Qual è il futuro del cristianesimo in questi tempi di crisi?

«La Chiesa brucia…». In margine ad un libro di Andrea Riccardi 

Il Mantello della Giustizia – Maggio 2021

 

 

di Stefano Tarocchi · Nel saggio recentemente pubblicato da Andrea Riccardi (La Chiesa brucia. Crisi e futuro del cristianesimo, Laterza, Bari-Roma 2021), dopo una profonda sintesi storica, nel quarto capitolo l’autore prende espressamente in esame un aspetto delle difficoltà del cattolicesimo contemporaneo: la crisi della vita religiosa. A mio avviso si tratta di un vero e proprio snodo della sua analisi lucida, e una preziosa chiave di lettura. 

Il volume parte da quell’evento drammatico svoltosi nella laicissima Francia nell’aprile 2019: l’incendio che ha quasi interamente distrutto la cattedrale di Notre-Dame a Parigi, assurto a simbolo di ben altre faccende. 

Nelle 248 dense pagine del libro si avverte come il lavoro dello storico riempia di significato tante analisi sociologiche, che corrono rischiano di essere come la nebbia: «lascia il tempo che trova», dicevano i nonni. I dati che fornisce Riccardi dalla sua analisi sono estremamente illuminanti.  

La crisi, o le crisi, della Chiesa analizzate da Riccardi richiama, o richiamano, una complessità di situazioni degli anni immediatamente successivi al Concilio, con gli eventi del ‘68 e lo scivolare sia nell’individualismo che nella crisi della figura maschile e la conseguente autorità paterna che perde d’importanza. Tutto ciò mette sotto una luce impietosa i cammini della comunità cristiana: una delle cause il crollo delle vocazioni religiose, maschili e femminili, e di quelle presbiterali sta anche qui. Di quegli anni l’autore cita l’insegnamento pontificio relativo alla trasmissione della vita con l’enciclica Humanae Vitae (1968) dell’allora pontefice Paolo VI, senza di fatto ottenere ascolto, e creando anzi quello che alcuni chiamarono lo “scisma sommerso”  

Inoltre, secondo Riccardi, si è anche perso l’occasione di valorizzare la figura femminile senza clericalizzarla. Del resto, la stessa Chiesa d’Inghilterra che pure ammette le donne nel clero fino all’episcopato, non sembra essere riuscita ad affrontare compiutamente tale questione.  

Così, verso la conclusione del saggio, Riccardi scrive che «bisogna anche riconoscere l’“avvenimento spirituale” della rivoluzione femminile, nella sinodalità e nella comunione». Perché «crescere vuol dire ritrovarsi attorno alla liturgia, insomma che possa esserci l’eucaristia per piccole o grandi comunità». Quest’ultimo è uno dei compiti più difficili che dovrà essere affrontato senza indugio, e risolto senza porre tempo in mezzo. 

D’altronde se l’ekklesìa (la Chiesa) è costituita da quanti sono chiamati a far parte di una comunità a partire da una realtà esterna (ek-kaléo, “chiamare da”) questo aspetto merita un particolare approfondimento, oltre alle situazioni sociologiche proprie delle varie società e degli stati che compongono l’orizzonte europeo, e non solo quello. 

Ne sono testimonianza la situazione della chiesa in Francia, in Italia, e, a cascata, nella penisola iberica, da un lato, e dall’altro nei paesi degli ex regimi comunisti in Est Europa.  

Da un lato la soluzione che Riccardi chiama le cosiddette democrazie cristiane – i cristiani impegnati in politica come partito, oggi in evidente crisi in Francia, Germania e Italia –, dall’altro i risorgenti nazionalismi e sovranismi, con il rischio di connubi incestuosi fra Chiesa e governi, di strutture statali ed ecclesiastiche che nel nome della difesa di “sacri confini” cercano alleanze che rischiano di travolgere tutti quanti in una stessa crisi irreversibile. Ne è un forte esempio, sempre secondo Riccardi, quello che accade nell’attuale Polonia dove a essere messo in crisi, insieme all’episcopato legato al governo sovranista in carica, è la stessa figura di Giovanni Paolo II, così rapidamente elevata agli onori degli altari. 

