La genealogia di Gesù nel vangelo di Matteo

«Libro dell’origine di Gesù Cristo»

Il Mantello della Giustizia – Gennaio 2021 

 

di Stefano Tarocchi · Matteo è l’unico Vangelo che inizia con una lunga arida lista di nomi, quella che si chiama una “genealogia”. Una migliore traduzione del testo evangelico dovrebbe essere invece: «Libro dell’origine», espressione che ricalca nella lingua greca Gen 2,4: «Queste sono le origini del cielo e della terra». All’interno dello stesso libro della Genesi ne troviamo almeno due (Gen 5,1-32; 10,1-32). 

L’evangelista raccoglie di seguito una lunga lista di nomi in senso discendente, a cominciare da Abramo, dividendoli in tre serie di quattordici, come dice esplicitamente più avanti: «tutte le generazioni da Abramo a Davide sono quattordici, da Davide fino alla deportazione in Babilonia quattordici, dalla deportazione in Babilonia a Cristo quattordici» (Mt 1,17). Ed è sempre Matteo a stabilire il criterio di ripartizione di questo triplice elenco a base «quattordici»: la vicenda della deportazione avvenuta nell’anno 586 a.C. Anche se in realtà le generazioni sono tredici nella prima serie, quattordici nella seconda, e solo dodici nella terza. questo non cancella il numero evidenziato. 

Nel parallelo Vangelo di Luca il racconto delle generazioni è narrato in senso ascendente, solo dopo il racconto del battesimo di Gesù: questi «quando cominciò il suo ministero, aveva circa trent’anni ed era figlio, come si riteneva, di Giuseppe, figlio di Eli, … figlio di Set, figlio di Adamo, figlio di Dio» (Lc 3,23-38). In questo caso si tratta di settantacinque nomi, fino ad arrivare nientemeno allo stesso Dio, contro i quarantadue nomi di Matteo – in realtà trentanove –, che iniziano da Abramo: questi nella lista del terzo vangelo è solo il ventunesimo. 

I tre gruppi di generazioni sottolineano il compimento delle profezie veterotestamentarie: la fedeltà di Dio che non viene mai meno alle sue promesse. Così, nel lungo distendersi delle generazioni maschili si inseriscono quattro donne: Tamar, la nuora di Giuda; Racab, la prostituta di Gerico; Rut, la moabita; Betsabea, già «moglie di Uria».  

Queste figure femminili rompono il lungo, quasi monotono, uniforme susseguirsi dei nomi di uomini. Esse rendono evidente l’irregolarità e la discontinuità di un cammino non sempre irreprensibile. 

Tamar, la prima di esse, è di fatto costretta dalla legge del levirato – che impone alla vedova di sposare il parente più prossimo del morto, a cominciare dal fratello, per assicurare a questi una discendenza – a sedurre il suocero Giuda per assicurare al marito di Tamar una legittima discendenza: «Tamar si tolse gli abiti vedovili, si coprì con il velo e se lo avvolse intorno, poi si pose a sedere all’ingresso di Enàim, che è sulla strada per Timna. Aveva visto infatti che Sela era ormai cresciuto, ma lei non gli era stata data in moglie. Quando Giuda la vide, la prese per una prostituta, perché essa si era coperta la faccia. Egli si diresse su quella strada verso di lei e disse: «Lascia che io venga con te!». Non sapeva infatti che era sua nuora. Ella disse: «Che cosa mi darai per venire con me?». Rispose: «Io ti manderò un capretto del gregge». Ella riprese: «Mi lasci qualcosa in pegno fin quando non me lo avrai mandato?».  Egli domandò: «Qual è il pegno che devo dare?». Rispose: «Il tuo sigillo, il tuo cordone e il bastone che hai in mano». Allora Giuda glieli diede e si unì a lei. Ella rimase incinta» (Gen 38,14-18; Rut 4,12.18-22). 

