La risurrezione di Gesù: la «tunica» e la «rete» che non si spezzano

Il Mantello della Giustizia – Aprile 2018

La «tunica» e la «rete» che non si spezzano

la-crocifissione-parte-centrale-della-predella-1457-1405-di-andrea-mantegna-1431-1506-soldati-giocare-dice-gesu-tunica-ffkb9pdi Stefano Tarocchi • La narrazione pasquale del quarto vangelo presenta, fra gli altri, due vertici di particolare rilievo. Si tratta di due momenti, legati rispettivamente alla crocifissione di Gesù e alla sua manifestazione ai discepoli sul mare di Tiberiade.

Il primo momento si svolge ai piedi della croce di Gesù: «i soldati quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato – e la tunica. Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca».

Qui il Vangelo usa il salmo 22, il salmo che inizia con le parole dell’invocazione presente sulle labbra di Gesù nei soli Vangeli di Marco e di Matteo (non in quello di Luca!): «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Lontane dalla mia salvezza le parole del mio grido!».

Peraltro, in Marco l’invocazione che apre il salmo 21 viene pronunciata anche nella lingua materna di Gesù, l’aramaico: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?» (Mc 15,34; in Mt 27,46 abbiamo invece: «Elì, Elì, lemà sabactàni»), come in precedenza nella preghiera al Getsemani Gesù: «Abbà! Padre!» (Mc 14,36).

Dal medesimo salmo, citando letteralmente la sua versione greca, tratta dai Settanta, il quarto evangelista getta il suo sguardo alla veste «senza cuciture», e quindi «tessuta tutta in un pezzo dalla cima» per definirne il suo destino inatteso: questa tunica è assegnata al soldato che la riceverà in sorte. Allo stesso tempo sembra sottintendere la preghiera di Gesù sulla croce.

Torniamo però alla veste (“chitôn”). Infatti, per una ragione che non appare evidente ad un primo sguardo, questo indumento è esclusa dal bottino delle spoglie del condannato a morte che i suoi carnefici si autoassegnano: «presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato» (Gv 19,23). Viene in mente Giobbe: «Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!» (Gb 1,21).

L’evangelista mette in rilievo come la tunica, «senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo dalla cima» (Gv 19,23), dovrà rimanere una sola. L’unico modo è quello di lasciarla intatta: «non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca» (Gv 19,24).

Il verbo qui usato dall’evangelista è grandemente significativo. Per limitarci al solo Giovanni, lo si trova solo nel secondo episodio che vedremo più avanti.

Da questo verbo deriva un termine non meno eloquente, “schisma”, usato nel quarto Vangelo in tre circostanze.

Nella prima scena si legge che «nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva». Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato». All’udire queste parole, alcuni fra la gente dicevano: «Costui è davvero il profeta!». Altri dicevano: «Costui è il Cristo!». Altri invece dicevano: «Il Cristo viene forse dalla Galilea? Non dice la Scrittura: Dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide, verrà il Cristo?». E tra la gente nacque un dissenso (“schisma”) riguardo a lui. (Gv 7,37-43)

Nella seconda scena si legge che «alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso (“schisma”) tra loro» (Gv 9,16)pescatori

Infine, nella terza scena, leggiamo: «il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio». Sorse di nuovo dissenso (“schisma”) tra i Giudei per queste parole» (Gv 10,17-19).

La prima generazione cristiana ha reso questo linguaggio quello della divisione, o scissione – scisma appunto – all’interno della comunità dei credenti.

Qui si apre il riferimento al secondo momento, quello della pesca ottenuta dopo una notte insonne dei discepoli al tempo della manifestazione di Gesù risorto in Galilea: «Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete» (Gv 21,5-6).

E così accade in maniera del tutto inattesa. Dopo che Pietro ha raggiunto la riva, «gli altri discepoli vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri» (Gv 21,8). Così i discepoli «appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò» (Gv 21,11).

Ora, appare evidente, anche in contrasto con l’analogo episodio della pesca del vangelo di Luca, sempre dall’evidente tenore pasquale – che l’evangelista “trasporta” alla sezione dove racconta la chiamata dei primi discepoli: «presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano» (Lc 5,6). Ma il verbo usato non sembra avere la stessa intensità delle parole usate dal quarto vangelo.

Il vangelo di Giovanni registra dei fatti: sotto la croce, i soldati che assistono alla scena deliberatamente scelgono di non spezzare la tunica di Gesù; sulle rive del mare di Tiberiade (lago di Gennèsaret per Luca 5,1!) la voce del Signore che comanda la pesca dopo la notte senza pesci («gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete»: Gv 21,6) e senza obiezione alcuna vede i discepoli riprendere il mare, è altrettanto forte da non spezzare la rete.