D’altra parte, non si può trascurare l’immagine di una chiesa che sotto la spinta di Francesco mette al centro l’annuncio del Vangelo – peraltro sulla scia dell’insegnamento di Papa Paolo VI, e, secondo Riccardi, anche di Pio XII che nell’immediato dopoguerra sente forte l’impegno di un rinnovato annuncio. In sostanza, un filo sottile che non può trascurare neanche le figure di Giovanni Paolo II e di Benedetto XIV, che crea il Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. Si tratta pertanto di una Chiesa che, sottolinea Riccardi, riscoprendo la sua missione non può dimenticare l’apertura verso nuove forme di testimonianza,  

Un passaggio interessante (pp. 117-118) del volume è quando Riccardi fa una riflessione, a mio avviso molto molto acuta, sull’importanza del testo biblico tradotto in italiano dopo il Concilio, la prima ufficiale a firma della Conferenza Episcopale, la cui editio princeps è uscita nel 1971.  

Quando viene introdotta la nuova traduzione (2008), che vuole essere più fedele al testo originale – almeno questa era l’intenzione – è mutato in parte il testo italiano delle Scritture, senza tener conto che la memoria di una generazione di fedeli aveva assimilato quello della precedente traduzione. La scelta di una nuova traduzione mostra minor sensibilità all’assimilazione, anche mnemonica della Bibbia, che, dopo il Concilio, voleva essere il libro di un popolo. Non era importante consolidare la memoria accumulatasi tra i fedeli? L’eredità di memoria forgia un linguaggio di fede. E, a mio avviso, non si è ancora accolto in pieno l’importanza dell’operazione introdotta dal Concilio circa le traduzioni del testo sacro nelle lingue correnti.

Un’autorità che vuole affermare dei principi pur corretti ma estranei alla sensibilità del popolo di Dio non tiene conto che la memoria è qualcosa che muove e si muove dal basso, non da coloro che, dall’alto e senza ascoltare nessuno, pretendono di aver la chiavi esclusive per interpretare la parola di Dio, e la stessa volontà dell’Altissimo. Non era forse intenzione del Concilio indicare l’infallibilità del popolo di Dio quando proclama le verità della fede? Così diceva, infatti, Lumen Gentium 12: «la totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dal Santo, non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici” mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale». 

«Gli storici, aggiunge Riccardi, hanno ridimensionato le costruzioni mitiche dell’età dell’oro della cristianità in gran parte collocate nel passato. Le crisi ci sono sempre state fin dalle origini. Il grande rischio delle crisi e accontentarsi di sopravvivere, fissi sul presente e confrontandosi solo con un passato migliore … La crisi non è il declino. La via, che può sembrare una non soluzione, è vivere evangelicamente nella crisi» (p. 235). 

«Certo c’è qualche decisione da prendere e qualche nodo da sciogliere – conclude Riccardi – : bisogna aver fiducia delle comunità cristiane, dar loro la possibilità di vivere e di provare ad andare verso il futuro, sostenerle nella loro soggettività creativa, che è qualcosa di semplice ed insostituibile, un intreccio tra passione, simpatia, carismaticità. Bisogna avere il coraggio, comunicando il Vangelo, di liberare energie costruttive e creative, di suscitarle, di dare fiducia e sostegno a differenti realtà ecclesiali pur nelle imperfezioni. Si deve lasciar crescere investire sul futuro: è il compito di una generazione. La storia del cristianesimo è anche una vicenda di entusiasmo» (p. 234). 

Un giornale tedesco (la Frankfurter Allgemeine Zeitung del 16 aprile scorso) uscito a distanza di due anni esatti dall’incendio della cattedrale di Notre-Dame, mostrando le immagini della sua ricostruzione – che richiederà ancora tre anni prima di poter celebrare nuovamente la Messa –, parla espressamente di “risurrezione”. Certamente se anche quotidiani dall’intensa laicità come quelli tedeschi (e gli stessi quotidiani francesi) percepiscono che intorno alla cattedrale di Parigi e alla sua ricostruzione non c’è stato un abbassamento di tensione (il che è perfettamente immaginabile vedendo come si muovono le notizie nel nostro tempo), allora possiamo dire che può bruciare un tipo di chiesa ma non brucia la chiesa di Cristo.  

Che in questa Europa laica e laicista assediata dal virus e pressata nella morsa di tutte le manovre intorno ai vaccini ci sia ancora un segnale di speranza?  