Racab fu colei che favorì l’ingresso degli inviati di Giosuè nella città di Gerico. Era una prostituta: e ciò le permise di far entrare nella sua casa degli stranieri e di nasconderli nella sua casa (Gs 2,1). Ma se la città di Gerico «con quanto vi è in essa, sarà votata allo sterminio per il Signore, rimarrà in vita soltanto la prostituta Racab e chiunque è in casa con lei, perché ha nascosto i messaggeri inviati da noi» (Gs 6,17; cf. 2,1.3; 6,23.25). Così commentano la lettera agli Ebrei e quella di Giacomo: «per fede, Racab, la prostituta, non perì con gli increduli, perché aveva accolto con benevolenza gli esploratori» (Eb 11,31); «anche Racab, la prostituta, non fu forse giustificata per le opere, perché aveva dato ospitalità agli esploratori e li aveva fatti ripartire per un’altra strada?» (Gc 2,25). 

Rut è la straniera che sceglie di ritornare in mezzo al popolo di Israele, e proprio nella città di Betlemme. È proprio qui che «un giorno Noemi, sua suocera, le disse: «Figlia mia, non devo forse cercarti una sistemazione, perché tu sia felice? Ora, tu sei stata con le serve di Booz: egli è nostro parente e proprio questa sera deve ventilare l’orzo sull’aia. Làvati, profùmati, mettiti il mantello e scendi all’aia. Ma non ti far riconoscere da lui prima che egli abbia finito di mangiare e di bere.  Quando si sarà coricato – e tu dovrai sapere dove si è coricato – va’, scoprigli i piedi e sdraiati lì. Ti dirà lui ciò che dovrai fare». Rut le rispose: «Farò quanto mi dici». Scese all’aia e fece quanto la suocera le aveva ordinato» (Rt 3,1-5). Nella genealogia di Gesù entra così a pieno titolo questa nuova scena di seduzione al femminile, dopo quella incestuosa di Tamar.  

Prosegue il testo: «Booz mangiò, bevve e con il cuore allegro andò a dormire accanto al mucchio d’orzo. Allora essa venne pian piano, gli scoprì i piedi e si sdraiò» (Rt 3,6-7). Allo stupore di Booz, Rut risponde: «“Sono Rut, tua serva. Stendi il lembo del tuo mantello sulla tua serva, perché tu hai il diritto di riscatto”. Egli disse: “Sii benedetta dal Signore, figlia mia! Questo tuo secondo atto di bontà è ancora migliore del primo, perché non sei andata in cerca di uomini giovani, poveri o ricchi che fossero. Ora, figlia mia, non temere! Farò per te tutto quanto chiedi, perché tutti i miei concittadini sanno che sei una donna di valore”» (Rt 3,9-11).  

La legge del levirato rientra anche in questo racconto del breve libro di Rut: «Booz generò Obed, Obed generò Iesse e Iesse generò Davide» (Rt 4,21-22). 

Betsabea, infine, è la donna che Davide si scelse, quando «un tardo pomeriggio, alzatosi dal letto, si mise a passeggiare sulla terrazza della reggia. Dall’alto di quella terrazza egli vide una donna che faceva il bagno: la donna era molto bella di aspetto. Davide mandò a informarsi chi fosse la donna. Gli fu detto: «è Betsabea figlia di Eliàm, moglie di Uria l’Hittita» (2 Sam 11,2). Per amore di lei, che gli partorirà Salomone, Davide trama la morte in battaglia del marito (2 Sam 11,14-15). 

L’evangelista, tuttavia, conclude la lunga lista di nomi con uno snodo inatteso: «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo» (Mt 1,16). Il racconto di Matteo così annota: «così fu generato Gesù Cristo [lett. «l’origine di Gesù era in questo modo»]: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo» (Mt 1,18).  

Così, anche Maria appare in questa lista: di fatto è lei che interrompe definitivamente l’elenco di uomini, che generano altri uomini. Questo nodo umanamente inestricabile viene rivelato a Giuseppe dalle parole dell’angelo, che gli appare in sogno: «il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20). 

L’umanità, nella sua aggrovigliata connessione tra bene e male, è la trama sulla quale si intesse la generazione umana del Figlio di Dio. Matteo ne è consapevole e lo sottolinea con forza: «senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù» (Mt 1,25).  

Lo stesso numero «quattordici», ripetuto tre volte, è significativo al riguardo. Fra le interpretazioni possibili, infatti, questa cifra risulta la somma dei tre numeri 4+6+4, a loro volta l’equivalente delle tre consonanti ebraiche che compongono il nome del re Davide: D+W+D [dawid].  

