La Pasqua ai tempi del virus (II)

Il Mantello della Giustizia – Maggio 2020

Ancora sulla Pasqua ai tempi del virus

417p-K9DM-Ldi Stefano Tarocchi · Uno dei pochi elementi positivi che ci sono concessi da questi tempi surreali, ossia la lettura, e soprattutto di un testo recente e denso di Romano Penna (Amore sconfinato. Il Nuovo Testamento sul suo sfondo greco ed ebraico libro, San Paolo 2019) –  in particolare di una sezione dedicata alla lettera ai Romani –, ci permette di tornare sul tema della Pasqua.

Scrive l’apostolo nel cap. 5: «quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rom 5,6-10).

Ci sono due frasi in parallelo in questa sezione della lettera ai Romani, entrambe con il verbo «morì» al termine (in questo modo esso è reso l’elemento centrale del ragionamento): Cristo «morì per gli empi», «morì per noi». Paolo parla addirittura del «tempo stabilito», quasi alludendo alla «pienezza dei tempi dei tempi» di cui parla altrove, a proposito della nascita di Gesù (Gal 4,4).

Di fatto l’apostolo muove dall’affermazione che nel momento in cui eravamo ancora “deboli”, ossia incapaci di poter fare da soli a salvarci, avvolti nella nostra incapacità – elemento questo di grande attualità! – , Gesù Cristo è morto per noi. Ma il punto fondamentale consiste nel fatto che Egli è morto per gli empi e per i peccatori, proprio nel momento in cui la condizione umana veniva a trovarsi senza rimedio alcuno: «Egli morì per noi … nel tempo in cui eravamo ancora peccatori, ossia quando non c’era in noi nulla che fosse degno di amore, neppure un atto di pentimento» (R. Penna).

Rifacendosi anche alla tradizione classica, san Paolo parla anche della capacità che, anche se raramente, può verificarsi: ossia che ci può essere qualcuno disposto a morire per un uomo giusto, oppure una persona buona; ma lui paradossalmente è morto per noi mentre eravamo nel peccato e senza nessun merito da produrre.prof-romano-penna-paoline-via-del-mascherino-94-roma

Già in precedenza l’apostolo aveva affermato che la morte di Gesù aveva preso il posto dello strumento usato nel giorno dell’espiazione: il “propiziatorio”, ossia il coperchio dell’arca dell’alleanza, asperso con il sangue una volta all’anno dal sommo sacerdote (Rom 3,25). Un particolare degno di nota: dopo che l’arca andò perduta al tempo della caduta di Gerusalemme (587 a.C.) il sommo sacerdote, di fatto, aspergeva il pavimento. Quindi siamo stati riconciliati con Dio quando eravamo suoi nemici, totalmente immeritevoli della sua misericordia.

In questo modo «l’apostolo mette in luce il carattere scandaloso di quella morte e della sua intenzionalità, in quanto essa non ha richiesto alcuna predisposizione morale in coloro per i quali è avvenuta. L’amore di Dio è generoso e libero: esso cade su una situazione negativa senza chiedere nulla come condizione previa» (Penna).

Tutto questo richiama la confessione di fede della prima Lettera ai Corinzi: «Cristo morì per i nostri peccati» (1 Cor 15,3): ossia non a causa dei nostri peccati, ma per cancellare i nostri peccati.

Del resto, Paolo aveva esordito così nella stessa sezione: «giustificati [lett. “resi giusti”] dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rom 5,1-5).

E questo ancora una volta ci conduce alla fede, quella di Abramo nella fattispecie: «ecco perché gli fu accreditato [= ad Abramo] come giustizia. E non soltanto per lui è stato scritto che gli fu accreditato, ma anche per noi, ai quali deve essere accreditato: a noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, il quale è stato consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione».

Dunque, nel richiamo alla morte scandalosa di Cristo, sta anche la premessa straordinariamente adatta a leggere i segni di questi tempi: «ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rom 5,3-5).