Non sono le risorse dei discepoli ad essere decisive: non sono loro a creare l’unità, ma il loro Signore la cui veste rimane intatta anche dopo che gli è stata sottratta. Anche se sarà preda del soldato che la ottiene in sorte – ultima preda strappata alla vittima inerme – mette in primo piano la tunica come simbolo di qualcosa che nessuna forza umana potrà lacerare. Al pari della rete, che contiene l’universo delle creature, nessuna forza umana potrà dividere ciò che è stato creato come unito.

Il Signore che attende la gloria che gli viene dalla passione – il massimo dei paradossi –, e, innalzato sulla croce, attira tutti a sé (cf. Gv 12,32), una volta risorto diventa forza di unità che sconfigge tutte le lacerazioni e le divisioni, gli odî e le violenze, le guerre e le distruzioni.

La parabola dei due figli e del padre ricco di misericorda

Il Mantello della Giustizia – Aprile 2018

rembrandt_il_figliol_prodigodi Stefano Tarocchi • Una delle pagine più commoventi (e più alte) della letteratura di ogni tempo, la terza delle tre parabole della misericordia del capitolo 15 del Vangelo secondo Luca, deve essere letta ai giorni nostri con un doppio scarto rispetto al tradizionale titolo del “figlio prodigo”.

Il primo scarto sarà quello linguistico: oggi nessuno, o quasi, comprende il vocabolario desueto della prodigalità, che peraltro è solo una conseguenza delle azioni del figlio minore del testo lucano (esiste anche il figlio maggiore!). E comunque questo figlio, che ha la «tendenza a spendere o a donare con larghezza eccessiva e senza riflessione» è un esempio di sperpero dissennato. Lo dice la stessa narrazione evangelica per ben due volte: «là – nel paese remoto dove ha scelto di vivere la sua vita, lontano dal padre e dalla famiglia – sperperò il suo patrimonio (lett. “la sua esistenza”) vivendo in modo dissoluto (lett.: “senza speranza di salvezza”); «ha divorato le tue sostanze (lett. “la tua vita”) con le prostitute» (Lc 15,13.30). Non potrebbero esserci verbi più eloquenti di questi ultimi due nel descrivere l’uso dei beni che ha fatto questo figlio

Questo figlio aveva voluto conoscere il mondo: un «paese lontano», fuori dalla terra di Israele – infatti vi si allevano i porci – «fuori dal perimetro chiuso del sistema familiare». Inoltre «il suo viaggio inizia con un atto di violenza, uno strappo alla legge»: ecco così l’imperativo «dammi», capace di provocare «una rottura irreversibile» (Massimo Recalcati).

Il padre narrato dalla parabola ha lasciato che si compisse fino in fondo la richiesta di avere accesso al suo patrimonio e quindi decidere un’esistenza distante da lui: «“padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze (lett. “la sua vita”)» (Lc 15,1-2).

Quando tuttavia il figlio ritorna, dopo aver provato tutte le conseguenze della sua libertà dissennata e dissipata, ciò che era irreversibile si apre in maniera inattesa. Il suo viaggio lontano da casa si conclude con la riconciliazione, dapprima con il padre, e poi, attraverso lui, con il fratello.

Si potrebbe scrivere che «Dio è colui che «ha preso [questo suo figlio] con un amo invisibile e con una lenza invisibile, che è abbastanza lunga per lasciarlo vagare sino ai confini del mondo, e, tuttavia, riportarlo indie­tro con una sola tirata del filo» (Gilbert Keith Chesterton).

Il secondo scarto, secondo il percorso che ho voluto evidenziare nel rileggere questa parabola, sarà quello di indicare il vero protagonista della parabola: il padre che, rivolgendosi al figlio maggiore, che gli ha appena detto «è tornato questo tuo figlio» (Lc 15,30), riassume il senso profondo del testo evangelico: «“Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”» (Lc 15,31). È solo il padre a restituire ad ognuno dei suoi due figli la loro vera natura di comunione: due fratelli e non solo «tuo figlio», come vorrebbe l’orizzonte gretto del maggiore. Dopo aver accettato il perdono del figlio minore, il padre insegna all’altro che cosa significa essere riconciliato, nella festa senza limiti della misericordia divina: «portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso (lett. “nutrito con il frumento”, che rende la sua carne tenera”), ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa» (Lc 15,22-23).