Sta a noi percorrerne tutte le strade complicate, nel segno di una Chiesa che si ritrova invariabilmente intorno all’Eucaristia, in presenza (e non per via telematica e a distanza!). E agisce con decisioni concrete e coraggiose, in modo che ogni comunità non ne sia priva ogni volta che si celebra il «giorno del Signore». 

La traduzione italiana della Bibbia di Antonio Martini, arcivescovo di Firenze

L’arcivescovo fiorentino Antonio Martini e la sua traduzione italiana della Bibbia 

Il Mantello della Giustizia | Aprile 2021

di Stefano Tarocchi · Fra i vari anniversari che il tempo della pandemia ci ha sottratto, credo vada evidenziata la nascita nell’aprile 1720 di Antonio Martini, arcivescovo di Firenze, morto nel 1809. I suoi studi a Prato e a Pisa, dove si laureò in utroque iure nel 1748, lo portarono fino alla soglia della cattedra di diritto canonico nell’Università di Torino. Divenne invece direttore del Collegio di Superga.  

Nel 1757, l’anno precedente la sua morte, Benedetto XIV, già cardinale Prospero Lambertini, arcivescovo di Bologna, pubblica un decreto che annulla il divieto di leggere la Bibbia in italiano: venivano consentite la stampa e la lettura di versioni italiane della Vulgata, a condizione che esse fossero «ab apostolica sede approbatae, aut editae cum annotationibus desumptis ex sanctis Ecclesiae Patribus vel ex doctis catholicisque viris».  

Il papa si sarebbe rivolto al cardinale Carlo Vittorio Amedeo Delle Lanze, prefetto della Congregazione del Concilio – antenata della Congregazione per il clero – , per sollecitare una traduzione in lingua italiana della Sacra Scrittura e, a sua volta, il cardinale pensò al Martini, e alla sua preparazione culturale, oltre che alla sua nativa conoscenza della lingua italiana, data dall’origine toscana. La stima del delle Lanze era condivisa anche dal conte Carlo Luigi Caissotti, Primo Presidente del Senato, poi Gran Cancelliere di Corte (Giovannoni).

Tra il 1769 ed il 1781 uscivano i volumi del Nuovo Testamento e nel 1781 sarebbe terminata la pubblicazione dell’Antico (1776-81). L’edizione del Martini venne stampata in varie edizioni, fino ad uscire con il testo latino a fronte, introduzioni storiche ed annotazioni tratte dalla letteratura patristica. Sarebbe stata utilizzata fino alla prima metà del Novecento. Martini per il Nuovo Testamento prese come base il testo greco, ma in alcuni passaggi preferì la lezione dalla Vulgata; per l’Antico Testamento, pur traducendo dalla Vulgata, ricorse a volte al testo ebraico con l’aiuto del rabbino di Firenze.  

Terminata l’opera, in segno di riconoscenza, l’allora re di Sardegna Vittorio Amedeo III volle Martini vescovo di Bobbio. Mentre si recava a Roma per la consacrazione, intese rendere omaggio al granduca di Toscana Pietro Leopoldo. Questi fu colpito dalla sua personalità e lo volle alla guida della diocesi fiorentina, rimasta vacante per la morte dell’arcivescovo Francesco Gaetano Incontri. La stima del granduca intendeva favorire l’opera di riforma della chiesa in Toscana che questi aveva intrapresa. Lasciamo agli storici di professione l’approfondimento di questo complesso capitolo dell’episcopato di Martini, che si accompagna a quello del vescovo di Pistoia Scipione de’ Ricci, esponente del movimento del giansenismo.   

Il 1781, anno della sua nomina ad arcivescovo di Firenze, vede anche il completamento della traduzione della Bibbia dal latino della Vulgata all’italiano: tutti possono così leggere la Parola di Dio. Questa versione, l’unica in quei tempi integralmente in italiano e riconosciuta come testo della nostra lingua dal vocabolario della Crusca, ebbe numerose edizioni fino a quella del 1907, pubblicata in due grossi volumi (Marconcini), e fu diffusa anche in ambito protestante, accanto alla celebre traduzione italiana del Diodati (la cui prima edizione fu pubblicata a Ginevra nel 1607, e che Martini non stimava molto…). 

