Albert Vanhoye: sapiente studioso della Parola di Dio

Albert Vanhoye: memoria di un maestro

 

Il mantello della giustizia – settembre 2021

«Dio avrebbe tanti motivi per non parlare più al suo popolo, ma non si è mai rassegnato!»: è una splendida esclamazione di un uomo intriso della sapienza della Bibbia, indagata e letteralmente ruminata per decenni per essere restituita nella sua densità: il p. Albert Vanhoye, gesuita.

Albert Vanhoye era nato il 24 luglio 1923 a Hazebrouck (diocesi di Lille, in Francia).  

Nel 1941, all’età di 18 anni, attraversò tutta la Francia a piedi per entrare nel noviziato della Compagnia di Gesù a Le Vignau (Landes). Un’impresa coraggiosa, quando metà della Francia era occupata dai tedeschi; per raggiungere la zona franca, dovette attraversare la linea clandestinamente per non essere catturato e inviato in Germania per essere aggiunto al numero di giovani che lavoravano per l’industria tedesca.  

Dopo una laurea in Lettere classiche, filosofia e teologia a Enghien (Belgio), fu ordinato sacerdote il 25 luglio 1954. Fece il suo “Terzo Anno” (l’anno di formazione spirituale per i gesuiti prima dei loro ultimi voti) a Saint-Martin d’Ablois (1955-56) e pronunciò i suoi voti definitivi a Roma il 2 febbraio 1959.  

Nel 1956 fu inviato al Pontificio Istituto Biblico di Roma, per gli studi e, successivamente, per un dottorato, sulla struttura letteraria dell’Epistola agli Ebrei (pubblicato nel 1962).  

Insegnò brevemente a Chantilly, prima di tornare a Roma nel 1962, come professore al Pontificio Istituto Biblico. In questa grande istituzione accademica è stato decano della facoltà biblica dal 1969 al 1975, e quindi rettore dell’Istituto biblico dal 1984 al 1990.
Chi scrive l’ha avuto come maestro negli anni tra il 1980 e il 1983, durante gli studi al Pontificio Istituto Biblico: esattamente due corsi e un seminario, sempre sulla lettera agli Ebrei.  

Diresse ventotto tesi di dottorato sull’epistola agli Ebrei, su diversi temi della teologia paolina, sull’esegesi dei Vangeli (Marco e Luca), su questioni di struttura letteraria (Libro dell’Apocalisse). Per molti anni segretario della Pontificia Commissione Biblica, è stato una delle grandi ispirazioni di due documenti che estendono l’opera del Concilio: l’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993) e del popolo ebraico e delle loro sacre Scritture nella Bibbia cristiana (2001).

Fu anche consultore di varie Congregazioni Pontificie (Congregazione dell’Educazione Cattolica; Congregazione per la Dottrina della Fede).  

Il cardinale Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, aveva totale fiducia in lui: si appellava ad Albert Vanhoye ogni volta che un testo papale che menzionava la Scrittura o un libro che commentava la Scrittura causava problemi.  

Il Cardinale Ratzinger ha apprezzato questo instancabile, umile lavoratore, che desiderava solo il bene della Chiesa. Fu anche direttore della collana Analecta Biblica.  

Il 24 marzo 2006, all’età di 83 anni, è stato creato cardinale da Papa Benedetto XVI per “i servizi che ha reso alla Chiesa con esemplare fedeltà e ammirevole zelo”.  

Ha svolto tutte queste funzioni con disponibilità, discrezione ed efficienza. Ciò ha manifestato da un lato un temperamento relativamente timido, ma anche la ricchezza dell’uomo interiore. Come insegnante, i suoi studenti apprezzavano la sua affabile disponibilità per tutti, il suo rigore e la sua preoccupazione per la precisione nell’interpretazione e nella comprensione del testo biblico. Spiritualmente, passò tutta la sua vita a scrutare la figura di Cristo, contemplando la docilità filiale di Gesù verso Dio e la sua solidarietà con gli uomini, lasciandosi guidare al cuore misericordioso di Cristo.  