In conclusione, il discendente di Davide, suo “figlio”, ma è il “vero Davide”: colui che assume totalmente questa umanità debole e fragile per salvarla. Lo indica il suo stesso nome, consegnato ancora a Giuseppe: «tu lo chiamerai Gesù: egli, infatti, salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21).

“Un solo corpo”. Laicità e sacerdozio nel cristianesimo delle origini

Il Mantello della Giustizia – Dicembre 2020

Laicità e sacerdozio nel cristianesimo delle origini. In margine ad un volume di Romano Penna 

 

di Stefano Tarocchi • È uscito recentemente, per i tipi dell’editore Carocci di Roma, un prezioso volume di Romano Penna (Un solo corpo. Laicità e sacerdozio nel cristianesimo delle origini, Roma 2020), autorevole studioso di letteratura paolina, docente emerito di Nuovo Testamento alla Pontificia Università Lateranense. Penna è felicemente professore invitato anche alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, con un enorme di un gran numero di studenti – quest’anno particolarmente cospicuo – che si iscrivono ai suoi corsi alla Licenza in teologia biblica. La sua bibliografia di Romano Penna è pressoché sterminata e realmente preziosa, in questi tempi assai complessi.  

In queste pagine il prof. Penna si fa una domanda estremamente importante: qual è la differenza fra “laico” e “sacerdote”, i termini che normalmente designano i membri della Chiesa. Ora questa distinzione non compare nei testi più antichi del Nuovo Testamento, che pure sono normativi. In questi scritti emerge piuttosto l’idea di una convergenza paritaria dei cristiani nel costituire tutti insieme una nuova realtà comunitaria definita con varie metafore, tra cui quella di “corpo” che è propria delle lettere paoline, e che dà il titolo al libro. 

Tanto per limitarci alla lettera agli Ebrei, che nel canone compare dopo le tredici lettere di Paolo, ma che non è di pugno dell’apostolo, parla soltanto del sacerdozio di Cristo, che egli ottiene in virtù ottenuto dalla sua obbedienza alla volontà del Padre («entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: «Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà»: Eb 10,5-7), e del sacerdozio del popolo di Dio.  

Del resto, Gesù di Nazareth non apparteneva alla tribù di Levi, e quindi non poteva essere sacerdote, a differenza ad esempio di Giovanni il Battista, figlio di un sacerdote, Zaccaria. Il Battista rinuncia al ruolo che gli competeva per nascita: egli diventa piuttosto il profeta che «battezza nel deserto e proclama un battesimo di conversione per il perdono dei peccati» (Mc 1,4). A questo battesimo si sottopone scandalosamente lo stesso Gesù. 

Non si parla di “sacerdoti” nemmeno nei quattro Vangeli, se non per stabilire le distanze fra quanti appartengono al sacerdozio ebraico, che sono fra i protagonisti fondamentali del progetto che conduce Gesù di Nazareth alla croce.  

Peraltro, impropriamente siamo soliti definire i sette personaggi che compaiono nei primi capitoli del libro degli Atti, scelti per coadiuvare gli apostoli, nel servizio (o diaconia), semplicemente come diaconi: gli apostoli «scelsero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosèlito di Antiòchia. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani» (At 6,4-6). Ma soltanto gli scritti paolini più recenti, le “lettere pastorali” (le due lettere a Timoteo e la lettera a Tito), parlano esplicitamente di episcopi, presbiteri e diaconi, in maniera analoga alle lettere di sant’Ignazio di Antiochia (35-107). 

Del resto, come potremmo configurare tutti i discepoli del Signore, gli stessi Dodici, lo stesso Pietro e l’apostolo Paolo? E il fatto che lo stesso Papa è tale in quanto vescovo di Roma, e successore di Pietro non meno che di Paolo? Entrambi sono apostoli di Gesù Cristo, dal quale prende origine la comunità di tutti i credenti che noi definiamo come Chiesa. 

