Il Mantello della Giustizia – Dicembre 2020
Laicità e sacerdozio nel cristianesimo delle origini. In margine ad un volume di Romano Penna
di Stefano Tarocchi • È uscito recentemente, per i tipi dell’editore Carocci di Roma, un prezioso volume di Romano Penna (Un solo corpo. Laicità e sacerdozio nel cristianesimo delle origini, Roma 2020), autorevole studioso di letteratura paolina, docente emerito di Nuovo Testamento alla Pontificia Università Lateranense. Penna è felicemente professore invitato anche alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, con un enorme di un gran numero di studenti – quest’anno particolarmente cospicuo – che si iscrivono ai suoi corsi alla Licenza in teologia biblica. La sua bibliografia di Romano Penna è pressoché sterminata e realmente preziosa, in questi tempi assai complessi.
In queste pagine il prof. Penna si fa una domanda estremamente importante: qual è la differenza fra “laico” e “sacerdote”, i termini che normalmente designano i membri della Chiesa. Ora questa distinzione non compare nei testi più antichi del Nuovo Testamento, che pure sono normativi. In questi scritti emerge piuttosto l’idea di una convergenza paritaria dei cristiani nel costituire tutti insieme una nuova realtà comunitaria definita con varie metafore, tra cui quella di “corpo” che è propria delle lettere paoline, e che dà il titolo al libro.
Tanto per limitarci alla lettera agli Ebrei, che nel canone compare dopo le tredici lettere di Paolo, ma che non è di pugno dell’apostolo, parla soltanto del sacerdozio di Cristo, che egli ottiene in virtù ottenuto dalla sua obbedienza alla volontà del Padre («entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: «Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà»: Eb 10,5-7), e del sacerdozio del popolo di Dio.
Del resto, Gesù di Nazareth non apparteneva alla tribù di Levi, e quindi non poteva essere sacerdote, a differenza ad esempio di Giovanni il Battista, figlio di un sacerdote, Zaccaria. Il Battista rinuncia al ruolo che gli competeva per nascita: egli diventa piuttosto il profeta che «battezza nel deserto e proclama un battesimo di conversione per il perdono dei peccati» (Mc 1,4). A questo battesimo si sottopone scandalosamente lo stesso Gesù.
Non si parla di “sacerdoti” nemmeno nei quattro Vangeli, se non per stabilire le distanze fra quanti appartengono al sacerdozio ebraico, che sono fra i protagonisti fondamentali del progetto che conduce Gesù di Nazareth alla croce.
Peraltro, impropriamente siamo soliti definire i sette personaggi che compaiono nei primi capitoli del libro degli Atti, scelti per coadiuvare gli apostoli, nel servizio (o diaconia), semplicemente come diaconi: gli apostoli «scelsero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosèlito di Antiòchia. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani» (At 6,4-6). Ma soltanto gli scritti paolini più recenti, le “lettere pastorali” (le due lettere a Timoteo e la lettera a Tito), parlano esplicitamente di episcopi, presbiteri e diaconi, in maniera analoga alle lettere di sant’Ignazio di Antiochia (35-107).
Del resto, come potremmo configurare tutti i discepoli del Signore, gli stessi Dodici, lo stesso Pietro e l’apostolo Paolo? E il fatto che lo stesso Papa è tale in quanto vescovo di Roma, e successore di Pietro non meno che di Paolo? Entrambi sono apostoli di Gesù Cristo, dal quale prende origine la comunità di tutti i credenti che noi definiamo come Chiesa.
Di fatto, la comunità dei discepoli di Gesù ha cominciato a sentire il bisogno di mettere come capo e guida delle comunità coloro che avevano ricevuto un ministero specifico, dopo aver preso coscienza che l’imminente ritorno del Signore che attendevano doveva essere spostato nel tempo. Ogni chiesa locale venne stabilita all’interno di un cammino che è vivo ancora oggi. Un cammino che si è arricchito enormemente, si è evoluto e si è forse inevitabilmente appesantito, nei venti secoli e oltre in cui la fede cristiana ha cominciato a diffondersi.
I membri della nuova comunità, che comprende non solo giudei e greci, schiavi liberi, uomini e donne, ma anche i ministri ecclesiali insieme a tutti gli altri membri della comunità avevano questa caratteristica: i primi non sono mai chiamati sacerdoti, i secondi non sono mai chiamati laici. Fra essi non ci sono neppure contrapposizioni per sé, se non con semplici funzioni differenziate.
Non possiamo negare che esiste una continuità fra l’inizio e l’oggi, che certamente però non risiede in quella terminologia che normalmente viene usata. Quest’ultima tiene scarsamente conto che Colui che non poteva essere sacerdote per nascita diventa sommo sacerdote. Lo dice ancora la lettera agli Ebrei: «pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì, e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchìsedek» ( Eb 5,8-10).
E, contemporaneamente, è lo stesso Gesù che fa diventare sacerdoti tutti i componenti il popolo di Dio, a partire dal battesimo: «con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati (Eb 10,14)».
Questo volume parla ai credenti, ma ha anche un compito non di secondaria importanza: «informare quanti sono estranei alla fede cristiana sul vero andamento delle vicende e ricordare ai cristiani la memoria degli effettivi inizi storici della loro speciale identità» (p. 10). Se andiamo alle origini e scandagliamo gli scritti cristiani fondativi, in confronto con l’ambiente religioso del tempo, sia greco che ebraico, possiamo a buon diritto prendere atto di quale sia l’autentico DNA del cristianesimo. È la lezione preziosa di Romano Penna.