Nel 1771 Il Papa Pio VI approva la traduzione del Martini, anche se il suo successore Pio VII, che aveva scomunicato Napoleone Bonaparte, include anche la traduzione di Martini nell’indice dei libri proibiti (1811), che era stato riformato in precedenza da papa Lambertini. 

Dopo due secoli di silenzio sulla questione, dobbiamo aspettare la metà del secolo scorso per riaprire la questione. È così che dobbiamo giungere fino a Papa Pio XIII con l’enciclica Divino Afflante Spiritu (1943), che così si esprime: «per uso e profitto dei fedeli e per facilitare l’intelligenza della divina parola, si facciano traduzioni nelle lingue volgari, e precisamente anche dai testi originali» (§1). 

È vero che negli anni ‘30 del secolo scorso c’erano state due traduzioni in lingua italiana, in particolare quella dell’abate Ricciotti, ma solamente con il papa Pacelli comincia quel processo che porterà alle più importanti traduzioni nella nostra lingua, a cominciare da quella di padre Vaccari, del Pontificio Istituto Biblico (1958) e a quella, insuperata di Fulvio Nardoni (1960) – tacciata da alcuni (per invidia?) di eccessivi fiorentinismi – , che precedono le traduzioni di Garofalo (1947-1960), a più mani, come quella di Enrico Galbiati, Angelo Penna e Piero Rossano (1964), che servì come base alla traduzione della Conferenza Episcopale Italiana (uscita nel 1971 e rivista nel 1974) e la traduzione curata di Settimio Cipriani, con l’aiuto di biblisti di più confessioni (1968), la “Bibbia concordata”, che tuttavia non ebbe il successo sperato. 

Ma nel frattempo era intervenuto il magistero del Vaticano II, che nella Dei Verbum così dice: «la parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo, la Chiesa cura con materna sollecitudine che si facciano traduzioni appropriate e corrette nelle varie lingue, di preferenza (praesertim) a partire dai testi originali dei sacri libri» (DV 22).

Come già Pio XII parlava di traduzione «anche dai testi originali», anche il Vaticano II muove dallo stesso assunto, quasi spaventato dal timore di abbandonare la Vulgata di san Girolamo. Sebbene la Vulgata resti insuperabile – di fatto completa il processo rendere la parola di Dio alla portata della lingua comunemente usata e, non fosse altro che per l’operazione culturale che ha rappresentato – non può essere deputata a prendere il posto di una lingua sacra. Peraltro, non sappiamo neppure quali testi originali avesse a disposizione.  

Al tempo stesso non ci si deve accontentare del testo stabilito da Erasmo da Rotterdam (il cosiddetto textus receptus: 1516), che fu la base dalla traduzione del monaco agostiniano Martin Lutero in lingua tedesca. 

Naturalmente il lavoro da compiere sulle lingue originali dovrà tenere conto della scienza della critica testuale, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, e soprattutto dei testimoni testuali greci, con tutta loro complessità.  

Resta l’importanza dell’arcivescovo fiorentino Antonio Martini e del prezioso lavoro che ha compiuto, che in qualche maniera anticipa un fatto a tutt’oggi imprescindibile e tuttavia mai compreso interamente in tutta la sua portata: così scrive san Girolamo nel commento al profeta Isaia: «se secondo l’apostolo Paolo, Cristo è potenza di Dio e Sapienza di Dio, e chi non conosce le Scritture non conosce la potenza di Dio e la sua sapienza, ignorare le Scritture è ignorare Cristo». 

Gesù messo alla prova

Gesù e l’antico avversario

Il Mantello della Giustizia | Marzo 2021

di Stefano Tarocchi · La pagina di Vangelo assegnata alla prima domenica di Quaresima come ogni anno ci mette di fronte al tempo in cui per quaranta giorni Gesù viene messo alla prova nel deserto dal Satana. Il testo di Marco che abbiamo ascoltato quest’anno utilizza, infatti, l’articolo per determinare la figura dell’avversario di Dio e dell’uomo. Dopo che l’evangelista ha raccontato che lo Spirito discende su Gesù come una colomba, lo stesso Spirito lo spinge con forza nel deserto, laddove viene messo alla prova.  

A differenza dei paralleli Matteo e Luca, Marco non dice il contenuto di questa prova. Si è soliti parlare di tentazione, o tentazioni, con un linguaggio non del tutto adeguato ai tempi nostri, e fonte di interpretazioni inesatte.  