Dal 2013 risiedeva nella comunità di San Pietro Canisio, comunità gesuita, che accoglie in particolare compagni anziani e malati ed è sostenuta dalla Curia Generale dei Gesuiti, accanto al Vaticano: qui morto il 26 luglio 2021 a novantotto anni di vita e sessantasette di sacerdozio. 

Anche una lettura sommaria della lista delle opere pubblicate da Albert Vanhoye mostra che il suo pensiero e la sua esegesi erano principalmente nutriti dalla Lettera agli Ebrei. Ha scritto più di cinquanta articoli su altri testi e temi del Nuovo Testamento: ad esempio, sulla composizione di vari passaggi e libri (Giovanni 5, 19-30; 1 Corinzi 12-14; il Benedictus; 1 Tessalonicesi; Apocalisse), sui carismi del Nuovo Testamento, su diversi passi del Vangelo di Giovanni, sull’agonia, la passione e la croce di Cristo, sulla “fede di Cristo”, sui Galati, sul sangue e sul cuore di Cristo, nonché sul rapporto tra esegesi e teologia. Tuttavia, ha pubblicato circa cinquanta studi sulla lettera agli Ebrei: la riprova che questo scritto è rimasto al centro delle sue riflessioni sulla cristologia e la tipologia del Nuovo Testamento, nonché sull’Antica e la Nuova Alleanza.  

A noi rimane il suo insegnamento, la sua sapienza, sempre ricca di contenuto e di spessore: P. Vanhoye ci lascia quasi il compito di ritrovare il giusto spazio per questo libro del Nuovo Testamento, tanto importante, quanto ingiustamente trascurato negli studi di teologia, che mette particolarmente in luce il sacerdozio di Cristo e quello del popolo di Dio. La lettera agli Ebrei del Nuovo Testamento dovrà nuovamente e con maggior forza essere affidato alla lettura e allo studio dei candidati al ministero presbiterale, ma anche di quanti compiono i loro studi per conseguire i gradi accademici. È un impegno che mi assumo nella memoria del mio antico maestro. 

La tassa per il tempio e Gesù (Mt 17,24)

«Consegnala loro per me e per te». La tassa per il tempio e Gesù (Mt 17,24) 

 

di Stefano Tarocchi · È ben nota la questione del pagamento del tributo a Cesare: «è lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?» (Mc 12,13-17; cf. Mt 22,15-22; Lc 20,20-26). 

Invece, nel solo vangelo di Matteo si pone una domanda simile per una questione completamente diversa: si tratta del pagamento della tassa del tempio: «quando furono giunti a Cafàrnao, quelli che riscuotevano la tassa per il tempio [lett: «quelli che ricevevano la didracma», ossia la moneta della tassa] si avvicinarono a Pietro e gli dissero: «Il vostro maestro non paga la tassa?». Rispose: «Sì». Mentre entrava in casa, Gesù lo prevenne dicendo: «Che cosa ti pare, Simone? I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli estranei?». Rispose: «Dagli estranei». E Gesù replicò: «Quindi i figli sono liberi. Ma, per evitare di scandalizzarli, va’ al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce che viene su, aprigli la bocca e vi troverai una moneta d’argento (lett. statêr). Prendila e consegnala loro per me e per te» (Mt 17,24-27). 

Il pagamento della tassa del Tempio, a differenza del pagamento del tributo a Cesare, non era problematico dal punto di vista del diritto ebraico, poiché non comportava il riconoscimento della signoria straniera della Terra Santa e l’utilizzo di una moneta che potesse essere considerata idolatrica. Infatti, questa tassa del tempio aveva lo scopo di sostenere il sistema sacrificale a Gerusalemme, ovvero «il servizio del tempio del nostro Dio», come vedremo dice il libro di Neemia. 