Di fatto, la comunità dei discepoli di Gesù ha cominciato a sentire il bisogno di mettere come capo e guida delle comunità coloro che avevano ricevuto un ministero specifico, dopo aver preso coscienza che l’imminente ritorno del Signore che attendevano doveva essere spostato nel tempo. Ogni chiesa locale venne stabilita all’interno di un cammino che è vivo ancora oggi. Un cammino che si è arricchito enormemente, si è evoluto e si è forse inevitabilmente appesantito, nei venti secoli e oltre in cui la fede cristiana ha cominciato a diffondersi. 

I membri della nuova comunità, che comprende non solo giudei e greci, schiavi liberi, uomini e donne, ma anche i ministri ecclesiali insieme a tutti gli altri membri della comunità avevano questa caratteristica: i primi non sono mai chiamati sacerdoti, i secondi non sono mai chiamati laici. Fra essi non ci sono neppure contrapposizioni per sé, se non con semplici funzioni differenziate.  

Non possiamo negare che esiste una continuità fra l’inizio e l’oggi, che certamente però non risiede in quella terminologia che normalmente viene usata. Quest’ultima tiene scarsamente conto che Colui che non poteva essere sacerdote per nascita diventa sommo sacerdote. Lo dice ancora la lettera agli Ebrei: «pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì, e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchìsedek» ( Eb 5,8-10).  

E, contemporaneamente, è lo stesso Gesù che fa diventare sacerdoti tutti i componenti il popolo di Dio, a partire dal battesimo: «con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati (Eb 10,14)».  

Questo volume parla ai credenti, ma ha anche un compito non di secondaria importanza: «informare quanti sono estranei alla fede cristiana sul vero andamento delle vicende e ricordare ai cristiani la memoria degli effettivi inizi storici della loro speciale identità» (p. 10). Se andiamo alle origini e scandagliamo gli scritti cristiani fondativi, in confronto con l’ambiente religioso del tempo, sia greco che ebraico, possiamo a buon diritto prendere atto di quale sia l’autentico DNA del cristianesimo. È la lezione preziosa di Romano Penna.

«Le tue mani non depongano mai il Libro Sacro»

San Girolamo: traduttore e servitore della parola di Dio

Il Mantello della Giustizia, Novembre 2020

 

di Stefano Tarocchi · San Girolamo: infaticabile studioso, grande conoscitore dei classici, traduttore, esegeta, profondo conoscitore e appassionato divulgatore della Sacra Scrittura: «l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo».

Così papa Francesco nella lettera dal titolo eloquente «Un amore per la Sacra Scrittura» (Sacrae Scripturae Affectus), nel sedicesimo centenario della morte di San Girolamo, avvenuta il 30 settembre 420. Girolamo era nato a Stridone, in Illiria (oggi Croazia) nel 345. 

Come testimonia la visione che ebbe nella Quaresima del 375 (“sei ciceroniano, non cristiano”), «egli aveva amato fin da giovane la limpida bellezza dei testi classici latini, al cui confronto gli scritti della Bibbia gli apparivano inizialmente rozzi e sgrammaticati troppo aspri per il suo raffinato gusto letterario». L’episodio testimonia il passaggio alla decisione di dedicarsi interamente a Cristo e alla sua parola, con il suo infaticabile lavoro di traduttore e commentatore, servitore della parola di Dio e come innamorato della “carne della Sacra Scrittura”.

Dopo aver abbandonato la città di Aquileia e una comunità creata dal vescovo Valeriano, Girolamo ritorna a Roma nel 382, dove negli anni tra il 358 e il 364 era stato battezzato.

Nel frattempo, verso l’anno 374, passando per Antiochia di Siria (nell’attuale Turchia) si era ritirato nel deserto di Calcide, l’antica città situata a quaranta chilometri da Aleppo, e si era dedicato a una vita ascetica il cui maggior spazio è riservato allo studio delle lingue bibliche. Il deserto gli appare come una delle occasioni fondamentalmente esistenziale nell’incontro con Dio. Ad Antiochia verrà ordinato presbitero dal vescovo Paolino nel 379.

A Roma Girolamo si era posto al servizio di papa Damaso, di cui diventato era stretto collaboratore, fino a quando, due anni dopo la morte del papa, si era recato a Betlemme. Siamo nel 386: Girolamo sente il bisogno di ritornare in quella terra che aveva scoperto in varie occasioni.