Lo stesso racconto dice che Gesù nei quaranta giorni è in compagnia degli animali selvaggi, che realizzano la pace intravista dai profeti, e pur nella sua solitudine non è abbandonato da Dio. Infatti, si parla di angeli che stanno al suo servizio.  

La sobrietà scarna del racconto marciano a differenza dei tre momenti in cui rispettivamente l’evangelista Matteo e Luca raccontano il confronto di Gesù con il tentatore è quanto mai significativa, e paradossalmente non potrebbe essere più eloquente. Gesù è messo alla prova come nel momento culminante della sua passione, ma egli non soccombe all’insidia del male, come dice ai discepoli: «vegliate e pregate per non entrare in tentazione» (Mc 14,38). Qui parla il Vangelo di Luca, che così conclude il racconto della triplice prova: «è stato detto: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo. Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato» (Lc 4,12-13). 

Nello stesso Vangelo di Marco, Gesù dopo la chiamata delle prime due coppie di discepoli, si scontra con un uomo posseduto da uno spirito impuro. Questo spirito si rivolge a Gesù e paradossalmente lo indica come il Santo di Dio. Gesù libera quell’uomo dallo spirito impuro, non con un esorcismo come impropriamente si potrebbe intendere – Gesù, a differenza di noi, non è costretto a combattere, perché la sua potenza divina gli fa vincere il male con la sola parola, Con un atto della sua autorità libera l’uomo restituendolo alla pienezza della sua esistenza quotidiana.  

C’è anche un altro episodio, realmente sconcertante, nel Vangelo di Marco, accaduto nella regione dei Geraseni, nella Decapoli, in territorio pagano, dove è addirittura una legione che abita un uomo, isolato dai suoi concittadini, incapaci di trattenerlo in quello stato. Quella legione di spiriti malvagi – una legione romana era in realtà composta da seimila uomini – viene allontanata dall’uomo, ma al prezzo di farla discendere nel corpo di un gregge di porci che si getta nel mare.  

Anche in quella circostanza Gesù rivela la sua autorità sullo spirito del male. È lui che “permette” alla legione di abitare i porci, per liberare l’indemoniato: la vittoria di Cristo abita nel suo dominio totale sullo spirito del male e le sue trame.

C’è un punto che dobbiamo tenere particolarmente presente, come ci ricorda Papa Francesco (vedi) «nelle tentazioni Gesù mai dialoga con il diavolo, mai. Nella sua vita Gesù mai ha fatto un dialogo con il diavolo, mai. O lo scaccia via dagli indemoniati o lo condanna o fa vedere la sua malizia, ma mai un dialogo. E nel deserto sembra che ci sia un dialogo perché il diavolo gli fa tre proposte e Gesù risponde. Ma Gesù non risponde con le sue parole; risponde con la Parola di Dio, con tre passi della Scrittura. E questo dobbiamo fare anche tutti noi. Quando si avvicina il seduttore, incomincia a sedurci: “Ma pensa questo, fa quello…”. La tentazione è di dialogare con lui, come ha fatto Eva, e, se noi entriamo in dialogo con il diavolo saremo sconfitti. Mettetevi questo nella testa e nel cuore: con il diavolo mai si dialoga, non c’è dialogo possibile. Soltanto la Parola di Dio».

Questo atto di prudenza appartiene alla coscienza della prima generazione cristiana. Così la prima lettera a Timoteo precisare la necessità che «il vescovo … non sia un convertito da poco tempo, perché, accecato dall’orgoglio, non cada nella stessa condanna del diavolo. È necessario che egli goda buona stima presso quelli che sono fuori della comunità, per non cadere in discredito e nelle insidie del demonio» (1 Tim 3,6-7).  