Forse è vero che se «nessuno sopporta di non essere perdonato: soltanto Dio ne è capace», come ha scritto Graham Greene.
Così, come nel celebre dipinto di Rembrandt, si svelano anche lo spessore e la complessità della figura del padre, rappresentato appunto con una mano di uomo e una di donna. Dio che è padre e anche madre.
Il percorso della parabola evangelica si centra su un perenne percorso dove liberamente ciascuno dei figli deve ricuperare sé stesso di fronte al padre, e al cielo, che egli rende presente.

 

 

Pasqua 2019: calendario delle celebrazioni

14 aprile Domenica delle Palme 10:30
S. Messa
15 aprile Lunedì Santo 17:30 Unzione dei Malati
18:00 Via Crucis
18 aprile Giovedì Santo 18:00 S. Messa in Cena Domini [segue l’adorazione eucaristica fino alle 22:30]
19 aprile Venerdì Santo 18:00 Liturgia della Passione [lettura della passione, adorazione della croce e comunione]
20 aprile Sabato Santo 9:30 Confessioni [fino alle 12:00]
22:00 Veglia Pasquale [benedizione del fuoco; annuncio pasquale; liturgia della Parola; liturgia battesimale; Eucaristia]
21 aprile Pasqua di Risurrezione 8:30 e 10:30 SS. Messe
22 aprile Lunedi dell’angelo 10:30 S. Messa

Magdala: il sito archeologico

Il Mantello della Giustizia, Marzo 2019

1di Stefano Tarocchi • All’inizio del mese di febbraio, il p. Frédéric Manns, professore emerito di esegesi neotestamentaria presso la Facoltà di Scienze Bibliche e Archeologia di Gerusalemme dello Studium Biblicum Franciscanum, ed uno dei massimi specialisti del rapporto tra giudaismo e cristianesimo nei primi secoli, durante la sua breve permanenza a Firenze presso la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale –  dove ha tenuto un corso alla Licenza in Teologia Biblica («Sinfonia del simbolo nuziale nel quarto Vangelo») – , ha dato una interessante conferenza sugli scavi della città di Magdala in Galilea: «Magdala. Monumenti e documenti». Qui ho inteso darne un breve compendio.

Cominciamo dalla stessa cittadina di Magdala. Fino a quando, nel 18 d.C., Erode Antipa, figlio di Erode il Grande costruisce la città di Tiberiade – il nome Tiberiade venne scelto per onorare l’imperatore romano Tiberio –, con lo scopo di farne la capitale del regno di Galilea, era l’unica città sulla sponda occidentale del Mar di Galilea e il terzo insediamento più importante della bassa Galilea dopo Sefforis e Tiberiade, a pochi chilometri a sud di Cafarnao. Magdala, era situata lungo la Via Maris, l’antica via commerciale che collegava l’Egitto alla Siria. La stessa strada da Nazareth o da Cana a Cafarnao correva proprio accanto all’ingresso settentrionale dell’attuale sito archeologico. Lo storico Giuseppe Flavio (37-100) riferisce che essa aveva quarantamila abitanti.

Gli archeologi francescani Virgilio Corbo e Stanislao Loffreda, che hanno dato un contributo insostituibile agli scavi di Cafarnao (ben diciannove campagne di scavo dal 1968 al 1986), nel 1973 iniziarono a Magdala degli scavi nella proprietà della Custodia di Terra Santa. Fu allora che ne scoprirono il porto sul lago di Tiberiade, le terme romane e parte della stessa Via Maris, la piazza centrale della città, le strade e alcuni edifici del primo secolo. In una casa fu rinvenuto anche un mosaico, raffigurante una barca a vela.

È stato, tuttavia, alla fine dello scorso decennio degli anni Duemila, quando la congregazione messicana dei Legionari di Cristo decise di creare un centro di spiritualità nella zona di Magdala, fu scoperta una delle più antiche sinagoghe di Galilea. Si pensa che la sinagoga fosse esistita a partire dal “periodo del secondo tempio” – che inizia nel 597 a.C., prosegue con l’esilio babilonese e dura fino alla distruzione del Tempio da parte dei romani, nel 70 d.C. Molti ritengono che sia stata originariamente costruita agli inizi del I secolo: si trattava di una struttura molto semplice, che venne totalmente rinnovata nell’anno 40. Essa è attualmente la più antica scavata in Galilea e una delle sette del primo secolo in tutta Israele.

All’interno della sinagoga fu trovata anche una moneta, coniata a Tiberiade nel 29 d.C. Si dimostrava così la datazione esatta, che corrisponde al tempo del ministero pubblico di Gesù: peraltro, i vangeli non vi menzionano mai la sua presenza.