Accompagna Girolamo a Betlemme un gruppo di donne, fra cui Paola ed Eustochio, madre e figlia, con cui si stabilisce presso la grotta della Natività a Betlemme: qui fonda due monasteri: uno maschile e uno femminile.

Nella Sacra Scrittura Girolamo trova sé stesso, il volto di Dio e quello dei fratelli, e affina la sua predilezione per la vita comunitaria: così annota papa Francesco. Già da giovane, ad Aquileia, voleva fondare comunità monastiche, perseguendo l’ideale di una vita religiosa in comune, che vede il monastero come palestra per formare persone felici nella povertà e capaci di insegnare con il proprio stile di vita. Le virtù amate da Girolamo (l’umiltà, la pazienza, il silenzio e la mansuetudine) sono il terreno ideale su cui si sviluppa la sua spiritualità.

Nel sottolineare come la cultura di Girolamo sia necessaria ogni evangelizzazione, papa Francesco mette in luce alcune parole di straordinaria attualità. Scriveva, infatti, Girolamo all’amico Nepoziano: «la parola del presbitero deve prendere sapore grazie alla lettura delle scritture. Non voglio che tu sia un declamatore o un ciarlatano dalle molte parole ma uno che comprende la sacra dottrina e conosce fino in fondo gli insegnamenti del tuo Dio». E, ancora: «è tipico degli ignoranti rigirare le parole e accattivarsi l’ammirazione del popolo in esperto con il parlare velocemente». E aggiunge: «chi è senza pudore spesso spiega ciò che non conosce e pretende di essere un grande esperto solo perché riesce a persuadere gli altri». E, dell’amico Nepoziano, Girolamo scriveva: «con la lettura assidua e la meditazione, aveva fatto del suo cuore una biblioteca di Cristo». 

Sta qui tutta la visione di Girolamo, condotta sempre con grande spirito di umiltà e lasciandosi anzitutto guidare da grandi esegeti antichi, Origene in primis, di cui a Costantinopoli aveva tradotto in latino le Omelie. Lo studio non è un diletto fine a sé stesso ma un esercizio di vita spirituale, un mezzo per arrivare a Dio; e così la sua formazione classica viene riordinata al servizio alla comunità ecclesiale. 

Ecco come a Betlemme fino all’anno della sua morte, mentre Roma cade nel 410 sotto i Visigoti di Alarico, Girolamo completa la monumentale opera della traduzione in latino di tutto l’Antico Testamento ebraico, oltre ai suoi commentari ai libri profetici ai salmi e alle sacre scritture. Ecco, dunque, la celebre Vulgata ovvero la Bibbia tradotta per il popolo, in modo che tutti i credenti la comprendano. Per uno di quei misteriosi fenomeni di eterogenesi dei fini questa traduzione finì per diventare oscura a quel popolo per il quale era stata pensata, e da cui nella riforma il monaco agostiniano Martin Lutero l’aveva sottratta nella Riforma da lui iniziato. Di fatto, la Chiesa cattolica avrebbe dovuto aspettare il Concilio Vaticano II per riscoprire la ricchezza della traduzione della parola di Dio nelle lingue parlate dal popolo di Dio. 

Infatti, è tipicamente cristiana l’esclusione della lingua sacra: la parola di Dio, magari tradotta non sempre in maniera precisa e appropriata, riesce comunque a dare a ciascuno quella straordinaria forza che aveva sottolineato il testo ispirato: «tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2 Tim 3,16-17).

Per portare a termine questo lavoro Girolamo mise a frutto la sua conoscenza del greco e dell’ebraico nonché la sua solida formazione Latina utilizzando gli strumenti come la Exapla di Origene, sei versioni della Bibbia, disposte parallelamente su sei colonne affiancate.

Scrive ancora papa Francesco che il testo finale della Vulgata coniugava la continuità nelle formule ormai entrate nell’uso comune – l’antica versione latina della Bibbia – con una maggiore aderenza al testo ebraico, senza sacrificare l’eleganza della lingua latina. Così la Sacra Scrittura è diventata una sorta di immenso vocabolario a cui hanno attinto l’arte e la cultura cristiana, insieme alla letteratura e al linguaggio popolare.   

