Lettera di Francesco sulla sacra Scrittura

«Aprì loro la mente per comprendere le Scritture»

Il Mantello della Giustizia, Novembre 2019

9788831552523di Stefano Tarocchi • «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni» (Lc 24,44-48).

Con il racconto nel Vangelo di Luca dell’incontro del Signore risorto con i discepoli, che lo attendono nel luogo dove già ha trascorso con loro la cena avanti la sua passione il Papa Francesco apre la lettera apostolica Aperuit illis – lett. «Aprì loro….» – nella quale istituisce la domenica della parola di Dio. Così scrive il papa: la «III Domenica del Tempo Ordinario [nel 2020 sarà il 26 gennaio] sia dedicata alla celebrazione, riflessione e divulgazione della Parola di Dio».

Se il percorso del papa muove dalla Costituzione dogmatica conciliare sulla divina rivelazione (Dei Verbum) e passa attraverso insegnamento dell’esortazione di Papa Benedetto dopo il sinodo sulla Parola di Dio (Verbum Domini), lascia trasparire un percorso mai compiuto del tutto, all’interno della Chiesa cattolica.

Si tratta di un percorso che non si è mai perso nella grande Chiesa, a cominciare da quando san Girolamo, dopo la morte di papa Damaso I, si trasferì in Terra santa, a Betlemme, dove morì il 30 settembre 420, per completare la traduzione delle Scritture nella lingua parlata dal popolo: la Vulgata latina, appunto. Per una di quelle eterogenesi delle vicende umane la lingua è divenuta poi estranea al popolo di Dio. C’è voluto un percorso durato secoli prima che il Vaticano II si dedicasse raccomandare le traduzioni nelle lingue parlate comunemente: «è necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla sacra Scrittura. Per questo motivo, la Chiesa fin dagli inizi fece sua l’antichissima traduzione greca dell’Antico Testamento detta dei Settanta, e ha sempre in onore le altre versioni orientali e le versioni latine, particolarmente quella che è detta Volgata. Poiché, però, la parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo, la Chiesa cura con materna sollecitudine che si facciano traduzioni appropriate e corrette nelle varie lingue, di preferenza a partire dai testi originali dei sacri libri (Dei Verbum 22).

S. Efrem il Siro († 373), citato da Papa Francesco, così scriveva: «chi è capace di comprendere, Signore, tutta la ricchezza di una sola delle tue parole? È molto di più ciò che sfugge di quanto riusciamo a comprendere. Siamo proprio come gli assetati che bevono a una fonte. La tua parola offre molti aspetti diversi, come numerose sono le prospettive di quanti la studiano. Il Signore ha colorato la sua parola di bellezze svariate, perché coloro che la scrutano possano contemplare ciò che preferiscono. Ha nascosto nella sua parola tutti i tesori, perché ciascuno di noi trovi una ricchezza in ciò che contempla» (Commenti sul Diatessaron, 1, 18).papa-francesco-san-pietro-e-paolo-evangeliario-110086.660x368

Se la fede, scrive Paolo ai Romani, «viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo» (Rom 10,17), il papa pone in rilievo la celebrazione eucaristica, con la duplice mensa del pane e della parola: «la Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della Parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (DV 21).

A tale proposito papa Francesco aggiunge: «l’omelia… riveste una funzione del tutto peculiare, perché possiede «un carattere quasi sacramentale» (Evangelii Gaudium 142)… Per molti dei nostri fedeli, infatti, questa è l’unica occasione che possiedono per cogliere la bellezza della Parola di Dio e vederla riferita alla loro vita quotidiana. È necessario, quindi, che si dedichi il tempo opportuno per la preparazione dell’omelia. Non si può improvvisare il commento alle letture sacre. A noi predicatori è richiesto, piuttosto, l’impegno a non dilungarci oltre misura con omelie saccenti o argomenti estranei» (Aperuit illis 5).

Se è vero, come troviamo nelle “lettere pastorali” della tradizione paolina, che «tutta la Sacra Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare» (2 Tm 3,16), è il Cristo la parola definitiva data agli uomini.

È del resto così che si esprime la lettera agli Ebrei: «Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo» (Eb 1,1-2).

