«Predicare per otto minuti e dire tutto…»

Il Verbo si è abbreviato: «predicare per otto minuti e dire tutto…»

Il Mantello della Giustizia – Ottobre 2024

di Stefano Tarocchi • il Corriere della Sera di martedì 24 ha pubblicato alcuni stralci delle conversazioni che papa Francesco ha avuto in privato con i confratelli gesuiti di Indonesia, Timor Est e Singapore durante il suo viaggio recente tra Asia e Oceania. Il testo integrale sarà pubblicato da «Civiltà Cattolica».

Domanda: Nei suoi undici anni come primo Papa gesuita, quali sono state le decisioni più importanti e le sfide più difficili?

«Quello che si potrebbe definire un programma di pontificato è in Evangelii gaudium. Lo trovate lì. Voglio ricordarvi una cosa che riguarda la predicazione. Per me è molto importante trovare predicatori che siano vicini alla gente e a Dio. Mi piacciono i sacerdoti che predicano per otto minuti e dicono tutto. E poi la misericordia: perdonate sempre! Se uno chiede perdono, voi perdonatelo. Confesso che in 53 anni di sacerdozio non ho mai rifiutato un’assoluzione. Anche se era incompleta (…). Dio capisce tutto».

In verità il Papa Francesco tante volte è tornato su questo medesimo argomento: «predicano per otto minuti e dicono tutto». Le due cose tornano insieme e per un giusto motivo: la brevità deve essere riempita di contenuto, e il contenuto deve essere ragionevolmente breve.

Scriveva papa Benedetto XVI nell’esortazione seguente al sinodo sulla Parola di Dio (30 settembre 2010): «La tradizione patristica e medievale ha utilizzato un’espressione suggestiva: il Verbo si è abbreviato». «I Padri della Chiesa, nella loro traduzione greca dell’Antico Testamento, trovavano una parola del profeta Isaia, che anche san Paolo cita per mostrare come le vie nuove di Dio fossero già preannunciate nell’Antico Testamento. Lì si leggeva: “Dio ha reso breve la sua Parola, l’ha abbreviata” (Is 10,23; Rm 9,28) …».

In realtà il passaggio dal profeta a Paolo è molto complesso da un punto di vista lessicale, e tuttavia così prosegue Benedetto: «il Figlio stesso è la Parola, è il Logos: la Parola eterna si è fatta piccola – così piccola da entrare in una mangiatoia. Si è fatta bambino, affinché la Parola diventi per noi afferrabile». Adesso, la Parola non solo è udibile, non solo possiede una voce, ora la Parola ha un volto, che dunque possiamo vedere: Gesù di Nazareth» (Verbum Domini 12).

Anche san Francesco domandava ai frati predicatori di usare brevità di parola (RB 9,4). Il motivo è questo: quia verbum abbreviatum fecit Dominus. Nei tempi passati Dio parlò molte volte e in vari modi per mezzo dei profeti. La sua parola si è prolungata per secoli.  Ora invece parla per mezzo del Figlio, che è la sua parola breve. Questa parola si fa carne in Gesù e riassume in sé tutta la rivelazione: Dio è amore.  Scriveva un monaco cistercense, Guerrico d’Igny (1080-1157): «egli è la parola condensata, in maniera tale che in essa si trova il compimento di ogni parola di salvezza, poiché egli è la parola che in sé compie e sintetizza il piano di Dio. Non dobbiamo stupirci se la Parola ha riassunto per noi tutte le parole profetiche, vedendo che ha voluto ‘abbreviare’ e in qualche modo rimpicciolire sé stessa».

Perciò anche per San Francesco, i frati minori devono annunciare la parola di Dio incarnata, il Verbum abbreviatum. Al rimpicciolirsi della parola di Dio corrisponde il farsi piccolo di Francesco e dei suoi fratelli: lo stile dell’annuncio francescano sarà quello del farsi minori, cioè più piccoli, come il Verbum abbreviatum.