Quando il papa Paolo VI nell’immediato post-concilio volle una revisione della Vulgata messa a disposizione di tutta quanta la Chiesa affrontò un’operazione quanto mai azzardata: da qualunque punto di vista la mettiamo non è assolutamente facile correggere Girolamo, anche tenendo conto che non sappiamo a quale testo originale, ebraico o greco, si sia rifatto. 

Peraltro, uno dei meriti principali di Girolamo è stato quello di inculturare la Bibbia nella lingua e nella cultura latina (ecco la Neo-Vulgata), operazione che è diventata un paradigma permanente per l’azione missionaria della chiesa. Possiamo così notare, scrive ancora papa Francesco, che si instaura una sorta di circolarità: come la traduzione di Girolamo è debitrice della lingua e della cultura dei classici latini, così essa è diventata a sua volta elemento creatore di cultura.  

L’opera di traduzione di Girolamo ci insegna che i valori le forme positive di ogni cultura rappresentano un arricchimento di tutta la Chiesa, e attesta dello stesso tempo che la Bibbia ha bisogno di essere costantemente tradotta nelle categorie linguistiche e mentali di ogni cultura e generazione, anche e soprattutto nella cultura secolarizzata globale del nostro tempo.  

Papa Francesco, con un colpo d’ala, coglie l’occasione di notare anche l’analogia fra la traduzione in quanto atto di ospitalità linguistica, e altre forme di accoglienza. Per questo l’opera di traduzione non è un lavoro che riguarda unicamente il linguaggio ma corrisponde a una decisione etica più ampia, connessa con l’intera visione della vita.  

Senza traduzione le differenti comunità linguistiche non potrebbero comunicare fra loro, noi chiuderemmo gli uni agli altri le porte della storia e negheremmo la possibilità di costruire una cultura dell’incontro. 

Senza traduzione non si dà ospitalità e si rafforzano invece le pratiche di ostilità. Il traduttore è quindi un costruttore di ponti che creano continui legami fra le varie culture e i vari ambienti.  

Francesco mette quindi in luce due dimensioni caratteristiche della spiritualità di Girolamo: 1. l’assoluta e rigorosa consacrazione a Dio, con la rinuncia a qualsiasi umana soddisfazione; 2. l’impegno di studio assiduo, volto esclusivamente a una sempre più piena comprensione del mistero del Signore.  

Questa duplice testimonianza vale per i monaci ma anche per gli studiosi della Parola, che devono ricordare che il loro sapere è valido solo se fondato sull’amore esclusivo per Dio, contemporaneamente alla spoliazione di ogni umana ambizione e di ogni mondana aspirazione.  

D’altronde, se la scienza esegetica contemporanea ha scoperto la genialità narrativa e poetica della scrittura, Girolamo – sono ancora parole del Papa –, insiste invece sul carattere umile del rivelarsi di Dio espresso nella natura aspra e quasi primitiva della lingua ebraica, paragonata alla raffinatezza del latino ciceroniano. 

Francesco insiste anche sul radicamento emblematico dell’Antico Testamento nel Nuovo Testamento. Senza il primo non può essere compreso pienamente il ruolo del popolo di Dio.  

Quindi, l’amore appassionato di Girolamo per le Scritture è intriso di obbedienza nei confronti di Dio, ossia la fede, ma anche l’impegno attivo nella personale ricerca anche nella difficoltà di interpretare la Parola di Dio. Se il libro sacro appare talvolta sigillato e quasi chiuso ermeticamente, occorrerà che intervenga un testimone. È la missione affidata da Francesco agli esegeti: quasi una funzione diaconale, come quella di Filippo narrata nel libro degli Atti: «capisci quello che stai leggendo?». Egli rispose: «E come potrei capire, se nessuno mi guida?» (Atti 8,30-31).  

In molte famiglie cristiane nessuno si sente in grado di operare quanto è scritto nel Deuteronomio: «questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai.  Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte» (6,6-9). Ossia far conoscere ai figli la parola del Signore con tutta la sua bellezza con tutta la sua forza spirituale ecco perché il Papa istituisce la domenica della parola di Dio, la terza del Tempo ordinario. 

