Note per una teologia «biblica»

Note per una teologia «biblica»

Il Mantello della Giustizia – Agosto 2018

rene-roux-bdi Stefano Tarocchi • «Lasciando da parte l’uso antico …, notiamo come alcuni studiosi contemporanei tendano ad indentifica la teologia con la teologia sistematica, escludendo cioè la teologia storica e quella biblica, quasi non fossero vera teologia. Questo atteggiamento, frutto di una esaltazione unilaterale dell’approccio sistematico nell’insegnamento della teologia nelle facoltà non è in grado di leggere la realtà antica e di cogliere appieno il significato dell’approccio storico ed esegetico nelle opere dei padri. Intenderemo qui teologia non solo come elucubrazione teorica sui dogmi della fede, ma come qualsiasi tentativo di natura storica, esegetica o apologetica di “rendere ragione della speranza che è in voi” (cf. 1 Pt 3,15). Così si è espresso in una relazione ancora inedita il prof. René Roux, patrologo, rettore della Facoltà Teologica di Lugano in un convegno tenutosi lo scorso giugno a Breslavia in Polonia.

Ora già la Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei Verbum così si esprimeva: «la sacra teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio scritta, inseparabile dalla sacra Tradizione; in essa vigorosamente si consolida e si ringiovanisce sempre, scrutando alla luce della fede ogni verità racchiusa nel mistero di Cristo. Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio, sia dunque lo studio delle sacre pagine come l’anima della sacra teologia» (DV 24).

Pertanto «gli esegeti cattolici e gli altri cultori di sacra teologia, collaborando insieme con zelo, si adoperino affinché, sotto la vigilanza del sacro magistero, studino e spieghino con gli opportuni sussidi le divine Lettere, in modo che il più gran numero possibile di ministri della divina parola siano in grado di offrire con frutto al popolo di Dio l’alimento delle Scritture, che illumina la mente, corrobora le volontà e accende i cuori degli uomini all’amore di Dio. Il santo Concilio incoraggia i figli della Chiesa che coltivano le scienze bibliche, affinché, con energie sempre rinnovate, continuino fino in fondo il lavoro felicemente intrapreso con un ardore totale e secondo il senso della Chiesa» (DV 23).

Da queste premesse il capitolo sesto e conclusivo della Dei Verbum («La sacra Scrittura nella vita della Chiesa») invita quanti «attendono legittimamente al ministero della parola» a conservare «un contatto continuo con le Scritture mediante una lettura spirituale assidua e uno studio accurato, affinché non diventi “un vano predicatore della parola di Dio all’esterno colui che non l’ascolta dentro di sé”» (DV 25). Queste ultime sono parole di S. Agostino d’Ippona (Serm. 179, 1).

Recentemente anche il papa Francesco nell’«Esortazione apostolica sull’annuncio del vangelo nel mondo attuale» (Evangelii Gaudium) nota che se «le università sono un ambito privilegiato per pensare e sviluppare questo impegno di evangelizzazione in modo interdisciplinare e integrato» (EG 134), è pur sempre vero che «la semplicità ha a che vedere con il linguaggio utilizzato. Dev’essere il linguaggio che i destinatari comprendono per non correre il rischio di parlare a vuoto. Frequentemente accade che i predicatori si servono di parole che hanno appreso durante i loro studi e in determinati ambienti, ma che non fanno parte del linguaggio comune delle persone che li ascoltano. Ci sono parole proprie della teologia …, il cui significato non è comprensibile per la maggioranza dei cristiani» (EG 158). Dice ancora Francesco, a proposito di chi annuncia la parola, che «il rischio maggiore … è abituarsi al proprio linguaggio e pensare che tutti gli altri lo usino e lo comprendano spontaneamente. Se si vuole adattarsi al linguaggio degli altri per poter arrivare ad essi con la Parola, si deve ascoltare molto, bisogna condividere la vita della gente e prestarvi volentieri attenzione» (EG 158).

Ora, qui si tratta di riappropriarci del concetto antico e perenne di fare teologia attraverso lo «studio delle sacre pagine» perché divengano «l’anima della sacra teologia». Se la «sacra teologia» ha il «fondamento perenne sulla parola di Dio scritta» e nella Tradizione occorre una rivoluzione copernicana, un ritorno al modo antico di fare teologia.

Non una teologia che organizza la Scrittura e la costringe a fare da riprova alle proprie affermazioni – e nei casi più eclatanti il “teologo” che sposa una determinata interpretazione e quella soltanto – ma una teologia umile che nasce, si sviluppa e dialoga con ogni cultura, dentro e fuori gli ambiti accademici, «in religioso ascolto della parola di Dio». Il Dio a cui «piacque nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura. Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (DV 1.2).

Ne è prova il fatto che se «la parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo» (DV 22), ovvero il divino «rivelare sé stesso [Seipsum revelare]… in eventi e parole intimamente connessi» (DV 2), e per questa ragione la Chiesa cura con materna sollecitudine che si facciano traduzioni appropriate e corrette nelle varie lingue» (DV 22), e quindi, a differenza di altre fedi e religioni, non c’è necessità di una lingua sacra, chi fa teologia non può permettersi di sostituire l’ebraico e il greco (e anche l’aramaico) con il suo linguaggio. La Parola di Dio non può essere piegata per le esigenze di sviluppare e manifestare il proprio pensiero.

Per concludere, possiamo ricuperare ciò che dice Papa Francesco a proposito dei predicatori – ed applicarlo ai teologi – «la semplicità ha a che vedere con il linguaggio utilizzato. Dev’essere il linguaggio che i destinatari comprendono per non correre il rischio di parlare a vuoto. Frequentemente accade che i predicatori si servono di parole che hanno appreso durante i loro studi e in determinati ambienti, ma che non fanno parte del linguaggio comune delle persone che li ascoltano. Ci sono parole proprie della teologia o della catechesi, il cui significato non è comprensibile per la maggioranza dei cristiani. Il rischio maggiore per un predicatore è abituarsi al proprio linguaggio e pensare che tutti gli altri lo usino e lo comprendano spontaneamente. Se si vuole adattarsi al linguaggio degli altri per poter arrivare ad essi con la Parola, si deve ascoltare molto, bisogna condividere la vita della gente e prestarvi volentieri attenzione» (EG 158).

 

 

 

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