La Parola di Dio prende casa nella parola umana

Il mantello della Giustizia – Settembre 2024

Formazione e letteratura

 

di Stefano Tarocchi · 

La lettera di papa Francesco pubblicata nello scorso luglio sul ruolo della letteratura nella formazione, quasi in silenzio nel vortice ferocemente folle della comunicazione, ha forse scelto un tema d’antan nel tempo della comunicazione in tempo reale?

Intanto, va detto che è cambiato il destinatario iniziale. Papa Francesco così spiega: «inizialmente avevo scritto un titolo riferito alla formazione sacerdotale, ma poi ho pensato che, analogamente, queste cose si possono dire circa la formazione di tutti gli agenti pastorali, come pure di qualsiasi cristiano».

Francesco parla del «valore della lettura di romanzi e poesie nel cammino di maturazione personale», perché in sostanza «la potenza spirituale della letteratura richiama, da ultimo, il compito primario affidato da Dio all’uomo: il compito di “nominare” gli esseri e le cose (cf. Gen 2, 19-20). La missione di custode del creato, assegnata da Dio ad Adamo, passa innanzitutto proprio dalla riconoscenza della realtà propria e del senso che ha l’esistenza degli altri esseri. Il sacerdote è anche investito di questo compito originario di “nominare”, di dare senso, di farsi strumento di comunione tra il creato e la Parola fatta carne e della sua potenza di illuminazione di ogni aspetto della condizione umana».

«Che cosa guadagna il sacerdote – ed ogni credente – da questo contatto con la letteratura? Perché è necessario considerare e promuovere la lettura dei grandi romanzi come una componente importante della paideia sacerdotale? Perché è importante recuperare e implementare nel percorso formativo dei candidati al sacerdozio l’intuizione, delineata dal teologo Karl Rahner, di un’affinità spirituale profonda tra sacerdote e poeta?».

Ma il papa Francesco non esprime solo un richiamo – anche questo mai sottolineato abbastanza – allo studio serio della teologia nella formazione (permanente?) dei presbiteri, che, di questi tempi, rischia di essere vista una tassa da pagare a chi sostiene di aver ricevuto la chiamata divina (e, forse, sottovalutato nella considerazione di formatori non abbastanza attenti ai segni dei tempi). Purtroppo, stando così le cose, temo che ne pagheremo le conseguenze fra non molto tempo.

Il papa parla espressamente della letteratura, del libro scritto, ossia dell’esperienza di incontrare l’umano nel testo pubblicato come libro, che richiede un impegno attivo a differenza della sua trascrizione in immagini. In questo senso la lettura di un libro non è differente dalla lettura di un dipinto di alto profilo, opera di un vero artista e non tanto di un abile artigiano.

Per questo, la grande letteratura, è anche confronto, ad esempio con un non credente alla ricerca dei semina Verbi. Di fatto, possiamo riconoscere un simile approccio negli Atti degli Apostoli, lì dove si parla della presenza di Paolo all’Areopago (cf. At 17,16-34). Scrive Francesco: «Paolo, parlando di Dio, afferma: «In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: “Poiché di lui stirpe noi siamo» (At 17,28). In questo versetto sono presenti due citazioni: una indiretta nella prima parte, dove si cita il poeta Epimenide (VI sec. a. C.), ed una diretta, che cita i Fenomeni del poeta Arato di Soli (III sec. a. C.), il quale canta le costellazioni e i segni del buono e cattivo tempo».

«Paolo si rivela “lettore” di poesia e lascia intuire il suo modo di accostarsi al testo letterario, che non può non far riflettere in ordine a un discernimento evangelico della cultura. [Nel testo greco originale], egli viene definito dagli ateniesi spermològos, cioè “cornacchia, chiacchierone, ciarlatano”, ma letteralmente “raccoglitore di semi”. Quella che era certamente un’ingiuria sembra, paradossalmente, una verità profonda. Paolo raccoglie i semi della poesia pagana e, uscendo da un precedente atteggiamento di profonda indignazione (cf. At 17,16), giunge a riconoscere gli ateniesi come “religiosissimi” [anche se il termine allude al timore della divinità!]  e vede in quelle pagine della loro letteratura classica una vera e propria preparatio evangelica».