Secondo la Mishnah, testo fondamentale dell’ebraismo rabbinico, che conserva le sentenze dei Maestri della tradizione, il tributo doveva essere pagata annualmente, nel mese di febbraio-marzo, da tutti i maschi ebrei adulti di età superiore ai vent’anni. Esistevano peraltro delle controversie su chi doveva pagare: per esempio, cosa accadeva per i sacerdoti del tempio?  

Dai frammenti di Qumran a noi giunti sembra che gli Esseni pagassero la loro tassa solo una volta nella vita, e questo per la repulsione verso i sacrifici di sangue e verso la stessa casta sacerdotale che aveva in mano il tempio medesimo.  

Come dice il vangelo di Matteo, si pagava una didracma, ossia una “doppia dracma”, una moneta di due dracme coniata in argento che aveva il valore di denarî romani, oppure un mezzo siclo ebraico. Di fatto, però, nel vangelo si fa riferimento ad un’altra moneta: la statêra, una moneta d’argento del valore di quattro dracme dell’Attica, equivalente a un siclo ebraico. E questa era la tassa esatta per due persone: Gesù e Pietro. Sembra improbabile, nonostante affermazioni contrarie, che i Galilei in particolare fossero negligenti nel pagare. 

Sebbene apparentemente di origine post-esilica origine, la tassa del tempio era considerata dai farisei almeno come saldamente radicata nella Scrittura (Allison e Davies). Ed ecco i testi biblici in materia. Leggiamo in Esodo 30,11-16: «quando per il censimento conterai uno per uno gli Israeliti, all’atto del censimento ciascuno di essi pagherà al Signore il riscatto della sua vita, perché non li colpisca un flagello in occasione del loro censimento. Chiunque verrà sottoposto al censimento, pagherà un mezzo siclo, conforme al siclo del santuario, il siclo di venti ghera [lett. «venti oboli»: ovvero la sesta parte della dracma]. Questo mezzo siclo sarà un’offerta prelevata in onore del Signore. Ogni persona sottoposta al censimento, dai venti anni in su, corrisponderà l’offerta prelevata per il Signore. Il ricco non darà di più e il povero non darà di meno di mezzo siclo, per soddisfare all’offerta prelevata per il Signore, a riscatto delle vostre vite». E così vediamo in Neemia 10,33-34: «ci siamo imposti per legge di dare ogni anno il terzo di un siclo per il servizio del tempio del nostro Dio: per i pani dell’offerta, per l’oblazione perenne, per l’olocausto perenne, nei sabati, nei noviluni, nelle feste, per le cose sacre, per i sacrifici per il peccato in vista dell’espiazione in favore d’Israele, e per ogni attività del tempio del nostro Dio». 

Questo l’insegnamento della Scrittura. Ma è altrettanto interessante notare che dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme del 70 d.C. ad opera di Tito, venne istituito dall’imperatore Vespasiano il fiscus iudaicus: gli Ebrei, assoggettati all’Impero a conclusione della rivolta che aveva portato alla distruzione della città santa, furono obbligati a versare una tassa di due dracme ciascuno per ogni anno: la stessa che era prevista per il tempio di Gerusalemme.  

Ora, questo tributo era invece destinato al tempio di Giove Ottimo Massimo, o Giove Capitolino, a Roma. come risarcimento per i danni di guerra. Inevitabilmente questa tassa, poi abolita dall’imperatore Cocceio Nerva (che regnò dal 96 al 98 d.C.), fu considerata un vero e proprio affronto per gli Ebrei.

«Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio»

Il denaro di Cesare e il regno di Dio

Il Mantello della Giustizia – Luglio 2021

 

di Stefano Tarocchi · Il testo di Marco del celebre insegnamento sul tributo a Cesare (Mc 12,14 e paralleli), ambientato nel tempio di Gerusalemme, è centrale all’interno della triplice tradizione sinottica.

Infatti, il vangelo di Luca si è riallacciato a quello di Marco, dopo il racconto dell’avvicinamento a Gerusalemme (Lc 19,28-40). Segue infatti il suo modello nelle pericopi precedenti e successive al passo qui considerato. Nulla lascia trasparire, sia nel contenuto che nelle formulazioni, la presenza di un’altra fonte. Le “concordanze minori” fra Luca e Matteo sono minime.