Ma è soprattutto degno d’interesse, la vera e propria teologia della storia come in un passaggio non certo semplice della seconda lettera ai Tessalonicesi, testo dell’ultimo quarto del primo secolo.. Scrive l’autore, nel solco della tradizione paolina: «nessuno vi inganni in alcun modo! Prima, infatti verrà l’apostasia e si rivelerà l’uomo dell’iniquità, il figlio della perdizione, l’avversario, colui che s’innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio. Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, io vi dicevo queste cose? E ora voi sapete che cosa lo trattiene perché non si manifesti se non nel suo tempo. Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo colui che finora lo trattiene. Allora l’empio sarà rivelato e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta. La venuta dell’empio avverrà nella potenza di Satana, con ogni specie di miracoli e segni e prodigi menzogneri e con tutte le seduzioni dell’iniquità, a danno di quelli che vanno in rovina perché non accolsero l’amore della verità per essere salvati» (2 Ts 2,5-10). 

Ne voglio rammentare comunque altri due, nel solco delle problematiche della Chiesa del tempo. Sono tratte dalle lettere dell’apostolo Giovanni, che rivela alle sue comunità l’effetto divisivo devastante dello spirito del male: «figlioli, è giunta l’ultima ora. Come avete sentito dire che l’anticristo deve venire, di fatto molti anticristi sono già venuti. Da questo conosciamo che è l’ultima ora. Sono usciti da noi, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi; sono usciti perché fosse manifesto che non tutti sono dei nostri (1 Gv 2,18-19). E nella lettera seguente rivela l’inganno principale che ha la stessa origine, ossia il non riconoscere il mistero dell’incarnazione: «questo è l’amore: camminare secondo i suoi comandamenti. Il comandamento che avete appreso da principio è questo: camminate nell’amore. Sono apparsi infatti nel mondo molti seduttori, che non riconoscono Gesù venuto nella carne. Ecco il seduttore e l’anticristo!  (2 Gv 1,6-7). 

Il credente è dunque in comunione con il Cristo che è stato messo alla prova, ma nella sua sequela ha vinto lo spirito del male. Il credente, perciò, non è abbandonato al male, ma si trova sicuro nelle mani di Dio, nonostante le insidie dell’antico avversario. Come dice Dante Alighieri: «Nostra virtù che di legger s’adona (“facile a cedere”), / non spermentar (“non mettere alla prova”) con l’antico avversaro, / ma libera da lui che sì la sprona» (Purgatorio XI). 

E così leggiamo anche nell’Apocalisse, che lega la prima pagina biblica all’ultima: il «serpente antico, colui che è chiamato diavolo e il Satana e che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato sulla terra e con lui anche i suoi angeli» (Ap 12,9; cf. 20,2).

Paolo a Roma: a processo o ad annunciare il Vangelo?

«Ti sei appellato a Cesare, a Cesare andrai». Paolo a Roma. 

Il Mantello della Giustizia. Febbraio 2021
 

di Stefano Tarocchi · Roma è l’obiettivo che l’apostolo Paolo ha fortemente voluto nella sua opera di annunciatore del Vangelo ai pagani.  

Ce lo dice lui stesso nella lettera che ha indirizzato ai cristiani di Roma, fino dalle prime righe: «desidero ardentemente vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale, perché ne siate fortificati, o meglio, per essere in mezzo a voi confortato mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io. Non voglio che ignoriate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi – ma finora ne sono stato impedito – per raccogliere qualche frutto anche tra voi, come tra le altre nazioni. Sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, ad annunciare il Vangelo anche a voi che siete a Roma» (Rom 1,11-15). Di Roma e Paolo mi sono occupato qualche tempo fa: 〈vedi〉.
Secondo questo scritto, composto nella maturità del suo ministero e indirizzato ad una comunità che non è stata fondata da lui, Paolo vuole andare a Roma perché sente di aver concluso la sua esperienza di annuncio del vangelo in tutto l’Oriente: «da Gerusalemme e in tutte le direzioni fino all’Illiria, ho portato a termine la predicazione del vangelo di Cristo». E dunque «non trovando più un campo d’azione in queste regioni e avendo già da parecchi anni un vivo desiderio di venire da voi, spero di vedervi, di passaggio, quando andrò in Spagna, e di essere da voi aiutato a recarmi in quella regione, dopo avere goduto un poco della vostra presenza» (Rom 15,19.23-24).  