Infatti, così scrive san Girolamo: «se al dire dell’apostolo Paolo, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio, colui che non conosce le Scritture, non conosce la potenza di Dio, né la sua sapienza. Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo» (Commento ad Isaia, Prologo).

È così che la prima generazione cristiana ha inteso le parole di Gesù, a cominciare dalle parole con cui nel vangelo di Marco di narra l’esordio del suo ministero: «il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15).

E il papa ancora aggiunge, citando sant’Agostino a proposito della Madre di Dio: «qualcuno in mezzo alla folla, particolarmente preso dall’entusiasmo, esclamò: “Beato il seno che ti ha portato (cf. Lc 11,27)”. E lui: “Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio, e la custodiscono”. Come dire: anche mia madre, che tu chiami beata, è beata appunto perché custodisce la parola di Dio, non perché in lei il Verbo si è fatto carne e abitò fra noi, ma perché custodisce il Verbo stesso di Dio per mezzo del quale è stata fatta, e che in lei si è fatto carne» (Sul Vangelo di Giovanni, 10, 3).

È la stessa dimensione comunionale che si percepisce nell’Apocalisse: «ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).

Così infatti scrive lo stesso libro: «beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte: il tempo infatti è vicino… se qualcuno toglierà qualcosa dalle parole di questo libro profetico, Dio lo priverà dell’albero della vita e della città santa, descritti in questo libro (Ap 1,3; 22,19).

«Il giorno dedicato alla Bibbia – è ancora Francesco che parla – vuole essere non “una volta all’anno”, ma una volta per tutto l’anno, perché abbiamo urgente necessità di diventare familiari e intimi della Sacra Scrittura e del Risorto, che non cessa di spezzare la Parola e il Pane nella comunità dei credenti» (Aperuit illis 8).

Così infatti scrive lo stesso libro: «beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte: il tempo infatti è vicino… se qualcuno toglierà qualcosa dalle parole di questo libro profetico, Dio lo priverà dell’albero della vita e della città santa, descritti in questo libro (Ap 1,3; 22,19).

«Il giorno dedicato alla Bibbia – è ancora Francesco che parla – vuole essere non “una volta all’anno”, ma una volta per tutto l’anno, perché abbiamo urgente necessità di diventare familiari e intimi della Sacra Scrittura e del Risorto, che non cessa di spezzare la Parola e il Pane nella comunità dei credenti» (Aperuit illis 8).

Abramo e la fede: (2) la Lettera di san Paolo ai Romani

La fede di Abramo: (2) la Lettera ai Romani

Il Mantello della Giustizia, Ottobre 2019

san-paolo1di Stefano Tarocchi • Nello scorso numero della nostra rivista ho affrontato il tema della fede di Abramo nella lettera agli Ebrei (vedi). Questo scritto dell’apostolo, l’unico indirizzato ad una comunità che non è stata fondata da lui, ha una straordinaria importanza nel suo ministero e nel suo insegnamento. Qui possiamo solo accennare come alla fine del suo an­nuncio evangelico in Oriente (Rom 15,19), egli rivendica il suo diritto di an­nunciare legittimamente il Vangelo alle chiese d’origine pa­gana (cf. Rom 15,16-17): Giudei e pagani hanno lo stesso di­ritto davanti al Vangelo, perché partecipano ugualmente della salvezza di Cristo, attraverso la fede (cf. 1,16-17): nel vangelo, infatti, «si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: Il giusto per fede vivrà (Ab 2,4)» (Rom 1,17).

Dopo aver stabilito che «indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti» (Rom 3,21), l’apostolo conclude: «noi riteniamo che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge. Forse Dio è Dio soltanto dei Giudei? Non lo è anche delle genti? Certo, anche delle genti! Poiché unico è il Dio che giustificherà i circoncisi in virtù della fede e gli incirconcisi per mezzo della fede. Togliamo dunque ogni valore alla Legge mediante la fede? Nient’affatto, anzi confermiamo la Legge» (Rom 3,28-31). Ebbene, è stato scritto (R. Penna) che la lettera ai Romani comincia con questi versetti.

Ora, seguire il pensiero di Paolo non è mai stato semplice: basta dire che egli usa la parola “Legge” con diverse accezioni: può così parlare delle Scritture dell’Antico Testamento («la Legge e i Profeti», o soltanto la «Legge»).