Paolo «ha compreso che la “letteratura scopre gli abissi che abitano l’uomo, mentre la rivelazione, e poi la teologia, li assumono per dimostrare come Cristo giunge ad attraversarli e a illuminarli”. In direzione di questi abissi, la letteratura è dunque una “via d’accesso”, che aiuta il pastore – qui il termine usato riporta all’impianto iniziale – a entrare in un fecondo dialogo con la cultura del suo tempo».

Per arrivare a noi, Graham Greene amava definirsi non uno scrittore cattolico ma un cattolico – tormentato e controverso, e anche messo all’Indice! –, che era scrittore. Se non altro era in buona compagnia nell’ Indice dei libri proibiti, l’elenco – secondo la definizione del vocabolario Treccani – dei libri di cui la «Chiesa, per ragioni dottrinali e morali, condannava con gravi sanzioni la lettura, la pubblicazione e la diffusione». In quell’Index Librorum Prohibitorum voluto da Paolo IV nel 1559, sono finiti il Decamerone di Boccaccio, l’Elogio della Follia di Erasmo da Rotterdam e il Principe di Machiavelli. Pubblicato inizialmente (1557-1571) ad opera del Sant’Uffizio, fu curato in seguito (e fino al 1917!) dalla Congregazione dell’Indice, e successivamente da una sezione della Congregazione del Sant’Uffizio, oggi Dicastero per la Dottrina della Fede. Tale istituto, com’è noto, venne abolito tecnicamente solo nel giugno del 1966, con una notificazione a firma del card. Ottaviani, che faceva seguito alla Lettera apostolica di Paolo VI del dicembre 1965, all’immediata vigilia della conclusione del Concilio.

Peraltro, in pieno conflitto mondiale, già Benedetto XV nel 1917 con un motu proprio aveva soppresso la Congregazione dell’Indice, che da allora diventava una sezione del Sant’Uffizio, cui veniva conferito il compito di «esercitare la censura su libri ed altri scritti». Si comprende bene perché un decreto dell’allora da poco ribattezzata Congregazione per la dottrina della fede (novembre 1966) faceva ancora riferimento all’obbligo di «ricordare nuovamente il valore della legge morale, che vieta assolutamente di mettere in pericolo la fede e i buoni costumi». E tuttavia, tale decreto ricordava che, da quel momento in poi, «coloro che sono incorsi in censure … devono essere considerati da esse assolti, per il fatto stesso dell’abrogazione del canone in parola». Una formula drastica quanto pragmatica!

Già Paolo VI, nella lettera apostolica scriveva che l’organismo pontificio, creato integrae servandae revelatae Religionis depositum, affidava il compito di «esaminare con diligenza i libri che le vengono segnalati e, se sarà necessario, li condannerà, dopo aver tuttavia sentito l’autore, al quale si darà la facoltà di difendersi, anche per iscritto, e non senza aver prima avvertito l’ordinario, come è già stato stabilito nella Costituzione Sollicita ac provida di Benedetto XIV». Questo prima che la notificazione di Ottaviani chiarisse determinati aspetti.

Ma c’è un altro nome e un altro riferimento che ricorre nella lettera del papa del concilio: si tratta ancora di un Paolo, Paolo III Farnese, che nel 1542 aveva fondato la Sacra Congregazione dell’Inquisizione Romana ed Universale. E il nome diceva tutto.