Qualcuno ha inviato a Gesù farisei ed erodiani per metterlo alla prova. Di farisei ed erodiani si è già parlato in Mc 3,6, ancora in Galilea, dopo la guarigione dell’uomo dalla mano paralizzata: «i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire».

È interessante notare come, nei diversi racconti sia differente l’introduzione all’episodio. Così scrive Marco: «mandarono da lui alcuni farisei ed erodiani, per coglierlo in fallo nel discorso». Dal canto suo Matteo scrive: «i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani» (Mt 22,15-16). Infine, leggiamo in Luca: gli scribi e i sommi sacerdoti «si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore» (Lc 20,20).

Il solo Marco però fa emergere un’inedita alleanza a Gerusalemme tra farisei ed erodiani (che spariscono però dai racconti paralleli), per mettere alla prova Gesù al fine di coglierlo in fallo e accusarlo. Così nemici e amici dei romani si trovano uniti nell’attacco contro Gesù.

Sicuramente gli erodiani non sono amici di Roma ma si alleano all’altro potentato religioso e politico, quello dei farisei («l’autorità e il potere del governatore»). 

Da parte di Gesù, però, si genera un atto d’accusa verso quanti lo interrogano: una posizione definita ipocrita in Mc (Mc 12,15), che diviene «malvagità» in Mt (Mt 22,18) e «malizia» in Lc (Lc 20,23).

Gesù è considerato un maestro fidato: dunque quelle direttive che nascono da lui devono essere seguite da coloro che lo ascoltano. Ed è qui il nocciolo della questione.

La questione è più che spinosa: il tributo imperiale è permesso oppure no? Quando il figlio di Erode, Archelao, tetrarca della Giudea viene deposto dai Romani (6 d.C.) e il popolo giudaico perde la sua libertà, un movimento guidato probabilmente da Giuda il Galileo – ce lo dice Flavio Giuseppe – suggerisce che il pagare il tributo ai romani sia un delitto.

Qui la triplice tradizione usa termine diversi per definire questo tributo: Marco, come Matteo, utilizza in greco il termine che deriva dal latino census, ossia una tassa sulla testa di ogni persona, che invece Luca nel parallelo chiamerà tributo. Si trattava di una tassa personale molto elevata, uguale per tutti che andava a finire direttamente al fisco imperiale.

I farisei avevano deciso di pagare il tributo, benché chiaramente sgradito.

Qualunque fosse stata la risposta di Gesù sicuramente la risposta affermativa avrebbe in qualche modo toccato la problematica teologica. Tuttavia, soprattutto una risposta negativa avrebbe fatto di lui un rivoltoso.

Ma è questo il fatto: Gesù non si abbassa mai a livello di coloro che lo interrogano nella loro ipocrisia raffinata, come fingere una giustizia solo per metterlo alla prova (Mc 12,15; Mt 22,18; Lc 20,20). Egli escogita una soluzione in qualche modo geniale. Chiede anzitutto la moneta del tributo: un denario, da cui il nostro termine denaro. Com’è noto esso era la paga di una giornata di lavoro.

Gesù evidentemente non ha con sé nessuna moneta, ma ce l’hanno i suoi avversari, che non faticano a produrla all’istante. E poi aggiunge chiedendo qual è l’immagine che si trova sulla moneta: si tratta dell’immagine del l’imperatore regnante: l’imperatore Tiberio Cesare, di cui si dice che fece coniare solamente tre versioni di denario, due delle quali erano molto rare. La terza versione è la moneta d’argento che mostra su un lato il busto dell’imperatore con la scritta del nome e sul lato opposto il titolo pontifex maximus.