La Pasqua ai tempi del virus (I)

Il Mantello della Giustizia – Aprile 2020

Pasqua di Risurrezione 2020

di Stefano Tarocchi · La cifra interpretativa sulla Pasqua che ci apprestiamo a vivere in questo clima surreale dell’anno 2020, segnato dalla diffusione della pandemia, ci viene spontaneo leggerla nella preghiera che venerdì 27 marzo Papa Francesco ha guidato, prima all’esterno sulla piazza San Pietro deserta, davanti solo all’immagine della Madre di Dio, la Salus populi romani, e al Crocifisso di S. Marcello al Corso, intrisi di pioggia, quando ha pronunciato le sue parole di esortazione e di supplica commentando la pagina della tempesta placata del vangelo secondo Marco (4,35-41). E poi quando ha guidato l’adorazione eucaristica con le invocazioni: «liberaci o Signore: dall’orgoglio e dalla presunzione di poter fare a meno di te, dagli inganni della paura e dell’angoscia, dall’incredulità e dalla disperazione, dalla durezza di cuore e dall’incapacità di amare». E quindi «salvaci o Signore: da tutti i mali che affliggono l’umanità, dalla fame, dalla carestia e dall’egoismo, dalle malattie, dalle epidemie e dalla paura del fratello, dalla follia devastatrice, dagli interessi spietati e dalla violenza, dagli inganni, dalla cattiva informazione e dalla manipolazione delle coscienze».

A coloro che di ogni parte hanno fatto sentire le loro vuote lagnanze sulle chiese dove non si celebra l’Eucaristia e sul popolo di Dio confinato in un prolungato digiuno del Pane della vita, è stata impartita una lezione senza pari. Quell’uomo, il vescovo di Roma, che ha mostrato al mondo tutta la sua debolezza di anziano, ha rivolto al Signore la sua preghiera di intercessione e di liberazione da questo e dai tanti mali che affliggono l’umanità: «come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti», così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme»: così ha parlato papa Francesco.

In fondo tutto questo ha come un’eco straordinaria nella parola di Dio – la seconda lettura assegnata alla Liturgia del Venerdì Santo –, con il versetto che la incornicia: «su questo argomento abbiamo molte cose da dire, difficili da spiegare perché siete diventati lenti a capire [lett.: “all’ascolto”]» (Eb 5,11). Potremmo rileggere questo passo ancora con le parole del papa in piazza S. Pietro: «abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato».

Tuttavia, il percorso del tratto della lettera agli Ebrei inizia da più lontano: «poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.  Infatti, non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.  Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno» (Eb 4,14-16).

Qui la celebre omelia agli Ebrei – conosciuta come  epistola, e, in verità, accostata a lungo impropriamente all’apostolo Paolo –, definisce il ruolo di Colui, che diventa sommo sacerdote non per nascita, né per propria scelta: «Cristo non attribuì a sé stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato, gliela conferì come è detto in un altro passo: Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchisedek» (Eb 5,5-6).

L’apostolo Paolo lo aveva ripetuto a suo modo in quella confessione cristologica che apre la lettera ai Romani, a proposito del «vangelo  di Dio – che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore (Rom 1,1-4).

Ma prima di giungere alla potenza della Risurrezione, con cui Gesù nella lettera agli Ebrei è stato costituito mediatore di salvezza (sommo sacerdote appunto, secondo l’ordine inedito di Melchisedek), ovvero «Figlio di Dio con potenza» secondo la lettera ai Romani, sempre mantenendo il suo ruolo, in quanto – di nuovo la lettera agli Ebrei – «messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato».

Ma è nel capitolo successivo dell’epistola agli Ebrei che viene riassunta la parabola umana del Figlio di Dio nei suoi momenti più alti: «nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito».

Il Cristo, che come ricordano i Vangeli della passione, ha accettato il disegno divino: «Padre mio, se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà» (Mt 26,42). E come dice ancora la lettera agli Ebrei: «pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek» (Eb 5,7-10).

La perfezione sacerdotale di Gesù, ottenuta dalla sua passione, opera la consacrazione sacerdotale dell’intero popolo di Dio: «con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati» (Eb 10,14).download (2)