Non si può non avvertire che molta acqua è scorsa sotto i ponti del Tevere, se papa Francesco, nella sua lettera, vergata in maniera quasi rapsodica, definisce la «letteratura come la possibilità di sperimentare nell’arco breve della vita umana infinite letture e punti di vista». Essa «ha così a che fare, in un modo o nell’altro, con ciò che ciascuno di noi desidera dalla vita, poiché entra in un rapporto intimo con la nostra esistenza concreta, con le sue tensioni essenziali, con i suoi desideri e i suoi significati».

Per questo, «la letteratura ci aiuta a dire la nostra presenza nel mondo, a “digerirla” e assimilarla, cogliendo ciò che va oltre la superficie del vissuto; serve, dunque, a interpretare la vita, discernendone i significati e le tensioni fondamentali». Così possiamo concordare con chi ha scritto che non siamo noi a cercare un libro, ma è un libro a cercare noi, come è stato affermato.

Pertanto, «lo sguardo della letteratura forma il lettore al decentramento, al senso del limite, alla rinuncia al dominio, cognitivo e critico, sull’esperienza, insegnandogli una povertà che è fonte di straordinaria ricchezza. Nel riconoscere l’inutilità e forse pure l’impossibilità di ridurre il mistero del mondo e dell’essere umano ad una antinomica polarità di vero/falso o giusto/ingiusto, il lettore accoglie il dovere del giudizio non come strumento di dominio ma come spinta verso un ascolto incessante e come disponibilità a mettersi in gioco in quella straordinaria ricchezza della storia dovuta alla presenza dello Spirito, che si dà anche come Grazia: ovvero come evento imprevedibile e incomprensibile che non dipende dall’azione umana, ma ridefinisce l’umano come speranza di salvezza».

Così «nella violenza, limitatezza o fragilità altrui, abbiamo la possibilità di riflettere meglio sulla nostra. Nell’aprire al lettore un’ampia visione della ricchezza e della miseria dell’esperienza umana, la letteratura educa il suo sguardo alla lentezza della comprensione, all’umiltà della non semplificazione, alla mansuetudine del non pretendere di controllare il reale e la condizione umana attraverso il giudizio. Vi è certo bisogno del giudizio, ma non si deve mai dimenticare la sua portata limitata: mai, infatti, il giudizio deve tradursi in sentenza di morte, in cancellazione, in soppressione dell’umanità a vantaggio di un’arida totalizzazione della legge». Un’allusione al famigerato Indice?

«In questo senso la letteratura aiuta il lettore ad infrangere gli idoli dei linguaggi autoreferenziali, falsamente autosufficienti, staticamente convenzionali, che a volte rischiano di inquinare anche il nostro discorso ecclesiale, imprigionando la libertà della Parola».

In parte questo pensiero rimanda a quell’“ipertrofia dell’ego” che caratterizza tanti tratti della nostra contemporaneità, non esclusi quelli intra-ecclesiali.  

Perciò, «quella letteraria è una parola che mette in moto il linguaggio, lo libera e lo purifica: lo apre, infine, alle proprie ulteriori possibilità espressive ed esplorative, lo rende ospitale per la Parola che prende casa nella parola umana, non quando essa si auto comprende come sapere già pieno, definitivo e compiuto, ma quando essa si fa vigilia di ascolto e attesa di Colui che viene per fare nuove tutte le cose (cf. Ap 21, 5)».

La pienezza dei tempi

Il Mantello della Giustizia – Agosto 2024

«Il governo della pienezza dei tempi» (Ef 1,10)

di Stefano Tarocchi · Nella lettera agli Efesini, all’interno dell’inno che si trova all’esordio («Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo» (Ef 1,3), verso la conclusione troviamo un termine che nel testo originale nasconde la stessa radice della parola italiana “economia”: il «governo della pienezza dei tempi» (Ef 1,10).

