Abramo e la fede: (1) la Lettera agli Ebrei

La fede di Abramo: (1) la Lettera agli Ebrei

Mantello della Giustizia, Settembre 2019

43_il-sacrificio-di-isacco_G67C0262-e1457973038722di Stefano Tarocchi • Già in precedenza mi sono occupato della lettera agli Ebrei (Il Cristo, «colui che apre la strada»:http://www.).

Stavolta vorrei affrontare il tema di Abramo e della sua fede, così come viene presentato attraverso la medesima lettera agli Ebrei, che il canone del Nuovo Testamento colloca dopo quelle dell’apostolo Paolo; e, successivamente del medesimo concetto nella lettera ai Romani.

La lettera agli Ebrei, com’è noto, viene definita dagli studiosi come un’omelia, o  un “trattato per i cristiani di origine ebraica ed etnica ora ellenizzati” (Attridge), sul sacerdozio di Cristo, basato sul modello del sacerdozio di Melchisedek (Eb 7,15-17), e quello di tutti i battezzati (Eb 10,24).

Solo la conclusione dello scritto la rendono una vera e propria lettera: «Vi esorto, fratelli, accogliete questa parola di esortazione; proprio per questo vi ho scritto brevemente. Sappiate che il nostro fratello Timoteo è stato rilasciato; se arriva abbastanza presto, vi vedrò insieme a lui. Salutate tutti i vostri capi e tutti i santi. Vi salutano quelli dell’Italia. La grazia sia con tutti voi» (Eb 13,22-25).

Si tratta di una scarna aggiunta, che attraverso Timoteo sembra coinvolgere l’apostolo Paolo – del tutto estraneo allo scritto, come si ritiene fin dall’antichità – e credenti della nostra penisola, probabilmente di Roma, assurti a co-mittenti dello scritto, del resto anonimo.

Nel capitolo 11, contenuto nella sezione esortativa della lettera (Eb 10,19-13,17), si parla della fede, definita il «fondamento di ciò che si spera e la prova di ciò che non si vede» (Eb 11,11).

Abramo è anzitutto descritto come colui che, «chiamato da Dio», gli «obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità»: così dice il testo della lettera. E aggiunge che Abramo «partì senza sapere dove andava» (Eb 11,8). Ecco così espresso il totale affidarsi a Dio di questo straniero, emigrato dalla sua terra lontana, che diventerà, secondo la promessa divina, padre di molti popoli («non ti chiamerai più Abram, ma ti chiamerai Abramo, perché padre di una moltitudine di nazioni ti renderò»: Gen 17,5).

La stessa fede racchiude, e dunque caratterizza, l’abitare nella terra promessa come in una terra straniera nell’attesa della città dalle salde fondamenta, progettata e costruita da Dio medesimo.0acda03247c07474fe25d7f8c7d18269_XL

La fede di Abramo si completa nella fede della moglie Sara, così da far sì che da un «uomo solo, già segnato dalla morte», nasca una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia sulla riva del mare (cf. Eb 11,11.12).

Secondo la lettera agli Ebrei, Abramo e i padri antichi sono morti senza avere ottenuto i beni promessi , «come stranieri e pellegrini sulla terra» (Eb 11,13). È in questo modo che l’affidarsi a Dio raggiunge il suo culmine e il suo compimento.

Ma è più avanti, nel verso 17 del medesimo capitolo, che si completa la definizione della fede di Abramo in maniera decisamente più stringente: «per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: Mediante Isacco avrai una tua discendenza.  Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo» (Eb 11,17-19).

L’uomo su cui Dio aveva gettato il suo sguardo, come aveva detto l’apostolo Paolo, «ebbe fede, saldo nella speranza contro ogni speranza» (Rom 4,18).

Peraltro – sia detto incidentalmente, e in conclusione –, la versione CEI usa, a proposito di Abramo, una traduzione dal testo greco («Abramo fu messo alla prova» [peirazòmenos]) che avrebbe dovuto ispirare la nuova versione del Padre Nostro, anziché l’infelice soluzione che si prospetta.

“Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Matteo 25)

Il giudizio di Cristo sulla storia degli uomini

Il mantello della giustizia- Agosto 2019

220px-BambergApocalypseFolio013vLambAndBookWith7Sealsdi Stefano Tarocchi • Il libro dell’Apocalisse descrive con lucidità estrema la scena dell’abbraccio finale tra l’umanità e Dio: siamo nella visione del sigillo sopra i centoquarantaquattromila (dodici per dodici per mille), rappresentanti delle dodici tribù d’Israele che ha fatto versare fiumi d’inchiostro. Il numero significa la totalità (mille) dell’antico (il primo dodici) e del nuovo Israele (la chiesa di Cristo, il secondo dodici).