Nel libro degli Atti, tuttavia, sembra ci sia un’altra ragione dell’arrivo di Paolo nella capitale dell’impero. Leggiamo il racconto, nello stile tipico delle narrazioni dei viaggi: «arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per conto suo con un soldato di guardia. Dopo tre giorni, egli fece chiamare i notabili dei Giudei e, quando giunsero, disse loro: «Fratelli, senza aver fatto nulla contro il mio popolo o contro le usanze dei padri, sono stato arrestato a Gerusalemme e consegnato nelle mani dei Romani. Questi, dopo avermi interrogato, volevano rimettermi in libertà, non avendo trovato in me alcuna colpa degna di morte. Ma poiché i Giudei si opponevano, sono stato costretto ad appellarmi a Cesare, senza intendere, con questo, muovere accuse contro la mia gente. Ecco perché vi ho chiamati: per vedervi e parlarvi, poiché è a causa della speranza d’Israele che io sono legato da questa catena» (At 28,16-20). 

Circa la data dell’arrivo, ci aiuta san Girolamo, secondo cui «Paolo viene mandato prigioniero a Roma nell’anno venticinquesimo dopo la Passione del Signore, cioè nel secondo anno di Nerone, al tempo in cui Festo succede a Felice come procuratore della Giudea fu inviato prigioniero a Roma e, rimanendo in libertà vigilata per un biennio, ogni giorno disputava contro i Giudei sulla venuta di Cristo». Siamo quindi nell’anno 55 d.C., poco prima dell’inverno, quando, nei tempi antichi, il mare era “chiuso” alla navigazione fino alla primavera successiva. La navigazione del tempo infatti era legata al modo di governare le navi, e chi si metteva in mare oltre ogni regola di prudenza rischiava il naufragio.
Anche una visione, narrata precedentemente, gli preannuncia il viaggio a Roma quando a Gerusalemme si trova in pericolo di vita: «Coraggio! Come hai testimoniato a Gerusalemme le cose che mi riguardano, così è necessario che tu dia testimonianza anche a Roma» (At 23,11). E, ancora, durante il naufragio a Malta, narra il libro: «mi si è presentato infatti questa notte un angelo di quel Dio al quale io appartengo e che servo, e mi ha detto: “Non temere, Paolo; tu devi comparire davanti a Cesare, ed ecco, Dio ha voluto conservarti tutti i tuoi compagni di navigazione”» (At 27,23-24). 

Quando Paolo giunge a Roma, è lui stesso a rivela che il suo arrivo è dovuto alla circostanza dell’“appello a Cesare”, di cui parla lo stesso libro più volte.  

Gli Atti degli Apostoli fanno riferimento ad un istituto giuridico: la «provocatio»,  che consisteva nel rivolgersi prima del processo a una corte di grado superiore che avrebbe avocato a sé l’intera causa, sottraendola alla corte di grado inferiore. Il procedimento era racchiuso nella lex Valeria de provocatione, attribuita al console Publio Valerio Publicola (siamo nel 509 a.C.): all’interno della città di Roma ciascun cittadino avrebbe potuto limitare il potere dei consoli ricorrendo alla provocatio ad populum: era consentito richiedere un giudizio innanzi alle assemblee popolari. In età imperiale la provocatio si rivolgeva all’imperatore, e così l’appello. 

Ma perché Paolo vuole espressamente fare ricorso a Cesare? 

Secondo il libro degli Atti, quando arriva a Gerusalemme viene accusato da aver violato la sacralità del tempio. Dapprima pronuncia la sua autodifesa (At 22,1-21), raccontando per la seconda volta la sua chiamata, e quindi, visto il pericolo di vita che incombe su di lui – un vero e proprio complotto (At 23,12-22) – viene trasferito a Cesarea, dopo che ha scampato alla flagellazione quando il centurione rivela al tribuno che Paolo è cittadino romano. E questi precisa che lo è fin dalla dalla nascita (At 22,28). Vi rimarrà due anni in prigione, quando Felice, uomo di cui gli Atti narrano la chiara venalità, lascia l’incarico a Porcio Festo, giunto alla scadenza del proprio mandato. 