Lo stesso termine greco, tradotto però in modo tutto differente, si trova nel capitolo 3 della stessa lettera: «io, Paolo, il prigioniero di Cristo per voi pagani … – penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia di Dio, a me affidato a vostro favore (Ef 3,1-2). nel testo originale c’è una frattura dello scritto, un vero e proprio anacoluto, dovuto alla tecnica usata dall’autore dello scritto, che dettava le sue parole ad uno scrivano, come quel Terzo, che si mette la sua firma nella lettera ai Romani (Rom 16,22).

In origine il termine oikonomia indicava l’amministrazione di una casa di una famiglia, e Paolo lo usò per il suo lavoro di promozione del Vangelo, non a sproposito visto che la Chiesa è la famiglia di Dio (1 Cor 4,1: «ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio »; 1 Cor 9,17: «se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato»; 1 Pt 4,10: «ciascuno, secondo il dono ricevuto, lo metta a servizio degli altri, come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio»).

Nelle lettere di Paolo la stessa radice è regolarmente collegata a “mistero” (Ef 1,10; 3,2.9; Col 1,25-27; 1 Cor 4,1): «facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto».

C’è però un punto da mettere in rilievo: in Ef 1,10 l’attività o il piano non è l’opera di Paolo ma di Dio. Se Dio amministra il governo di tutte le cose, lo fa secondo il suo piano interiore, un piano che comprende la scelta e la redenzione dei credenti (vv. 4-7), nel compimento del suo progetto, nella «pienezza dei tempi». Va comunque escluso ogni riferimento al mistero dell’incarnazione, come in Gal 4,4: «quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge».
Il versetto 10b riprende e rivela il contenuto del mistero che è stato conosciuto (9a); questa rivelazione costituisce il culmine verso il quale si è sviluppato l’elogio dell’autore dello scritto, che com’è noto appartiene alla tradizione paolina secondo quanto sostiene la maggioranza degli esegeti.

Il progetto divino si distende proprio in questa espressione: «ricondurre al Cristo, unico capo (o anche “ricapitolare”) quelle nei cieli e quelle sulla terra». Il medesimo verbo si trova anche in Rm 13,9: «qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: amerai il tuo prossimo come te stesso».

In questo caso il pensiero assomiglia a Col 1,20: «è piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli». Dio ha ricapitolato in Cristo tutto ciò che ha fatto: in Cristo tutto si riunisce in lui; ciò che è diviso è unificato in lui. Una bella certezza in queste stagioni in cui le divisioni e le fratture sono all’ordine del giorno!

Si può correttamente sostenere anche che l’opera divina discende fino all’interno nel suo ministero, all’“amministrazione” dell’apostolo. Questo non significa “divinizzare il ministero”, e tanto meno il ministro, con tutte le conseguenze del caso. È lo stesso apostolo a dircelo: «noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete già saldi» (2 Cor 1,24).

Colui che si considera “servo di Cristo e amministratore dei misteri di Dio” (cf. 1 Cor 4,1) non metterà mai sé stesso al centro, ma il Cristo al cui servizio è stato chiamato. Questa elementare rivoluzione copernicana (un ossimoro?) va messa in particolare rilievo in questi tempi in cui chi annuncia tende, più o meno consapevolmente, ad annunciare solo sé stesso: «come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci?» (1 Cor 10,14).

Come dice il profeta: «io sono il Signore, fuori di me non c’è salvatore» (Is 43,11). Ma «noi stessi abbiamo udito e sappiamo che Gesù è veramente il salvatore del mondo» (Gv 4,42).

Gesù e il suo ambiente: negazione o modello di fede?