Ora è più che evidente che la moneta è simbolo di potere. Quello che non capiscono gli avversari di Gesù, soprattutto nel tempio laddove si svolge il ministero di Gesù a Gerusalemme nei giorni avanti la passione, è una sfida ad un potere che appartiene a un mondo che non è quello di Gesù. Così la vicinanza di Gesù e del potere imperiale non deve trarre in inganno: essa non può suggerire nessuna sorta di compromesso.

Pertanto, Gesù non sceglie né a favore né contro il tributo. Tuttavia, se in qualche modo di fatto riconosce l’autorità imperiale, con le sue stesse parole le oppone con chiarezza l’autorità divina.

Questo fa ricordare le parole del libro di Giobbe, nel descrivere un dominio incontrastato sulle forze della natura, fino a contenere il mare: «chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, e gli ho messo chiavistello e due porte dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?» (Gb 38,8-11). Verrebbe da pensare ai disastri scellerati che portano al clima impazzito…

L’accento è dunque decisamente su Dio: il potere umano è solo transitorio nell’opporsi alla stabilità e alla durata del regno di Dio.

Non si tratta però di una regola pratica che fornisce di colpo una risposta per ogni questione, che può sorgere nel rapporto dell’uomo col potere statale e divino, perennemente attuale. Laddove questo potere vorrebbe entrare in concorrenza con quello divino, la parola di Gesù si volge solamente a favore di Dio.

Dunque, la risposta di Gesù si differenzia dagli zeloti che mirano alla pura e semplice rivolta, come pure da quell’atteggiamento, definito apocalittico, del disinteresse politico oppure della semplice sopportazione di qualcosa che non può esser cambiato.

Gesù, in questo modo, addossa all’uomo la responsabilità di decidere dove è giusto riconoscere la richiesta ragionevole dello stato, oppure far valere l’autorità divina che è stata violata da un’autorità pervasiva.

Ecco perché i diversi racconti dei Vangeli registrano la reazione di meraviglia (Mt 22,22 e Lc 20,20), o di ammirazione (Mc 12,17) degli avversari: questi persistono nella ostilità contro Gesù, ma devono darsi per vinti dopo aver tentato. È forse questo il significato del verbo “tacere” usato nella conclusione di Luca.

Come la Chiesa delle origini trasmette le parole di Gesù

«Mi ricordai di quella parola del Signore…»: la trasmissione dei detti di Gesù 

 

 

di Stefano Tarocchi · Nel libro degli Atti è ben conosciuto l’episodio di Pietro che a Cesarea marittima si incontra, chiamato dallo Spirito con il centurione Cornelio, i suoi familiari e i suoi amici, che si conclude con la discesa dello Spirito su quanti non erano stati ancora battezzati: «i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in lingue e glorificare Dio» (At 10,45-46) [Per la verità la traduzione CEI 2008 riporta «parlare in lingue», con l’aggiunta dell’aggettivo “altre”, che nel testo greco non esiste: sicuramente un refuso per assonanza ad altri testi degli Atti]. 

Quindi il libro degli Atti riporta la reazione dei fedeli circoncisi, quando l’apostolo rientra in Giudea e quindi a Gerusalemme: «Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme con loro!» (At 11,3), è molto interessante approfondire la risposta di Pietro. Dapprima rievoca, nello stile dell’autore degli Atti, l’intero avvenimento, e quindi conclude: «avevo appena cominciato a parlare quando lo Spirito Santo discese su di loro, come in principio era disceso su di noi. Mi ricordai allora di quella parola del Signore che diceva: “Giovanni battezzò con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo”. Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che ha dato a noi, per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?» (At 11,15-17). 

Ciò che dice Pietro nella narrazione degli Atti degli Apostoli sembra riprendere il colloquio del Signore con i discepoli prima del momento della sua definitiva ascesa al cielo: «mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo» (At 1,4-5). 