E qui concludiamo ancora con le parole commoventi e forti di papa Francesco nella solitudine abitata dal mondo intero di piazza S. Pietro: «Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri. E possiamo guardare a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. È la forza operante dello Spirito riversata e plasmata in coraggiose e generose dedizioni. È la vita dello Spirito capace di riscattare, di valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate … Davanti alla sofferenza, dove si misura il vero sviluppo dei nostri popoli, scopriamo e sperimentiamo la preghiera sacerdotale di Gesù: «che tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21) … Nella sua croce siamo stati salvati per accogliere la speranza e lasciare che sia essa a rafforzare e sostenere tutte le misure e le strade possibili che ci possono aiutare a custodirci e custodire. Abbracciare il Signore per abbracciare la speranza: ecco la forza della fede, che libera dalla paura e dà speranza. «Perché avete paura? Non avete ancora fede? … Ci chiedi di non avere paura. Ma la nostra fede è debole e siamo timorosi. Però Tu, Signore, non lasciarci in balia della tempesta… Noi, insieme a Pietro, “gettiamo in Te ogni preoccupazione, perché Tu hai cura di noi” (cf. 1 Pt 5,7)».

Quando Gesù dice che dobbiamo passare dalla porta stretta

Cosa vuol dire Gesù quando dice che dobbiamo passare per la porta stretta? E perché dice che molti saranno lasciati fuori?

Risponde don Stefano Tarocchi, docente di Sacra Scrittura
Il detto di Gesù a cui il lettore fa riferimento ha una doppia ricorrenza nei vangeli di Matteo e di Luca. In quest’ultimo si trova nella sezione del viaggio di Gesù verso la sua passione: il Signore «passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme.  Un tale gli chiese: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. Disse loro: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi» (Lc 13,22-30).
All’interno del vangelo secondo Matteo il detto di Gesù sulla «porta stretta» si trova alla fine del discorso della montagna, il primo dei cinque discorsi di quel Vangelo: «entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano.  Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano!  Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci! Dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7,13-23).
Nel caso di Luca, il detto di Gesù è originato dalla domanda di uno sconosciuto. Questa domanda ha da sempre avuto il suo fascino, perché lascia sottintendere che alcuni sono convinti di essere compresi – essi soli, e probabilmente anche i loro amici! – nel numero degli eletti. E così escludono gli altri. Gesù parla di una «porta stretta» (Lc 13,24) attraverso la quale bisogna «lottare» per entrare. Così, non ci sarà nessuna preferenza, nessun diritto acquisito, nessun privilegio da vantare («abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza»): hanno sì ascoltato Gesù («tu hai insegnato nelle nostre piazze»), ma non si accenna a qualcuno che abbia voluto diventare suo discepolo.
Nel vangelo di Matteo si va addirittura oltre, fino alla pretesa di accampare diritti in nome di un falso apostolato, i cui esiti si percepiscono dai frutti: «ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti, dunque, li riconoscerete» (Mt 7,17-18). Pertanto, vengono esclusi anche quanti dicono: «Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demoni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?» (Mt 7,22). Questi tali sono rimasti sulla soglia dell’insegnamento di Gesù, ma non si sono impegnati in maniera reale al suo servizio.
Quindi non basta voler entrare per passare attraverso la porta, né tantomeno c’è da superare una calca: la lotta cui si fa riferimento è la stessa che il Signore ha affrontato nella sua passione (Lc 24,44: «entrato nella lotta, pregava più intensamente, e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadono a terra»), oppure – così il vangelo di Matteo – le «tribolazioni» e le persecuzioni che riempiono  il cammino dei discepoli. La salvezza, dunque, si conquista con la perseveranza. Certo, è significativo che se l’evangelista Matteo (vedi avanti) usa l’immagine della «porta della città», che, una volta chiusa, lascia accanto a sé un passaggio attraverso cui si accede uno alla volta, Luca parla invece della semplice «porta di casa», che viene chiusa con una catena. Matteo, in aggiunta, sull’immagine suggerita dalle antiche scritture, oppone alla «porta stretta», la «porta larga» e la «via spaziosa… che conduce alla perdizione» (Mt 7,14). Una sola porta e ben due porte, per lo stesso insegnamento del Signore.
Perciò «pochi sono quelli che trovano» la strada per la «vita» (Mt 7,14), o, detto in altro modo, «molti sono chiamati, ma pochi eletti» (Mt 22,14). E qui scaturisce un’altra conseguenza: in Luca, diversamente da Matteo, l’accogliere gli ultimi ospiti che possono entrare per la porta fa seguito all’esclusione dei primi che cercavano di entrare. Se Matteo parlerà solo di oriente e occidente (Mt 8,11: «io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli»), in riferimento ai luoghi dell’esilio a Babilonia e della schiavitù dell’Egitto, Luca parla dei quattro angoli della terra (Lc 13,29: «da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno»), da cui tutte le nazioni affluiranno alla porta del regno. Proprio per questo, anche se alcuni arriveranno per ultimi alla porta, diventeranno primi, al posto di coloro che accampano privilegi inconsistenti.
Così in ogni maniera l’annuncio evangelico è sempre aperto alla speranza. D’altronde, nel vangelo di Giovanni Gesù dice proprio di sé stesso: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10,9). E proprio Gesù, in qualche modo è entrato nella porta stretta della passione.

