giovedì 27 febbraio | V. per Treggiaia [Nn. dal 104 al 116; N. 100 P] |
martedì 3 marzo | V. I Maggio – V. Verdi |
giovedì 5 marzo | V. dei Pini |
martedì 10 marzo | V. dei Landi – V. delle Massucce – P. Aiaccia |
giovedì 12 marzo | V. della Liberazione – V. della Romola [dal n. 12] |
martedì 17 marzo | V. della Poggiona – Canigiana e Valline [Via per Treggiaia] – Pintello – Molino di Sugana – Ragli [V. Volterrana] |
venerdì 20 marzo | Tattoli e Fonte Antica – Monteprimo – Drappi – Gabbiola – [Cetine – Farnia – Golli] |
martedì 24 marzo | V. per Treggiaia [n. pari fino al 102] – V. Fratta – V. Mozza |
giovedì 26 marzo | P.zza IV Novembre – V. Corta – P.zza Peschi – V. della Chiesa |
martedì 31 marzo | V. per Treggiaia [Nn. Dispari] – V. per Cerbaia |
ore 15:00 | È possibile concordare un orario differente |
Quanto verrà raccolto, è destinato al Progetto “Adotta una finestra“ |
Benedizioni Pasquali 2020
Gesù Cristo, l’ebreo di Nazareth
Il Mantello della Giustizia, Febbraio 2020
Cristo, l’ebreo di Nazareth: in margine ad un recente volume
di Stefano Tarocchi • Scrive Paolo nella lettera ai Romani che «Cristo è diventato servitore dei circoncisi – lett. “della circoncisione” – per mostrare la fedeltà di Dio nel compiere le promesse dei padri» (Rom 15, 8). Paolo si basa «sul dato che il Gesù storico non è mai andato a predicare fuori dai confini di Israele». Ma è pur vero che «Gesù era ed è stato ebreo dall’inizio alla fine. È vissuto per Israele, è stato servitore dei circoncisi» (R. Penna).
L’apostolo già aveva scritto che «unico è il Dio che giustificherà i circoncisi in virtù della fede e gli incirconcisi per mezzo della fede» (Rom 3,30). E, a proposito di Abramo, che egli «divenne padre di tutti i non circoncisi che credono, cosicché anche a loro venisse accreditata la giustizia ed egli fosse padre anche dei circoncisi, di quelli che non solo provengono dalla circoncisione ma camminano anche sulle orme della fede del nostro padre Abramo prima della sua circoncisione» (Rom 4,11-12).
San Paolo ha più di un titolo per pronunciare queste affermazioni: fu infatti «circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo» (Fil 3,5).
È ciò che Gesù afferma di sé stesso, ad esempio, nel vangelo di Matteo: «non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 15,24). Per questa ragione, viene messo in rilievo il mandato missionario successivo, che ha un evidente carattere universale: «andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19-20).
Perciò «non è sufficiente confessare che Gesù è vero uomo: è un’affermazione troppo generica. Uomo significa che la personalità di ognuno può essere definita dalle singole culture che compongono le diversità. Ora Gesù non è solo un uomo, è un ebreo, un dato di realtà che va ha ribadito in maniera forte: colui che chiamiamo Nostro Signore è un ebreo. L’incarnazione è umanizzazione ma è anche storicizzazione e inculturazione» (R. Penna).
È la sensibilità che appartiene alle fondamenta della fede cristiana. Lo dice l’incipit del Vangelo di Matteo: «genealogia (lett. “libro delle origini”) di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1). E lo ripetono il Vangelo di Giovanni: «non dice la Scrittura: Dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide, verrà il Cristo?» (Gv 7,42), e la stessa Apocalisse: «Io sono la radice e la stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino» (Ap 22,16).
In quest’ottica il P. Frédéric Manns, dell’ordine dei frati minori, archeologo ed esegeta dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme ha recentemente pubblicato un saggio (L’ebreo di Nazaret. Indagine sulle radici del cristianesimo, Edizioni Terra Santa, Milano 2019) che muove dal punto di vista precedentemente messo in luce.
Il padre Manns si muove su linee concentriche: dapprima delinea il quadro generale, a cominciare da un inquadramento della «Galilea all’epoca di Gesù» e il contesto culturale di quello spazio particolare della terra del Vangelo. Ecco pertanto lo sguardo alla frequentazione di Gesù al culto sinagogale e l’adesione alla preghiera dello Shemà, la professione dell’unico Dio («ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore»: Dt 6,4), e, infine, la conoscenza da parte di Gesù delle tradizioni targumiche – testimonianza di quando il popolo ebraico abbandonò progressivamente l’ebraico a favore dell’aramaico come lingua parlata – , mettono in luce un orizzonte interpretativo su Gesù, forse finito un po’ dimenticato.
Manns si interroga anche sul ruolo di Gesù sempre all’interno della sua ebraicità, come discepolo del Battista, oppure su quanto si possa essere avvicinato al movimento del fariseismo, nella sua duplice scuola, quella di Hillēl (60 a.C. – 7 d.C.) e quella di Shammai (50 a.C. – 30 d.C.), – il secondo si distingue dal primo per un atteggiamento più rigorista – oppure al movimento tipicamente galilaico dei chassidim, i “pii”. Significativamente però Gesù non viene mai chiamato così nei Vangeli, bensì “giusto” («non avere a che fare con quel giusto, perché oggi, in sogno, sono stata molto turbata per causa sua»: Mt 27,19; da notare che però Manns scrive: 27,24).