Gesù e i suoi familiari

Il Mantello della Giustizia – Luglio 2024

Nel Vangelo di Marco, subito dopo la scelta dei Dodici dal gruppo di tutti i discepoli e dalla folla, l’evangelista apre un nuovo percorso: «in quel tempo, Gesù entrò in una casa e di nuovo si radunò una folla, tanto che non potevano neppure mangiare. Allora i suoi [lett.: “quelli da parte di lui”], sentito, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: «È fuori di sé» (Mc 3,20-21).
Viene messa così in rilievo la sostanziale incomprensione dell’azione di Gesù, come si esprime nel compito affidato ai Dodici, oltre alla loro primaria, sotto ogni profilo, vicinanza al Signore: «per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demòni» (Mc 3,14-15). È probabilmente questo fatto che desta una reazione così drammatica nei confronti di Gesù, proprio ad opera di coloro che sono più vicini a lui, o credono di esserlo a motivo di parentela.
Dal testo del Vangelo, si muove un percorso che mette in luce una interpretazione totalmente negativa del suo agire, ancor più della precedente. Tutto questo ad opera di un altro gruppo, che non ha nulla a che fare con l’origine familiare di Gesù. Infatti, così leggiamo: «gli scribi», definiti senza mezzi termini come coloro «che erano scesi da Gerusalemme, dicevano: «costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del capo dei demòni» (Mc 3,22).
Non dobbiamo stupirci dell’ingresso nel vangelo di Marco di questo gruppo, espressione dell’ambiente di Gerusalemme e non della Galilea, ma il racconto è perfettamente coerente con ciò che l’evangelista ci dice in precedenza, esattamente dopo che Gesù ha risanato un uomo dalla mano paralizzata (Mc 3,1-5). Ciò che annota l’evangelista è presto detto: «i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire» (Mc 3,6): un’alleanza fra centro e periferia,  il tempio di Gerusalemme e i partigiani di Erode Antipa.
La risposta di Gesù a quanti interpretano la sua azione contro il demonio in chiave totalmente negativa è estremamente eloquente, direi quasi di una chiarezza cristallina: «se un regno è diviso in sé stesso, quel regno non potrà restare in piedi; se una casa è divisa in sé stessa, quella casa non potrà restare in piedi. Anche Satana, se si ribella contro sé stesso ed è diviso, non può restare in piedi, ma è finito» (Mc 3,24-26). Quella interpretazione totalmente negativa dell’azione di Gesù è stigmatizzata attraverso un detto tranchant: «chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna» (Mc 3,29).
L’affermazione di Gesù sembra riposare sul senso più drammatico della ribellione contro di lui: «posseduto da uno spirito impuro» (Mc 3,30). Il che è come dire che Gesù libera l’uomo dallo spirito del male perché egli stesso ne è abitato.
Ma il Vangelo torna nuovamente laddove era partito. Sembra quasi che il narratore voglia spiegare di nuovo quell’atteggiamento descritto nel brano iniziale, chiamando in causa la madre – l’unica volta in tutto il Vangelo di Marco! – e i fratelli di Gesù: «giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: «Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano». Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre» (Mc 3,31-35).
Tuttavia, in questo caso i familiari di Gesù non parlano né esprimono alcun giudizio su di lui: sarebbe inconcepibile davanti alla presenza della madre e dei familiari più stretti, così come il Vangelo li designa. E invece Gesù che parla e coglie l’occasione di spostare quel dibattito sul senso della sua missione verso un profilo molto più alto: «chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre» (Mc 3,35). L’evangelista sembra dire che accettando il disegno divino, la sua volontà e soltanto quella, si supera la stessa dimensione della parentela umana, descritta in crescendo nel passaggio da fratello e sorella a madre.
Tutto ciò significa accettare la missione di Gesù e il suo significato attraverso l’agire concreto verso quanti egli incontra, da coloro che egli guarisce dai mali fisici a quanti libera dallo spirito del male.
Questa narrazione estremamente efficace, il cui stile narrativo “mosso” ritroveremo più avanti nell’episodio della bambina di Giàiro, riportata in vita dalla morte che sembrava averla afferrata (Mc 5,22-24.35-43), al cui interno si intreccia il racconto della donna affetta da emorragia (Mc 5,25-34), apre lo sguardo a una comunicazione che stupisce per la sua modernità: la perenne novità del Vangelo.