Il primo preside della Facoltà Teologica

Il Mantello della Giustizia, Marzo 2020

Ricordando don Benito Marconcini

 

9788801103366_0_221_0_75di Stefano Tarocchi • Mons. Benito Marconcini nasce a Montaione (città metropolitana di Firenze, diocesi di Volterra) il 18 aprile 1938. Compie gli studi classici all’università di Firenze, dove consegue la laurea in lettere. Successivamente ottiene la licenza al PIB e il dottorato all’Angelicum.

Nel 1965 diventa prefetto degli studi presso il Seminario regionale di Siena, dove già aveva studiato teologia: ha a che fare con un centinaio di studenti della metropolia con le diocesi che vi afferivano (Montepulciano, Chiusi e Pienza, Grosseto, Pitigliano, Sovana e Orbetello) e l’allora Congregazione dei seminari (poi Congregazione per l’educazione cattolica).

Don Benito vi svilupperà le sue doti di mediazione, che dovrà impiegare nel corso del suo ministero e della sua vita accademica. In quegli anni dà anche il via alla scuola di formazione biblica e teologica per laici presso il centro culturale San Donato di Siena. Viene ordinato presbitero a Volterra nel 1962 (e dal 1980 farà parte dell’Istituto Gesù Sacerdote dei Paolini di don Alberione).

Nel 1966 cominciò l’insegnamento a Firenze presso lo Studio Teologico Fiorentino: nelle prime stagioni svolgerà gli insegnamenti di metodologia e di ebraico; in seguito insegnerà Profetismo. Memorabile negli anni ‘70 l’esame di ebraico del direttore della nostra rivista, sulla parabola narrata da Natan a David, con il celebre «tu sei quell’uomo!» (2 Sam 12,7), naturalmente nella lingua originale e davanti al riso irrefrenabile di Marconcini.

Non va dimenticato il ruolo di vicepreside, creato poco prima. Sotto questa veste affianca don Valerio Mannucci: don Benito lo accompagna, e di fatto anche lo sostituisce, negli ultimi anni di vita, al tempo della brutta malattia che precede la morte del preside storico dello Studio Teologico Fiorentino (STF). In questi giorni, fra l’altro, ricorre il venticinquesimo anniversario della sua scomparsa repentina.

Don Benito era molto attento alle singole persone: mi vidi assegnare il corso di Vangeli Sinottici e Atti degli Apostoli dopo il meritato pensionamento dell’ottantacinquenne P. Lino Randellini. Gli sono grato anche per l’anno sabbatico nel primo anno del mio dottorato, che obbligò a forzare i sacri parametri degli orari. Non posso poi non ricordare la preziosa collaborazione con Marconcini per lo sviluppo della Biblioteca, che al tempo dirigevo, e che portò ad un salto di qualità anche per l’informatizzazione introdotta nel nostro Studio teologico al tempo. Grazie a lui portammo in facoltà il collegamento alla rete internet, nei suoi vari sviluppi.

Don Benito vedeva lontano. Se eravamo momentaneamente su posizioni differenti, in lunghe conversazioni al telefono, – non si faceva mai negare, – riuscivamo sempre, grazie a lui a trovare un punto di incontro.41ol8U71cvL._SX320_BO1,204,203,200_

Nel frattempo (1993), era diventato preside dello STF, incarico che rivestì fino al 1997, quando lo STF venne eretto a facoltà. Così don Benito fu il traghettatore dallo STF alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale (FTIC) e protagonista attivo del lungo lavoro di preparazione che comportò il superamento di tutti gli ostacoli che si sovrapponevano, soprattutto con la Congregazione per l’educazione Cattolica e in stretta sinergia con il cardinale Silvano Piovanelli, per continuare il lavoro iniziato da tempo. Fu vero fondatore della rinata Facoltà teologica, naturalmente insieme a tanti di noi. Nessuna contiguità con quanti si sono affacciati con ben altri progetti, provvidenzialmente vanificati dai fatti.