Tuttavia, le parole di Pietro hanno una caratteristica peculiare: l’uso del verbo «ricordare» («mi ricordai allora di quella parola del Signore»), come più avanti leggiamo anche nelle parole di Paolo che si rivolge ai presbiteri (ed episcopi!) di Efeso a Mileto: «ricordando le parole del Signore Gesù che disse: “Si è più beati nel dare che nel ricevere”» (At 20,35). Troviamo lo stesso pensiero anche nella prima tradizione cristiana: «tutti eravate umili e senza vanagloria, volendo più ubbidire che comandare, più dare con slancio che ricevere. Contenti degli aiuti di Cristo nel viaggio e meditando le sue parole, le tenevate nel profondo dell’animo, e le sue sofferenze erano davanti ai vostri occhi» (1 Clem 2,1). Jeremias, a proposito di Atti, ipotizza presumibilmente un proverbio, mutuato dal mondo greco romano, che è stato posto sulla bocca di Gesù. Si può addirittura scomodare addirittura lo storico  greco Tucidide(V sec. a.C.), che così scrive nella sua Guerra del Peloponneso: «gli Odrisii – una popolazione dell’antica Tracia, regione che corrisponde alla Bulgaria e alla Turchia di oggi –  avevano istituito una legge opposta a quella del regno di Persia, legge che vige anche presso gli altri Traci, cioè la legge del prendere invece che dare (ed era più vergognoso il non dare, se pregato, che il non ottenere dopo aver avere richiesto)». 

Ma il verbo fondamentale è proprio «ricordare» («ricordando le parole del Signore Gesù…»).  

Questo verbo sembra particolarmente importante nella raccolta e nella conservazione dei detti del Signore, a partire dalla stessa tradizione dei Vangeli. Così abbiamo nel racconto della Passione: «il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro, e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto: «Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte» (Lc 22,61). Ma anche nel vangelo di Giovanni: «Ricordatevi della parola che io vi ho detto: “Un servo non è più grande del suo padrone”» (Gv 15,20); «perché si compisse la parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato» (Gv 18,9). E prima ancora in Paolo si legge: «sulla parola del Signore, infatti, vi diciamo questo: noi, che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore, non avremo alcuna precedenza su quelli che sono morti» (1 Ts 4,15). 

Tuttavia è significativo che nella tradizione dei Vangeli sinottici il detto di Gesù messo sulle labbra di Pietro venga riportato sotto altra forma, cioè come parola di Giovanni Battista.  

Così leggiamo in Marco: «io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo» (Mc 1,8); in Matteo abbiamo: «io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Mt 3,11).  

E, infine, in Luca leggiamo: «poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Lc 3,15-16). Quest’ultima immagine è ripresa anche nel libro degli Atti: «diceva Giovanni sul finire della sua missione: “Io non sono quello che voi pensate! Ma ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali”» (At 13,25). 

Si possono fare varie ipotesi sul motivo dello “spostamento” da Gesù al Battista della stessa espressione circa il battesimo. Certo. Quando i cristiani si sono appropriati i detti della tradizione del Battista – la novità appare negli Atti degli Apostoli, scritti dallo stesso autore del III Vangelo – è rimasta intatta un’evidente connotazione messianica: «viene colui che è più forte di me», per evidenziare la differenza tra Gesù e il Battista (Bovon) che avrà il suo apice paradossale nel IV Vangelo, con ben altre prospettive. 

È degno di nota, però, che i cristiani, pur sottolineando la distanza fra Giovanni e Gesù, sono rimasti fedeli anche alla figura e all’insegnamento del Battista. Ciò che l’autore del terzo Vangelo dice nel libro degli Atti sembra quasi far autenticare l’insegnamento del Battista da parte del Signore risorto, pur adattandolo al contesto in cui è inserito.  

In At 1,5 la promessa riguarda solo gli apostoli e la primitiva comunità giudeo-cristiana: «voi, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». In Atti 11,15-17, invece, la promessa riguarda Cornelio e la comunità che si fa cristiana a partire dal mondo pagano: «voi sarete battezzati in Spirito Santo». 

Ma il tutto si svolge nella memoria che conserva e trasmette le parole del Signore Gesù in tutto il loro prezioso significato.