Essi sono seguiti da una «moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani» (Ap 7,9).

È il motivo per cui letteralmente il testo originale suona come «dopo queste cose io vidi: e guarda anche tu» (Vanni), quando «uno degli anziani allora si rivolse a me [ossia a Giovanni] e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi». (Ap 7,13-17).

Il libro di Giovanni ripropone quasi al suo epilogo una visione analoga: «e vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate». E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,1-5).

Il linguaggio è naturalmente quello tipico del libro della rivelazione di Giovanni – “apocalisse” significa esattamente questo –, ma il tema è percorso nella lunga sezione del vangelo di Matteo che descrive gli avvenimenti dei tempi ultimi.SMat

L’evangelista Matteo ha negli occhi la distruzione della città santa del 70 d.C., quando inserisce l’invito di Gesù alla vigilanza (Mt 24,42: «Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà»), nell’attesa della venuta del Signore, che avverrà al momento in cui «il Figlio dell’uomo [verrà] sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria» (Mt 24,30).

Questo insegnamento procede anche nella parabola delle dieci ragazze sagge (Mt 25,1-12), che non a caso ripete il medesimo invito: «Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora» (Mt 25,13; cf. Mc 13,35.37; Lc 12,37).

La vigilanza che esclude il sonno ritorna nell’agonia di Gesù al Getsemani: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me» (Mt 26,38; cf. Mt 26,41; Mc 14,34.38). Il termine greco deriva dal perfetto intransitivo del verboeghéirô, “risvegliarsi”, particolarmente significativo perché è uno dei verbi usato per la risurrezione di Gesù.

La vigilanza è quella di chi (il servo «servo buono e fedele») ha fatto fruttare ogni dono ricevuto – ecco così nel seguito del racconto di Matteo la parabola dei talenti (Mt 25,14-30) –, a differenza del servo «malvagio e pigro (Mt 25,26). Naturalmente il “talento” evangelico indicava una moneta assai preziosa del tempo. Pare infatti che un “talento” equivaleva a seimila denari, cioè al salario di seimila giornate lavorative: ovvero fino a venti anni di lavoro.

È a questo punto che Matteo racconta la parabola del giudizio (Mt 25,31-46), quando si compirà il tempo dell’attesa, che è sconosciuto a tutti eccetto al Padre: «quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, ma solo il Padre» (Mt 24,36).

La parabola, come è ben noto, si svolge di fronte al trono della gloria del Figlio dell’uomo, quando davanti a lui nella sua condizione definitiva, si raduneranno tutti i popoli della terra.

Egli separerà come il pastore le “pecore” dai “capri” – la traduzione CEI (“capre”) non è esatta –: infatti, solo le prime devono essere munte. Analogamente non può esserci nessun contatto con coloro che vengono chiamati alla destra del Figlio dell’uomo – i benedetti del Padre – a ricevere il regno che è stato preparato per loro fino dalla creazione del mondo e gli altri, alla sinistra.

Il racconto si distende attraverso sette elementi diversi, e tuttavia coerenti fra sé e perfettamente misurabili con le esperienze dei nostri giorni: la fame, la sete, la condizione di straniero, la nudità, la malattia e il carcere. In particolare, il dar da mangiare agli affamati e il vestire gli ignudi, particolari opere di misericordia, sono menzionate particolarmente nella letteratura profetica, e non solo nella religione ebraica…

Queste condizioni di inferiorità sono state soccorse da coloro che hanno compiuto un solo gesto nei confronti di uno solo dei fratelli più piccoli del Signore che giudica: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi più piccoli l’avete fatto a me. Il bene che è stato fatto, oppure negato, raggiunge il figlio dell’uomo attraverso la condizione di coloro che ne prendono il posto. «L’identificazione di Gesù con i fratelli bisognosi si radica nella dedizione senza confini che egli ha rivolto a questi uomini». Il testo dice «questi» (uno solo di questi miei fratelli più piccoli»: Mt 25,40), quasi a significare la loro presenza nel momento del giudizio: sarà questa presenza a rendere concreto l’incontro con Gesù, che giudica le azioni umane in quella «solidarietà sconfinata con tutti i bisognosi sia nella Chiesa sia anche nel mondo» (Gnilka). Sta qui la fonte di un giudizio in atto perennemente sul passato e, soprattutto sul presente, pena la riduzione del messaggio cristiano a pura convenzione.