 Il Papa mette anzitutto in rilievo i centri di eccellenza della ricerca biblica come il Pontificio Istituto Biblico di Roma e i due grandi istituti di Gerusalemme (lo Studium Biblicum dei francescani e l’École Biblique dei domenicani), ma aggiunge anche che «ogni facoltà di teologia deve impegnarsi affinché l’insegnamento della sacra scrittura sia programmato in modo da assicurare agli studenti una competente capacità interpretativa sia nell’esegesi dei testi sia nelle sintesi di teologia biblica».  

In conclusione, il centenario della morte di Girolamo conduce il nostro sguardo alla vitalità missionaria, che è espressa dalla traduzione della parola di Dio in più di tremila lingue: un lavoro che contribuisce a superare le frontiere dell’incomunicabilità e contemporaneamente mette in luce il legame tra Girolamo e la cattedra di Pietro. 

Così scriveva lo stesso Girolamo: «io che non seguo nessuno, se non il Cristo, mi associo in comunione alla cattedra di Pietro so che su quella roccia è edificata la Chiesa». Girolamo, del resto, assimilò un’intera biblioteca di scritti e divenne dispensatore di sapere per molti altri: per lui lo studio non rimase confinato agli anni giovanili della formazione, ma fu costante nella vita intera.  Un insegnamento, ancora una volta, da riscoprire in questi tempi di superficialità e di spiritualità non proprio sane. 

Così al papa Francesco viene naturale interrogarsi sull’esperienza che un giovane oggi può fare entrando in una libreria della sua città (o in un sito internet), se va alla ricerca del settore dei libri “religiosi”, che forse quando esiste è marginale, più facilmente è sguarnito di opere sostanziose. In questo modo, difficilmente un giovane potrebbe comprendere come la ricerca religiosa possa essere un’avventura appassionante che unisce pensiero e cuore. 

All’opposto, uno dei problemi odierni, non solo della religione, è l’analfabetismo di ogni tipo: scarseggiano le competenze ermeneutiche che ci rendono interpreti e traduttori credibili della nostra tradizione culturale. E Francesco lancia una sfida soprattutto ai giovani: «partite alla ricerca della vostra eredità. Se il cristianesimo vi rende eredi di un inseparabile patrimonio culturale appassionatevi di questa storia che è la vostra. Usate fissare lo sguardo sull’inquieto giovane Girolamo che come il personaggio della parabola vendette tutto quello che possedeva per acquistare la perla di grande valore» (cf. Matteo 13,46).  

Girolamo, «biblioteca di Cristo» che continua a parlare ancora oggi, ci ispiri a ripetere come faceva egli stesso: «leggi spesso le divine Scritture, anzi le tue mani non depongano mai il libro sacro».

Tutto questo spirito – conclude papa Francesco – si ritrova nella Madre di Dio, colei che meditava la parola nel suo cuore e la custodiva senza stancarsi, colei che meglio di ogni altro può insegnarci come leggere meditare pregare e contemplare Dio che si fa presente nella nostra vita.

La parabola del grano e della zizzania

Il regno dei cieli e il buon seme

Il Mantello della Giustizia, Agosto 2020

unnameddi Stefano Tarocchi · La parabola della zizzania (Mt 13,24-30), che recentemente la liturgia ci ha posto davanti agli occhi, è sicuramente una delle pagine più intriganti del Vangelo secondo Matteo. Accanto alla parabola della rete gettata nel mare che raccoglie ogni genere di pesci (Mt 13,47-50), che chiude il lungo discorso di Gesù (ben sette parabole), la parabola della zizzania fornisce una delle chiavi di interpretazione più lucide del vivere dei credenti nell’esistenza concreta.

Essa segue immediatamente quella forse più nota del seme che il seminatore getta nel terreno, apparentemente senza nessun criterio, ma che mette in luce la potenza della parola che nella terra buona porta un frutto straordinario (Mt 13,3-9). “Zizzania” (letteralmente al plurale) è il nome che designa collettivamente le piante nocive che spesso accompagnano la crescita del grano. La si è identificata nel loglio: i semi della pianta, molto simili a quelli del grano, se ingeriti provocano fenomeni di un vero e proprio avvelenamento. Da qui il nome: Lolium temulentum loglio ubriacante.

