questa acconsente a rimanere con lui, non la ripudi» (1 Cor 7,12). E ancora: «riguardo alle vergini, non ho alcun comando dal Signore, ma do un consiglio, come uno che ha ottenuto misericordia dal Signore e merita fiducia» (1 Cor 7,25)

La libertà cristiana di cui si fa interprete, diventa un principio fondamentale fondato sulla sua autorità che ha richiamato per ben tre volte nello stesso tratto della lettera: «ciascuno – come il Signore gli ha assegnato – continui a vivere come era quando Dio lo ha chiamato; così dispongo in tutte le Chiese; ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato; ciascuno, fratelli, rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato» (1 Cor 7,17.20.24). Lo aveva espresso con chiarezza anche quando scriveva che «ciascuno riceve da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro (1 Cor 7,7).