Così leggiamo nel libro degli Atti: «Paolo disse a propria difesa: «Non ho commesso colpa alcuna, né contro la Legge dei Giudei né contro il tempio né contro Cesare». Ma Festo, volendo fare un favore ai Giudei, si rivolse a Paolo e disse: «Vuoi salire a Gerusalemme per essere giudicato là di queste cose, davanti a me?». Paolo rispose: «Mi trovo davanti al tribunale di Cesare: qui mi si deve giudicare. Ai Giudei non ho fatto alcun torto, come anche tu sai perfettamente. Se dunque sono in colpa e ho commesso qualche cosa che meriti la morte, non rifiuto di morire, ma, se nelle accuse di costoro non c’è nulla di vero, nessuno ha il potere di consegnarmi a loro. Io mi appello a Cesare». Allora Festo, dopo aver discusso con il consiglio, rispose: «Ti sei appellato a Cesare, a Cesare andrai». In conclusione, a parlare è ancora Porcio Festo: «Paolo si appellò perché la sua causa fosse riservata al giudizio di Augusto, e così ordinai che fosse tenuto sotto custodia fino a quando potrò inviarlo a Cesare» (At 25, 21).  

E ancora: «Io mi sono reso conto che egli non ha commesso alcuna cosa che meriti la morte. Ma poiché si è appellato ad Augusto, ho deciso di inviarlo a lui. Sul suo conto non ho nulla di preciso da scrivere al sovrano; per questo l’ho condotto davanti a voi e soprattutto davanti a te, o re Agrippa, per sapere, dopo questo interrogatorio, che cosa devo scrivere. Mi sembra assurdo infatti mandare un prigioniero, senza indicare le accuse che si muovono contro di lui» (At 25,25-27). E quindi: «andandosene, conversavano tra loro e dicevano: «Quest’uomo non ha fatto nulla che meriti la morte o le catene».  Nel frattempo, davanti al re Erode Agrippa II, racconta ancora una volta la sua chiamata in una nuova autodifesa (At 26,1-23).  

È al termine di questa che Erode Agrippa, dopo aver dato di pazzo all’apostolo, dice a Festo: «Quest’uomo poteva essere rimesso in libertà, se non si fosse appellato a Cesare» (At 26,31-32). 

Il libro degli Atti, in questi due ultimi passaggi, evidenzia un particolare degno di nota – e di rilevanza giuridica –, ripetuto due volte: Paolo non ha commesso alcuna cosa che meriti la morte (At 26,25); non ha fatto nulla che meriti la morte o le catene (At 26,31).  

Festo può solo evidenziare le accuse per rendere credibile l’appello a Cesare 

Paolo morirà di lì a poco dopo il suo arrivo, nel 58 d.C., dopo due anni di libertà vigilata (cf. At 28,30), oppure nel 67 d.C. (Girolamo ed Eusebio di Cesarea). 

In questo secondo caso avrebbe affrontato un primo processo, da cui sarebbe scampato per affrontare un viaggio (probabilmente fallimentare) in Spagna, e, tornato in Oriente sarebbe rientrato a Roma, dove subisce il martirio. In questo modo si esprimono le fonti antiche, basate sulla seconda lettera a Timoteo, che appartiene della tradizione paolina e non di pugno dell’apostolo. 

Il libro degli Atti non dice niente di questo: si ferma al tempo dei due anni di libertà vigilata. Fra l’altro, non racconta di nessun rapporto di Paolo con la comunità di Roma, né tanto meno con la Roma imperiale. Soprattutto non parla della sua passione, forse per non mettere in ombra la passione di Cristo.  

In ogni caso, la passione di Paolo, qualunque sia stato l’anno in cui è avvenuta, è stata determinata in un consesso legalmente legittimo. Così che, quando l’apostolo scrive alla chiesa di Roma, nella conclusione della lettera afferma solennemente il principio divino dell’autorità: «ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti, non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio» (Rom 13,1). E il primo a testimoniarlo è lo stesso apostolo, quando afferma per inciso: «parlo a gente che conosce la legge» (Rom 7,1).  

L’appello a Cesare non era dettato dalla ricerca di un teatro più importante – anche Gesù è stato condannato a morte dall’autorità di Roma – ma l’evento con cui la provvidenza divina ha legato Roma alla nascente fede cristiana. 

È così che Roma assume un valore importante per la storia del cristianesimo nei secoli. Come ebbe a dire in un discorso a braccio Giovanni Paolo II: «i vescovi di Roma non devono considerarsi soltanto successori di Pietro, ma anche come gli eredi di Paolo». 

Ed ecco allora l’attualità del messaggio di una Chiesa in uscita, come sulle orme di san Paolo ripete l’attuale vescovo di Roma, papa Francesco, per «uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo» (Evangelii Gaudium 20).