Nel racconto di Matteo, quando la zizzania si rivela come infestante, i servi del padrone del campo chiedono la ragione di questa presenza importuna e inattesa: lo stesso padrone della casa, che seminato il grano, chiama in causa il suo “nemico”. Lo sa bene chi ha ascoltato la parabola – o chi la trova oggi nel Vangelo: «venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò» (Mt 13,25).

I servi vorrebbero subito estirpare la pianta maligna per non mettere a repentaglio la crescita del grano, ma il padrone del campo lo impedisce perché non venga estirpato anche il seme buono. Infatti, la zizzania nella sua rapida crescita, fuori e dentro il terreno, si è intrecciata inestricabilmente alle radici delle piante del grano; e questo impedisce una separazione delle piante senza creare danni.

Bisogna quindi attendere fino alla mietitura, ossia alla maturazione piena del frutto: solo a quel punto ci può essere una netta separazione fra grano e zizzania. Questa viene gettata nel fuoco, il grano, invece, sarà riposto nel granaio. La coesistenza fra bene e male diventa estremamente chiara nella spiegazione allegorica che segue il racconto della parabola (Mt 13,36-43), da cui traspare la prima interpretazione della parabola, legata alla comunità dell’evangelista della città di Antiochia.download (1)

Come in ogni allegoria, e a differenza della parabola, ciascun elemento ha il suo significato specifico: il Figlio dell’uomo è colui che semina, il campo è il mondo, il buon seme sono i figli del regno, la zizzania sono i figli del maligno e il nemico è il diavolo stesso.

Attraverso questa lettura si avverte un un’incursione nel momento dei tempi ultimi – lett. «alla fine del tempo» –, quando Dio giudicherà il mondo e si produrrà una duplice sorte per gli uomini. Prima ancora che, in un’altra celebre parabola, si descriva il giudizio finale (Mt 25,31-46), l’evangelista sembra dirci che il bene coesiste accanto al male. Questo paradosso è sotto i nostri occhi: mentre tutte le vicende umane sono nelle mani del Signore, in esse il bene coesiste inestricabilmente con il male, fino a che Dio non decide di chiedere il conto all’umanità.

Così ci dice anche la pagina successiva, sempre in riferimento al regno dei cieli: la parabola della rete che “raccoglie” – il verbo usato è significativo – ogni genere di pesce (Mt 13,47-50): anche qui la cernita viene fatta al momento del raccolto, quando la rete è tirata a riva. Allora i pesci buoni finiscono nei canestri e quelli che non sono buoni a nulla vengono gettati via.

Si potrebbe addirittura interpretare che il tempo dell’attesa tra la semina e il raccolto (o la pesca e il suo risultato) è il tempo in cui l’elemento negativo avrebbe modo di passare all’altro campo. Sappiamo che in natura questo non è possibile, ma nella mente di Dio ogni uomo può cambiare vita, e anche che il Signore lascia un congruo tempo per poterlo fare. Il Dio magnanimo, che tante volte traspare nelle Scritture, attende senza punire nessuno che ogni creatura umana percorra la strada verso la conversione.

Tuttavia non c’è un regno parallelo del bene accanto al regno del male, e il «nemico», il diavolo, non è una sorta di divinità al negativo che si contrappone al Dio di Gesù Cristo. Questo anche se c’è un male sotterraneo – e dunque nascosto –, che opera in maniera ancora più subdola. Per capirne gli effetti basta vedere gli attacchi che su ogni fronte vengono rivolti all’attuale vescovo di Roma, e non a lui soltanto.

Il regno dei cieli che viene richiamato in queste parabole è già in mezzo a noi, e tuttavia dobbiamo sempre invocare il Padre: «venga il tuo regno». Non a caso dopo questa parabola ne vengono raccontate due, molto più brevi ma non meno rivelative: quella del tesoro nascosto nel campo (Mt 13,44) e della perla preziosa (Mt 13,45-46). Colui che trova questi tesori, rispettivamente inattesi oppure ricercati a lungo, farà ogni sforzo, e metterà in gioco tutte le proprie energie per poterli ottenere.

Perciò, tutte queste parabole contengono un insegnamento che va ricavato con la propria personale osservazione, come – sono ancora parole del Vangelo, forse un’auto-descrizione dello stesso evangelista – fa lo «scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli» che «estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).