Successivamente la narrazione evangelica racconta la condizione di coloro che non hanno saputo accogliere le situazioni disagiate dei loro fratelli. La risposta di questi è eloquente è eloquente quanto senza speranza: quando mai ti abbiamo visto in quelle condizioni e non ti abbiamo servito? Il verbo usato qui è quello del servizio ecclesiale, ossia la diakonìa.

La risposta del Figlio dell’uomo non ammette nessuna replica, e difatti si conclude con l’avvio degli ultimi chiamati in causa al supplizio eterno, mentre, gli altri, i giusti andranno verso la vita eterna.

Voglio concludere richiamando la prima lettera di Giovanni: «se uno dice: «Io amo Dio» e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20). È la medesima logica che si evidenzia già nel Padre nostro: «rimetti a noi i nostri debiti come noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori» (Mt 6,12).

La condizione del discepolo è sempre consapevole del comando del Signore: «se tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24), e contemporaneamente egli prende coscienza del fatto che – ancora la prima lettera di Giovanni – : «noi amiamo perché egli ci ha amati per primo» (1 Gv 4,19)

Quando «Dio asciugherà ogni lacrima dagli occhi degli uomini» (Apocalisse 21)

Il Mantello della Giustizia – Luglio 2019

GerusalemmeCelesteBambergadi Stefano Tarocchi • Il percorso sui testi giovannei, che caratterizza le liturgie del tempo pasquale nelle domeniche Quinta e Sesta di Pasqua, in quest’anno 2019 è stato particolarmente impreziosito con la lettura di larghi tratti del capitolo 21 del libro dell’Apocalisse di Giovanni, l’ultimo scritto del Nuovo Testamento.

Userò in queste brevi note una delle preziose traduzioni di Ugo Vanni, uscita postuma da pochi mesi in due volumi (il primo sul testo e sulla sua struttura, il secondo il commentario) per i tipi della Cittadella: traduzioni, si noti, differenti e complementari, e che – soprattutto nel primo volume – cercano di rendere la preziosità ruvida ed evocativa del testo originale, con tutti i richiami che rivolge al lettore/interprete. E Vanni ci riesce ottimamente.

Dopo aver descritto la nuova creazione, nei primi nove versetti del capitolo 21 dell’Apocalisse, con il richiamo al «cielo nuovo e della nuova terra» – non c’è più il mare, con la sua simbologia negativa –, ecco lo sguardo del lettore del libro si sposta verso Giovanni, il veggente del libro dell’Apocalisse, che contempla la città Santa, ad un tempo sposa e città, che discende dal cielo, dalla stessa altezza di Dio «pronta come una sposa che è diventata bella per il suo sposo».

È in quel momento che il libro rammenta la luce potente che deriva dal trono («la città non ha bisogno del sole, né della luna che facciano luce: infatti la gloria di Dio la illuminò e la sua lucerna è l’Agnello»: Ap 21,23), e annuncia la grande speranza divina: l’abitazione di Dio con gli uomini, che compirà realmente l’alleanza. Così egli sarà il Dio con loro e il loro Dio, e tutti gli uomini della terra saranno il suo popolo.

È allora che il libro dell’Apocalisse precisa l’intervento divino nella storia redenta: Dio asciugherà ogni lacrima dagli occhi degli uomini: non ci sarà più la morte, né il dolore e il lamento, né la fatica dell’esistenza: infatti, nella nuova creazione «le cose di prima passarono».

Proprio in quell’attimo la voce che proviene dal trono proclama: «Guarda: sto facendo nuove tutte le cose».

Quel Dio, Alfa e Omega della storia, e suo inizio e compimento, e che darà in dono i suoi beni a chi avrà condiviso la vittoria col Cristo – come troviamo sette volte nelle sette lettere alle sette chiese – : «Colui che vince avrà in eredità tutto questo; io sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio». Questo significa un’alleanza con ogni singola creatura della storia umana.

Al contempo si annuncia la sorte per quanti, invece, dovranno uscire dalla città di Dio, cui è riservata la seconda morte, come dice Francesco d’Assisi nel Cantico delle creature: «guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no‘l farà male». Così il libro della rivelazione di Giovanni: «i vili, quelli senza fede, gli abominevoli, gli uccisori, gli impudichi, i fattucchieri, gli idolatri e i menzogneri».