Quest’analisi approfondita non può dimenticare anche le parabole, come del resto il modo di interpretare le Scritture dell’Antico Testamento. A proposito delle prime, così scrive Manns: «il linguaggio parabolico è allusivo ed enigmatico: con le parabole Gesù non parla apertamente, Egli dice e non dice, svela e nasconde, manifesta e occulta… Gesù non fa seguire alle parabole la spiegazione: solo i discepoli la ricevono in privato, nella casa. Non si possono quindi considerare le parabole di Gesù strumenti didattici geniali, quasi che fossero esempi semplici per condurre l’ascoltatore ad un insegnamento dimostrato poi in termini più concettuali… La parabola è un modo di esprimersi che utilizza esempi concreti ed è basata sul paragone tra due situazioni: una nota e una non nota. Ha lo scopo di illustrare in modo chiaro concetti complessi, favorendo una comprensione immediata ma pure l’intento di consentire il passaggio degli ascoltatori da un modo – per loro abituale – di capire ed interpretare le parole espresse e gli eventi narrati a una profondità inaspettata».
Quanto sia attuale questo itinerario interpretativo, lo comprendiamo facendo riferimento alla storia, e non solo, a cominciare da quando nel settembre 1938 il papa Pio XI – Hitler era stato a Roma nel maggio precedente – pronunciò in Vaticano il famoso e memorabile discorso in cui affermò che «l’antisemitismo è inammissibile. Spiritualmente siamo tutti semiti». Come ha messo in luce qualche anno fa lo storico Giovanni Sale, della Civiltà Cattolica, l’Osservatore Romano pubblicò il testo omettendo la parte riguardante gli ebrei e altrettanto fece la stessa Civiltà Cattolica.
Di stretta, quanto inquietante, attualità invece, non tanto delle omissioni, ma il riapparire di scritte inquietanti sulle case dove abita una persona di origine (e/o di fede) ebraica.
Comprendere il Gesù della storia, e anche il Gesù della fede, significa poter leggere nel pieno senso del termine anche l’oggi del nostro esistere.
«Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me»
«Avevo fame e mi avete dato da mangiare»
di Stefano Tarocchi • «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”» (Matteo 25,31-40).
Difficilmente si potrebbe riassumere in uno spazio più breve un giudizio così forte sulla storia degli uomini e il suo impatto sulla vicenda dei singoli: è il primo quadro della nota parabola del giudizio finale.
Premetto solo che ho reso con “pecore e capri”, e non “pecore e capre”, i nomi dei due “gruppi” chiamati in gioco dal Vangelo attraverso la metafora del pastore e del suo gregge. Infatti, parlare di “pecore e capre” non ha molto senso. Infatti, il loro accoppiamento è sterile, e dunque non esiste nessuna possibilità di confondere le pecore con i capri, che restano quindi separati senza alcuna eccezione: la loro stessa natura li divide, prima ancora della parola del giudice.
La presenza di tutti i popoli davanti al Figlio dell’uomo, svelato nella sua gloria, crea la condizione per evidenziare la cifra dell’agire delle creature umane: «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».
È questo il criterio del giudizio divino, che emerge nel secondo quadro della parabola: «poi [il Figlio dell’uomo] dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me” (Mt 25,41-45).
La risposta del giudice divino, il Figlio dell’uomo, è più che eloquente. Specularmente opposta a quanti hanno agito nei confronti «uno solo di questi miei fratelli più piccoli», di quelli cioè che contano meno.
Possiamo attualizzare il Vangelo con le parole che papa Francesco ha usato recentemente davanti a specialisti del diritto: «la persona fragile, vulnerabile, si trova indifesa davanti agli interessi del mercato divinizzato, diventati regola assoluta (Evangelii Gaudium 56; Laudato si’, 56)». E ancora: «oggi, alcuni settori economici esercitano più potere che gli stessi Stati (Laudato si’, 196)» pertanto, «il principio di massimizzazione del profitto, isolato da ogni altra considerazione, conduce a un modello di esclusione – automatico! – che infierisce con violenza su coloro che patiscono nel presente i suoi costi sociali ed economici, mentre si condannano le generazioni future a pagarne i costi ambientali» (Francesco al Congresso mondiale dell’Associazione internazionale del diritto penale: 15 novembre 2019)
Significativamente le parole del Papa, muovendo da una condizione – quella dell’uomo recluso in carcere, che al tempo del Vangelo, era l’intervallo che separava dal processo, e si concludeva solo con la liberazione o la morte del carcerato –, finisce per dare contenuto e spessore a tutte le condizioni di “minorità” e povertà, insite nella debolezza umana bisognosa di assistenza.
Così il racconto dell’evangelista Matteo chiude in una maniera inequivocabile l’insegnamento della parabola: «e se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna» (Mt 25,46).
Questo assunto conclusivo traccia in sostanza una linea insormontabile fra la follia evangelica, che di norma passa sotto silenzio, e l’umana follia (o stravaganza) che fa notizia anche per motivi banali: il Vangelo è infinitamente più rivoluzionario di quanto viene percepito nella realtà quotidiana.