Altro recente ritrovamento significativo in questo settore dell’antica città di Magdala, è una grande pietra, contenente probabilmente fra le altre la più antica raffigurazione artistica del tempio. La parte anteriore della pietra raffigura, fra altri il più antico simbolo scolpito della menorah a sette bracci del tempio, peraltro mai trovata, ed altri particolari del culto del tempio.

Dopo aver accennato ai “monumenti” veniamo adesso ai “documenti”.2

Sappiamo che il Nuovo Testamento fa una menzione di un luogo chiamato Magdala. Il vangelo di Matteo così scrive: «congedata la folla, Gesù salì sulla barca e andò nella regione di Magdala» (Mt 15,39). Alcuni manoscritti, però, trasmettono il nome del luogo come “Magadàn”: tali testimonianze vengono preferite nella traduzione CEI, già dall’edizione del 1974. Anche se alcuni commentatori affermano che i due nomi si riferiscono allo stesso luogo, altri respingono la sostituzione di Magdala per Magadàn.

Il racconto parallelo di Marco 8, 10 nella maggior parte dei manoscritti dà un nome di luogo ancora diverso: «Gesù salì sulla barca con i suoi discepoli e subito andò dalle parti di Dalmanutà (Mc 8,10)».  Esistono comunque codici del vangelo di Marco, leggono sia Magdala che Magadàn: ciò è dovuto al fenomeno dell’assimilazione, da parte di copisti con il testo di Matteo.  Esistono interpretazioni che sostengono che Dalmanutà sia una traslitterazione della parola siriaca che indicava il “porto”.

Peraltro, Magdala, nota anche con il nome greco di Tarichea, è stata segnalata come un luogo per la salatura del pesce. Anche Giuseppe Flavio si riferisce ad una ricca città galileiana, conquistata dai Romani nella guerra ebraica (66-73 d.C.) per via della sua fiorente attività di pesca. Lo storico non riferisce il suo nome ebraico.

Il Talmud, che rappresenta, accanto alla Bibbia, il testo fondamentale dell’ebraismo sul quale si basa tutta la tradizione morale e giuridica, distingue tra due Magdala:  Migdal Gadara a est, sul fiume Yarmuk vicino a Gadara (nel Medioevo “Jadar”, ora Umm Qais), acquisendo così il nome di Magdala Gadar;  e Migdal Nunayya(“Magdala dei pesci”) vicino a Tiberiade, localizzata  sulla riva del Mar di Galilea (così il trattato Pesahim 46a). 

Anche Giuseppe Flavio nella Guerra Giudaica riporta il fatto che c’erano molte navi a Magdala durante la battaglia della prima rivolta ebraica: duecentotrenta. Infatti, anche i cantieri navali erano una industria della zona.

Luca, riferendo l’attività di Gesù, menziona, all’interno del gruppo delle seguaci  di Gesù,  una donna di Magdala, Maria: «egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni» (Lc 8,1-3).Maria di Magdala è elencata come la prima tra le donne che hanno accompagnato Gesù e sostenuto il suo ministero dalle proprie risorse.

Il Vangelo di Giovanni 20, 1 narra che «il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino». E continua il testo, dopo aver descritto la corsa di Pietro e del discepolo amato: «Maria stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto». Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo». Gesù le disse: «Maria!». Ella si voltò e gli disse in ebraico: «Rabbunì!» – che significa: «Maestro!». Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”». Maria di Màgdala andò ad annunciare ai discepoli: «Ho visto il Signore!» e ciò che le aveva detto» (Gv 20,11-18).

Per questo motivo, già nel III secolo, Maria Maddalena fu descritta da Ippolito di Roma come “apostola degli Apostoli”. Eppure, la sua identità reale si è persa, a partire da quando papa Gregorio Magno pronunciò un discorso nel 591, che espresse la sua convinzione che la Maria che era stata curata da sette demoni fosse la stessa persona della penitente – erroneamente identificata come una prostituta perfino dal Caravaggio –, che unse i piedi di Gesù. Nell’antichità, fra l’altro, la malattia era ritenuta come causata dalla presenza di uno spirito cattivo: Gesù la guarisce e lei lo seguì come discepola. Il tema meriterebbe un approfondimento che rimandiamo ad altre occasioni.

Così il vangelo di Luca: «una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo» (Luca 7,36-50). Questa figura di donna, che non ha nome nel Vangelo, viene poi confusa con Maria di Betania, la sorella di Marta e Lazzaro, che «prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo» (Giovanni 12,3-8). Ma tutto questo esula dai documenti in nostro possesso, che ci restituiscono il vero volto di Maria di Magdala.