Paolo così continua: «che diremo di Abramo, nostro progenitore secondo la carne? Che cosa ha ottenuto? Se infatti Abramo è stato giustificato per le opere, ha di che gloriarsi, ma non davanti a Dio. Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo credette a Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia» (Rom 4,1-3).

Qui l’apostolo rammenta espressamente il libro della Genesi: Abramo «credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia» (Gen 15,6). Nella lettera di Giacomo si dice esattamente l’opposto: «Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le sue opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare? Vedi: la fede agiva insieme alle opere di lui, e per le opere la fede divenne perfetta. E si compì la Scrittura che dice: Abramo credette a Dio e gli fu accreditato come giustizia, ed egli fu chiamato amico di Dio» (Gc 2,21-23).

Invece Abramo, secondo Paolo, è l’esponente della fede pura: egli credette in Dio. Scrive ancora l’apostolo: «noi diciamo infatti che la fede fu accreditata ad Abramo come giustizia. Come dunque gli fu accreditata? Quando era circonciso (cf. Gen 17,24) o quando non lo era? Non dopo la circoncisione, ma prima. Infatti, egli ricevette il segno della circoncisione come sigillo della giustizia, derivante dalla fede, già ottenuta quando non era ancora circonciso. In tal modo egli divenne padre di tutti i non circoncisi che credono, cosicché anche a loro venisse accreditata la giustizia ed egli fosse padre anche dei circoncisi, di quelli che non solo provengono dalla circoncisione ma camminano anche sulle orme della fede di nostro padre Abramo prima della sua circoncisione» (Rom 4,9b-12).

E l’apostolo così prosegue: «se dunque diventassero eredi coloro che provengono dalla Legge, sarebbe resa vana la fede e inefficace la promessa. La Legge infatti provoca l’ira; al contrario, dove non c’è Legge, non c’è nemmeno trasgressione» (Rom 4,14-15). Dal momento che nessuno può osservare tutta la Legge, Paolo scandalosamente afferma che è questa a provocare l’ira del Signore.Paul_Papyrus

Ma torniamo ad Abramo. Scrive ancora Paolo, a proposito della fede di lui, ma soprattutto riguardo al mistero che è Dio: «eredi … si diventa in virtù della fede, perché sia secondo la grazia, e in tal modo la promessa sia sicura per tutta la discendenza: non soltanto per quella che deriva dalla Legge, ma anche per quella che deriva dalla fede di Abramo, il quale è padre di tutti noi – come sta scritto: Ti ho costituito padre di molti popoli (Gen 17,5) – davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che non esistono» (Rom 4,16-17).

Davanti alla rilettura giudaica, contemporanea a Paolo, circa la fede che diventa paradossalmente un atto che merita ricompensa (così in Filone: 20 a.C. – 45 d.C.) e così mette in secondo piano l’azione totalmente gratuita di Dio («eredi … si diventa in virtù della fede, perché sia secondo la grazia»), l’apostolo afferma con forza che Abramo «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza (Gen 15,5)» (Rom 4,18).

Proprio la virtù della speranza («saldo nella speranza contro ogni speranza», principio così caro a Giorgio La Pira) diviene il centro del cammino del popolo di Dio, dall’Israele antico alla comunità dei discepoli del Signore, al di là di una visione esclusivamente centrata sul presente, cara per esempio allo stoicismo.

Per questo da Abramo si passa a ciascuno di noi: se infatti, Abramo «di fronte alla promessa di Dio non esitò per incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. Ecco perché gli fu accreditato come giustizia. E non soltanto per lui è stato scritto che gli fu accreditato, ma anche per noi, ai quali deve essere accreditato: a noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, il quale è stato consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione» (Rom 4,20-25).

Abramo è perciò alla base della nostra fede, nella certezza, salda come roccia, della risurrezione del Cristo, centro di tutta la storia come di ciascuno di noi e di tutti gli uomini.

Il Padre Nostro secondo Dante

Il Padre Nostro secondo il Purgatorio di Dante

 

San Paolo nella Divina Commedia

San Paolo nella Divina Commedia