Quando arrivò l’ormai insperato decreto da Roma, a poca distanza del terremoto di Assisi, quello Studio teologico della città di Francesco che menti poco lungimiranti volevano associare a Firenze in una modalità inappropriata, quando la semplice distanza lo impediva, fu nominato primo Preside della FTIC (1997) e fu confermato tre anni dopo, fino al 2003.

Alla scadenza dell’incarico don Benito venne nominato prima canonico onorario, e poi effettivo, della Metropolitana fiorentina.

Nel 2008, compiuti i settanta anni, divenne docente emerito. Nel 2010 la facoltà gli offrì una miscellanea per i suoi 75 anni (in realtà erano 72!): Memoria Verbi. Saggi in onore di Mons. Benito Marconcini. A cura di L. Mazzinghi – B. Rossi – S. Tarocchi, («Vivens Homo» 21, 2010). Vi collaborano colleghi e colleghe ed ex-alunni (gli stessi curatori dell’opera), ed ex alunne – la divisione dell’opera in due parti rispettava le specifiche competenze degli esegeti e dei teologi.

Qui vorrei ricordare anche l’uomo sapiente e capace, il ricercatore e docente acuto, ma anche il prete amante e comunicatore della Parola: il saggio uomo di governo, in cui la bonomia non si distaccava mai dalla fermezza – era celebre, e ne sono direttamente testimone, il momento in cui in certe discussioni degli organismi accademici amabilmente aggiungeva: «Ricordate che mi chiamo Benito… e si fa come dico», che portava a risolvere con spirito costruttivo tutte le querelle – soprattutto quelle generate dal principio che Umberto Eco, ne Il pendolo di Foucault ha chiamato la tetrapiloctomia: ovvero l’arte sottile e perversa, erede del bizantinismo, di “spaccare il capello in quattro”, capace di sprecare inutilmente il tempo. 

Così don Benito, usando l’ironia non lasciava mai con la bocca amara nelle situazioni apparentemente senza via d’uscita. La sua spiccata intelligenza relazionale riusciva sempre a trovare i punti di unione, senza mai mortificare i colleghi, né tantomeno alzare la voce.

Nel 2012 festeggiò con diversi dei suoi colleghi il cinquantesimo dell’ordinazione presbiterale. Fu allora che consegnò ai presenti un prezioso libretto (Alla sequela di Gesù. Il discepolo nel Nuovo Testamento, Paoline, Milano 2012) che raccolse nella parte finale la sua sterminata produzione di libri, articoli, voci di dizionario, ecc., che inizialmente era prevista nella miscellanea.

Questo libretto fu il suo testamento spirituale: l’acribia dello studioso, con la sua squisita sensibilità e passione della Parola, ma anche della comunicazione a tutti: agli specialisti, ma anche agli studenti delle facoltà e degli studi teologici, e dell’intero popolo di Dio in una serie senza fine di lezioni e conferenze.

71Z2revashLQuesto era – ed è – il suo messaggio: dopo quell’evento in cui don Benito mostrò tutta la gioia di cinquant’anni al servizio del Signore, purtroppo cominciò il declino psicofisico che l’ha portato alla sua scomparsa.

Per tante volte le persone che, come tanti di noi l’hanno conosciuto, la sua preziosa ed insostituibile collaboratrice Nadia, l’intero personale del convitto ecclesiastico, si sono – ci siamo – interrogati sul misterioso perché un uomo tanto sapiente fosse stato colpito dal male proprio nell’organo che guida tutto il nostro vivere, la mente e il cervello, e l’abbiano reso tabula rasa, da cui ogni tanto, in certi momenti, riemergevano schegge della sua antica sapienza.

Si invera così quello che dice il vangelo di Matteo: «ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13.52).

Così il cuore e il sorriso di don Benito ci rimangono accanto, insieme alle parole di Paolo indirizzate ai cristiani della chiesa di Filippi: «la vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino!» (Fil 4,5).

Che il Signore accolga fra le sue braccia di misericordia don Benito Marconcini e gli dia il premio promesso ai suoi collaboratori fedeli: «servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo Signore” (Mt 25,21)».