Il grande affresco del capitolo 21 di Apocalisse si chiude con uno sguardo alla città santa, nella sua duplice immagine di donna e di città, appunto l’abitazione di Dio: «la città santa, la Gerusalemme nuova, la vidi anche discendente dal cielo, da Dio, già preparata come una fidanzata che si è adornata per il suo sposo.   E udii anche una voce grande dal trono che diceva: «Ecco la tenda di Dio insieme agli uomini! E metterà la tenda con loro ed essi saranno i suoi popoli ed egli Iddio con loro, sarà il loro Dio».

L’abitare di Dio con gli uomini utilizza la stessa terminologia del prologo del Vangelo di Giovanni: «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). I termini del testo originale greco, verbo e sostantivo, infatti, sono ricalcati sul termine ebraico shekhinah, ovvero la dimora divina. Il totalmente Altro divino diventa l’assolutamente Vicino.arton148886

C’è un ultimo sguardo che il veggente di Pàtmos dedica alla città santa: uno dei «sette angeli – quelli che avevano le sette coppe, che erano pieni delle sette piaghe ultime… mi trasportò nello Spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa Gerusalemme: discendeva dal cielo, da Dio avente la gloria di Dio (Ap 21,9-10).

Quella città che abitano Dio e l’Agnello che, ha in Dio e nell’Agnello la sua sola ed unica misura.

Gesù ai suoi discepoli: «Amatevi gli uni altri come io ho amato voi»

Un comandamento nuovo, eppure antico: «amatevi … come io ho amato voi»
 

bibbiadi Stefano Tarocchi • La liturgia delle domeniche di Pasqua, centrata sul vangelo secondo Giovanni, ha quest’anno messo in luce uno dei temi fondamentali del messaggio che Gesù lascia ai discepoli nella vigilia della passione.

Esso si fonda sulla rilettura del quarto evangelista del comandamento dell’amore che ci è trasmesso nella tradizione sinottica: «qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi» (Mc 12,28-31).

È ben noto che Giovanni non trasmette in questo contesto nessuna parola sull’Eucaristia: Gesù ha parlato nella sinagoga di Cafarnao del pane della vita: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51)

Nei discorsi del quarto Vangelo pronunciati nella cena di addio di Gesù ai discepoli troviamo invece il racconto dei gesti di Gesù e la loro spiegazione: «voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,13-15). A più riprese viene richiamato quel comando: «come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9). E, ancora, «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando» (Gv 15,12-14).

Questo comando di Gesù, derivato dal gesto di quando ha lavato i piedi ai discepoli, assume un significato nuovo appena Giuda esce dal gruppo dei discepoli e dalla cena con Gesù, perché «quando fu uscito, Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma, come ho detto ai Giudei, ora lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,31-35). PasqB6-w-300x210

Ora, il comandamento nuovo, è la sintesi del duplice comandamento della tradizione sinottica, verificata dall’amore stesso di Gesù. Ne abbiamo un eccellente riprova quando più avanti si legge: «il Padre stesso infatti vi ama, perché voi avete amato me e avete creduto che io sono uscito da Dio» (Gv 16,27).

Questa definizione, tipicamente giovannea, della novità del comandamento dell’amore secondo le dimensioni dell’amore di Cristo («Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri»: Gv 13,34) si registra anche nelle prime due lettere attribuite al quarto evangelista. Ma qui c’è un’interessante paradossale mutazione: «carissimi, non vi scrivo un nuovo comandamento, ma un comandamento antico, che avete ricevuto da principio. Il comandamento antico è la Parola che avete udito. Eppure, vi scrivo un comandamento nuovo, e ciò è vero in lui e in voi, perché le tenebre stanno diradandosi e già appare la luce vera» (1 Gv 2,7-8).

Siamo qui in presenza di un vero e proprio paradosso: il comandamento “nuovo” è al tempo stesso “antico”, perché appartenente alla tradizione dei discepoli del quarto evangelista. Il “comandamento antico” è la riproposizione senza limiti di quello che Gesù tra trasmesso come nuovo, dando sé stesso come misura.

È così che la seconda, brevissima, lettera di Giovanni, così riporta le parole del vecchio discepolo: «ora prego te, o Signora, non per darti un comandamento nuovo, ma quello che abbiamo avuto da principio: che ci amiamo gli uni gli altri» (2 Gv 1,5).

Del resto, questo era l’esordio della prima lettera del medesimo apostolo Giovanni: «quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi –, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo» (1 Gv 1,1-3).